Canarini al microonde - Capitolo III
Capitolo III
Le esatte parole che
pensò Michele quando vide il cosiddetto amico eterissimo di
Valentino furono “questo mi prende per il culo”.
Era alto, molto alto, e
per tutta la lunghezza del suo corpo non c'era nemmeno una singola
particella che potesse scorrere davanti agli occhi inquisitori dei suoi
senza destare sospetti. Portava pantaloni aderenti, una maglia
improponibile a stampa batik arcobaleno e un paio di Converse viola,
che dovevano essere di un numero tra il 45 e il 50 ed erano
perfettamente in tinta con la sua macchina, parcheggiata poco distante.
Era anche biondo e Michi
si stupì di constatare, guardando i peli delle braccia e non
le sopracciglia, perché era girato di spalle, che fosse
biondo naturale. I suoi erano profondamente convinti che i ragazzi che
si tingevano fossero tutti gay, e non voleva insospettirli ancora di
più. Non che la capigliatura importasse molto, in quel
quadretto omosessuale.
“Eccoci qui.
Lui è Adrian, il mio autista rumeno”, disse
Valentino una volta che ebbe guidato Eleonora e Michele fuori dalla
piazza, in una viuzza laterale dov'era radunato un gruppetto di
manifestanti multicolore. Vale indicò il gigante biondo, che
si voltò e sorrise, guardandolo poi negli occhi senza
aspettarsi spiegazioni.
“Ah, eccoti.
Pensavo fossi sparito con chissà chi. Ehm...
ciao!”, salutò con un vocione inaspettato.
“Amici di Vale? Vi devo portare da qualche parte,
vero?”
Oh mio Dio,
pensò Michele, non può essere vero.
Deve togliersi quegli occhiali ridicoli.
“Beh, non
tutti e tre. La ragazza è automunita”, gli rispose
Valentino. Poi fece un ampio gesto con le braccia come a voler
circondare una situazione troppo grande e complessa e
scrollò le spalle, guardando Michele. “Su, su,
presentatevi. Fate amicizia, da bravi.”
Adrian obbedì
immediatamente, porgendo la mano a Eleonora e facendole un ampio,
bianco sorriso. Sollevò gli occhiali da sole, tondi e rosa
come il peggiore degli incubi di Michele, per donarle uno sguardo
ammaliatore. “Io sono Adrian, piacere di
conoscerti.”
Michele si
girò verso Vale, mosso dalla curiosità che la
conversazione di poco prima aveva acceso in lui. Il tipo con i capelli
grigi gli aveva messo in moto qualcosa nello stomaco, una sorta di
ansia di fondo, un'insicurezza data da qualche emanazione di quello
strano personaggio. Era così sicuro di sé,
così interessante, eppure non riusciva a capire
né chi fosse oltre la recitazione sfacciata né
cosa lo agitasse tanto di lui. Voleva sapere, voleva capire, voleva
vedere fino a che punto potesse dire di combaciare con quello
sconosciuto. Ormai da qualche tempo aveva sviluppato la teoria,
più inconscia che intellettuale, che i rapporti tra le
persone fossero regolati dalla ricerca di sé nell'altro.
Voltandosi non si
sorprese di notare gli occhi al cielo di Valentino, reazione alle
parole di Adrian che qualche minuto prima, con il suo muto assenso,
aveva definito ipocrite. Si aspettava un simile moto di
disapprovazione, benché scherzoso; la teatralità
di Valentino doveva per forza nutrirsi di qualche copione, e a Michele
quello sembrava familiare. Senza preavviso alcuno, come fossero amici
di lunga data, i due si scambiarono uno sguardo d'intesa caldo e
complice, lungo abbastanza da sciogliere una tensione di cui fino a un
momento prima non si era accorto dell'esistenza.
Nel giro di un secondo
Adrian si era già rivolto verso di lui, lasciando Eleonora
boccheggiante di fronte a tanta figaggine, mentre Vale aveva distolto
lo sguardo e ripreso a guardare il suo amico ondeggiando sulle lunghe
gambe.
“Adrian,
piacere. Ma... cos'è quella roba che hai in testa? Hai la
febbre?”
Michele si
tastò la fronte, ricordandosi solo in quel momento del
fazzoletto bagnato con cui Ele l'aveva costretto a tamponarsi la fronte
e che fino a quel momento era rimasto legato intorno al capo,
scaldandosi fino a perdere tutta la sua utilità.
