Non so come scusarmi per l'imperdonabile assenza. Spero che
questa storia vi piaccia, anche se non penso che basterà a farmi
perdonare. Ben presto inizierò a postare una nuova storia a capitoli,
ma non riguardo Callie Arizona purtroppo, quindi l'assenza è dovuta
anche al fatto che ho dedicato del tempo a questa storia, soprattutto
ultimamente, anche se so che non è una giustificazione. Questa vuole essere soltanto una shot leggera e carina per alleggerire questa coppia che ormai nel telefilm è spezzata in mille modi...
Buona lettura!
La nostra prima crisi di mezza età
Arriva un momento, nella vita di tutti,
in cui per la prima volta di colpo ci sconvolge la consapevolezza di
qualcosa che fino a quel preciso istante non era stata altro che una
piccola, minuscola ombra, nascosta nell'angolo più lontano della
nostra mente.
Una donna trova un capello biondo sulla
giacca del marito, scopre una chiamata o un messaggio sul cellulare,
si imbatte per sbaglio nel compagno quando lui aveva detto di essere
fuori città. Ed ecco che improvvisamente vengono scoperte amanti
ventenni, tresche amorose, relazioni torbide.
Lei ride troppo ad una battuta, lui la
guarda un secondo più del dovuto, i loro baci sono dati con qualcosa
che va oltre l'affetto e all'improvviso capiscono di essersi
innamorati.