“Ehm... no. Mi
sono sentito male per il caldo.” Sulle ultime parole, quando
Adrian portò in avanti il lungo braccio flettendone i
muscoli per scacciare un insetto, soffocò in un conato
d'invidia. Occhiali e scarpe esclusi, si ritrovava davanti al tipo
d'uomo che lo faceva piangere la sera, prendendosi a pugni le cosce
fino a non sentirle più e sognando di avere un corpo forte,
maschile, solido come quello che aveva davanti agli occhi in quel
momento, così tangibile da dare la nausea.
Oltre ad essere alto e
snello aveva un bel viso sorridente, sopracciglia dritte sugli occhi
nocciola e un innocentissimo paio di fossette incastrate tra le
lentiggini. Era affascinante, bello in modo molto semplice e pulito, e
anche se aveva i modi e le movenze di chi è ben consapevole
del proprio aspetto non dava, di primo acchito, l'impressione d'essere
arrogante.
Nonostante l'invidia,
qualcosa nell'allegria di Adrian salvò il suo umore prima
che precipitasse. “Mi chiamo Michele, comunque.”
Il suo interlocutore non
sembrò stupito. Cazzo, sono passato anche con
lui. Oggi è il mio giorno fortunato. “In
che senso sei stato male? Oddio, povero.”
“Nulla di
grave, un colpo di calore. Ora sto meglio... mi fa solo un po' male la
testa.”
“Se dire cose
senza senso non è nulla di grave...” Valentino
ridacchiava a fianco di Adrian, tenendo un braccio sulla sua spalla
nonostante fosse più basso di lui di qualche centimetro.
Erano completamente diversi, ma sembravano in gran sintonia, e una
volta ogni tanto si scambiavano qualche sguardo ridente.
Chissà da quanto si conoscevano. “Lo ammetto, un
po' mi ha fatto impressione”, disse rivolto più ad
Adrian che a Michele. Il suo amico biondo, di rimando, gli sorrise in
modo strano.
“Beh, non
sembravi proprio tanto sconvolto”, replicò
Michele, notando il tono vagamente derisorio dell'altro.
Cercò di non dare a vedere quanto fosse piccato dal suo
comportamento e dalla situazione umiliante.
Ele non lo
aiutò nei suoi intenti, portandosi le mani alla bocca in un
gesto esagerato, da fumetto, solo senza un GASP! scritto accanto.
“Veramente dicevi cose senza senso? Oh Gesù, mi
dispiace tanto! Non dovevo lasciarti da solo... mi dispiace mi dispiace
mi dispiace!”
Gli andò
vicino e tento di abbracciarlo, gesto che lui eluse prendendole le mani
tra le sue in una stizza controllata. “Eleonora, ti prego,
tranquilla. Non dire queste cose. Non è che se tu ci fossi
stata mi avresti salvato... da cosa, poi?” Sospirò
lasciando la presa. “Sto bene. Non capisco perché
tu insista per farmi andare in ospedale. Anzi, guarda, ho cambiato
idea. Non ci vado più, mi sono rotto le palle. E non sono il
tipo da scroccare passaggi per niente.”
“No, no, ci
devi andare!”
“Concordo con
lei. Non sei un peso, caro, mi piace conoscere gente nuova. E poi devo
portare a casa una ragazza che vive vicino al Sant'Anna.”
Ele sembrò
confortata dal fatto che Adrian fosse d'accordo con lei.
“Eddai, Michi! Fallo per me. Mi sento troppo in
colpa.”
“Non me la
sento, Ele.”
“Guarda che
non devi obbligatoriamente chiamare i tuoi, eh.”
“Ok,
però mio padre al pronto soccorso del Sant'Anna ci lavora.
Mi sentirei una merda se dovessi dirti di sparire per non
insospettirlo.”
“Me ne frega
zero! So che sei figlio di Satana e Belzebù, mica mi
offendo.”
Michele
ridacchiò e rifletté qualche secondo. La
possibilità di trovare suo padre era infima, dato che il
pronto soccorso vedeva entrare e uscire dalle sue porte qualche
migliaio di persone ogni giorno.
“Ok, dai, ti
faccio questo favore. Magari mi danno anche qualcosa per il mal di
testa.”
“Bravo
ragazzo”, disse Valentino, che fino a poco prima si era
tenuto in disparte. “Anche mia madre lavora al Sant'Anna,
è un'infermiera.”
“Davvero? Mio
padre è un chirurgo. Ricuce quelli che arrivano
lì d'urgenza, persone che hanno fatto incidenti e
quant'altro. Cose sanguinose.” Secondo me
è per questo che è uno schizzato,
aggiunse mentalmente.
Valentino lo
guardò per la prima volta con autentica
curiosità. Fino a quel momento aveva assunto l'atteggiamento
noncurante di chi è poco interessato alle altre persone e
alle situazioni estranee a sé, ad eccezione che con Adrian,
a cui erano dedicati battute e sguardi allusivi intenzionati a farlo
ridere. Ora che aveva scoperto qualcosa di più su Michele
invece aveva rizzato le orecchie, e a giudicare dallo sguardo neutro e
assorto che gli rivolse stava macinando qualche pensiero in testa, come
se fosse diventato tutto ad un tratto un soggetto degno di nota.
Più lo
guardava, meno questo Vale gli sembrava decifrabile. Dall'abbigliamento
temeva fosse un hipster, ma non ne era sicuro; gli hipster di solito
gli stavano sulle palle dal primo sguardo.
“Allora,
c'è una microscopica probabilità di farci dare un
passaggio per casa o devo perdere le speranze?”
Una ragazza riccia e
minuta spuntò dalla calca reggendo un borsone pieno di roba
– bandiere, cartelloni, volantini e una cassa altoparlante.
Si accompagnava a una coetanea col capo chino sul cellulare, alta,
zainomunita e rossa di capelli, che nella distrazione le
urtò una spalla facendole volare via qualche
dépliant.
“Cazzo, Edith,
potresti avere la decenza di aiutarmi invece di stare su
Whatsapp!”
Edith? A
Michele quel nome era familiare.
“Non rompere,
sto cercando di scrivere a Fede.”
“Non mi
interessa! Raccogli quei fogli e dammi una mano!”
Poi la ricciolina
posò la borsa a terra e si precipitò ad
abbracciare Adrian, volandogli al collo come un passerotto.
“Adrian bello! Ti sei divertito oggi? Scusa se non sono stata
molto presente, ho avuto parecchio da fare.”
“Tranquilla,
Dani, vivo anche senza te che mi ronzi intorno. Guarda caso spunti
giusto in tempo per scroccare un passaggio, eh?”
“Pensi sempre
male. Cazzo, scusami!” La ragazza era ridiscesa in un balzo
atterrando su un piede dell'amico, che aveva emesso un lamento di
dolore. “Te lo giuro, ho finito ora di raccogliere la roba.
Non arrivo a farti compagnia solo per farmi riportare a casa.”
“Ti credo, ti
credo. Il piede mi serve per frenare, però.”
La rossa Edith, nel
frattempo, aveva rimesso nel borsone i dépliant volati via e
aveva riposto il cellulare. Si guardava intorno annoiata, facendo un
cenno con la mano ogni tanto a persone che la salutavano.
“Ciao,
ragazzi!”, salutò caldamente Adrian e Vale una
volta che Dani si fu defilata.
Michele ebbe qualche
secondo per riconoscere quelle membra allungate. Erano molto diverse da
come se le ricordava, rese dagli anni più affusolate di come
apparivano nei suoi ricordi, ma quando la osservò in viso i
suoi grandi occhi verdi non gli lasciarono dubbi.
Prima ancora che potesse
richiamare la sua attenzione fu lei ad alzare la testa, notarlo
lì in piedi e emettere un grande strillo.
“MICHI!”
Le sopracciglia di Edith
avevano sempre avuto una forma particolare, accentuatasi col crescere
della ragazza; scendevano austere e spesse sugli occhi e verso
l'esterno curvavano dolcemente verso il basso, in contrasto con le
labbra sottili con gli angoli sempre all'insù.
Mentre i due amici
chiacchieravano nella Panda sovraffollata di Adrian, gli scatti
espressivi di quelle sopracciglia cullarono Michele tra risate e
ricordi d'infanzia, vissuti con quella che era stata la sua storica
migliore amica dal primo giorno di scuola prima elementare.
Lui e Edith avevano
sempre frequentato la stessa classe, dalle elementari alle medie, e
avevano sempre abitato nella stessa via; entrambi provenivano da
famiglie benestanti ed entrambi erano nati con un certo spirito da
ribelli combinaguai. Tra loro c'era stata la classica amicizia tra
bambini con caratteri e vissuti molto simili, partita da una litigata
per finire in associazione a delinquere: tutte le punizioni inflitte
dagli insegnanti, le lamentele sulle regole imposte dai genitori e le
risse tra compagni di classe le avevano vissute fianco a fianco,
facendo a botte di tanto in tanto ma sempre stimandosi a vicenda. Per
lui Edith, che quand'erano bambini tutti chiamavano Eddi, era un'amica
e una complice, di cui ammirava la spavalderia e l'irruenza, tanto
diversi dalla sua ritrosia. Lei era quella che lo spingeva a ribellarsi
alla sua famiglia e alla scuola – con disastrose conseguenze,
sì, ma tanta soddisfazione; gli aveva fatto conoscere i
Green Day e la musica house in prima media, coi primi bagliori della
ribellione adolescenziale, e l'aveva incitato a prendere in mano il
basso elettrico per formare una band. Il progetto della band era poi
andato in fumo, mentre la passione per il basso a Michi era rimasta.
L'aveva spesso calmata
dopo i litigi con i suoi genitori, quando la rabbia non avrebbe fatto
altro che peggiorare la situazione. In poche cose differivano, e una
era l'attitudine il proprio ceto sociale: Edith era convinta che i suoi
genitori fossero dei bigotti a causa della loro mentalità
borghese, e da ragazzina, quando litigava con loro, ribadiva sempre
quanto le facesse schifo l'ipocrisia dei suoi famigliari. Un giorno suo
padre, un imprenditore di una certa importanza, si stancò e
decise, visto che “il modo in cui portava a casa i soldi la
disgustava tanto”, di non concederle più alcun
lusso. Niente paghetta, niente videogiochi e niente abiti costosi;
minacciò di mandarla in collegio se non si fosse calmata.
Michele le fece un gran
discorso filosofico per cercare di calmarla, perché secondo
lui non si diventa stronzi essendo ricchi e cattolici, un po' lo si
nasce. Di certo crescere in ambienti ultraconservatori non aiuta, ma
“se tutti quelli nati in famiglie abbastanza ricche sono
stronzi in automatico”, le disse, “vuol dire che
noi siamo stati adottati”. Cercava di capire i suoi genitori,
apprezzando tutte le cose che gli avevano dato – la bella
casa, tanti vestiti, playstation e l'agognato Fender Jazz Bass
– e per cui avevano lavorato sodo; non credeva che la sua
famiglia fosse poi tanto diversa da quella di molti suoi amici. Mal
sopportava di dover curare la sua reputazione, mentendo su tutto e
dovendo dare l'immagine di una ragazzina perfetta ed educata, ma era un
fastidio che riuscì a tollerare fino a una certa
età.
Michele si era pure
invaghito di Edith, in terza elementare. Dalla timidezza non
gliel'aveva mai detto e la faccenda era finita per sempre inscatolata
nella sua soffitta mentale, nell'angolino buio e polveroso delle cose
imbarazzanti. Ricordandosi di quella cotta, in seconda media, si era
reso pienamente conto del fatto che gli piacessero le ragazze.
Dopo la prima superiore
i genitori di Edith, che avevano iniziato a viaggiare molto per lavoro,
decisero di affidare la giovane scalmanata e il fratellino alle cure
dei nonni. Edith partì per la Svizzera. L'ultima volta che
lei e Michele si videro fu una calda sera di luglio, infestata dalle
zanzare. Presero un gelato, chiacchierarono come al solito e il giorno
dopo, senza preavviso, lei lo chiamò piangendo dal treno.
“Sto andando in Svizzera, Michi. Odio quei due
stronzi.”
Non si videro
più. Durante i primi mesi di lontananza si sentirono tutti i
giorni su Facebook, poi poco alla volta i contatti si diradarono fino a
sparire del tutto, dispersi nei duecento chilometri che li separavano.
E ora Edith era
lì, senza più le guance paffute e la lunga
treccia di un tempo, ma con un taglio corto, grandi occhiali da sole e
il cipiglio deciso di una donna forte. Era cresciuta.
Michi la guardava con
gli occhi spalancati, sorridendole felice. Malgrado l'imbarazzo e il
sottile velo di distanza, Edith era sempre la stessa. Tutte le sue
movenze gli riportarono all'improvviso alla mente i ricordi
più disparati, dall'odore della mensa alle elementari ai
pigri pomeriggi preadolescenziali passati a masticare cicche e
atteggiarsi a emo.
“Ma quando sei
tornata? Perché non mi hai cercato prima?”
“Sono qui da
settembre, mi hanno rispedita a Brescia perché mia madre ha
cambiato lavoro. Non viaggia più tanto, quindi ora ha tempo
per prendersi cura di me e Andrea, che ora va alle medie...
è diventato uno scassaminchia, sai?”
Michele
ridacchiò. Il fratello minore di Eddi gli era sempre stato
simpatico. “Che scuola fai?”
“Lo
scientifico. Sono in classe con lei”, disse indicando la
ragazza di nome Dani, seduta alla sua destra, “e Vale va in
quinta nella stessa scuola.”
“Vale? Vale
cosa?”, chiese l'interessato, girandosi verso di loro dal
sedile del passeggero.
“Dicevo a
Michi che andiamo a scuola insieme. Sai che eravamo migliori amiche
quand'eravamo piccole? Era da anni che non ci vedevamo.”
L'abitacolo si fece
silenzioso come dopo una pessima battuta, dopodiché
Valentino, facendo finta di nulla, riprese a chiacchierare con Adrian
ad alta voce.
“Eddi, mi sono
dimenticato di dirti una cosa importante.” Michi aveva storto
la faccia in un'espressione di imbarazzo, sentendo lo stomaco torcersi
come un panno bagnato.
“Che
c'è?”
Sputò fuori
tutto il coraggio che aveva, ignorando la tensione. “Sono
trans. È una storia lunga da spiegare ora, comunque sappi
che sono un ragazzo, ecco tutto. Mi faccio dare del maschile da un
annetto circa e tutti quelli che mi conoscono fuori dalla famiglia mi
chiamano Michele.”
Ci fu qualche istante di
silenzio in cui Michi mise su un cipiglio duro, un muro su cui far
schiantare il biasimo di Eddi nel caso si fosse manifestato.
Lei, infatti,
aggrottò la fronte per qualche secondo. Lo guardò
negli occhi, imperscrutabile, per un lasso di tempo in cui Michele
potè solo tacere, guardare altrove e lasciare che un velo di
sudore gli appiccicasse la maglia alla schiena.
“Perché
non me l'hai detto prima?! Mi hai fatto fare una figura di
merda.”
La sua amica d'infanzia
gli sorrideva con candore, facendolo sentire un completo imbecille. Di
cosa si preoccupava, alla fine? Ogni anno sempre più persone
aprivano la mente alle diversità sessuali, non aveva senso
prendersi un coccolone ogni volta che confessava a qualcuno di essere
transgender. I suoi compagni di classe non avevano reagito nel migliore
dei modi, era vero, continuando a dargli del femminile e guardandolo
allarmati se si azzardava a posare innocentemente gli occhi su di una
ragazza, ma non l'avevano nemmeno insultato o picchiato. E ora la sua
amica l'aveva accettato come nulla fosse.
Scoppiò a
ridere, sentendosi in colpa per aver sospettato dell'apertura di vedute
di Eddi.
“Sei sempre il
solito.”
Buonasera, gentili
lettori.
Il capitolo di oggi, in realtà, l'ho finito un paio di
settimane fa, ma ho avuto tempo di metterlo online solo oggi
causa scuola e stanchezze varie.
Non ho molto da aggiungere, se non: vi vedo, lettori silenziosi! So che
una quindicina di persone segue la storia e qualcuno l'ha addirittura
messa tra i preferiti, ma non vedo molti commenti... vi prego, recensite.
Non è che se non lo fate non continuo la storia, no, non
sono il tipo da ricattare la gente in questo modo e in ogni caso ho
intenzione di finire la storia a prescindere dal suo seguito.
Però... ecco, le recensioni mi renderebbero felice e scrivo
più volentieri se so che qualcuno attende aggiornamenti e si
è appassionato alla fic. Quindi, please, lasciate un piccolo
commento! E ricordate che sottolineando i miei punti di forza e --
soprattutto -- i miei errori mi aiutate molto ad alzare il livello
della storia.
Passate una buona serata, folks.
- Knet
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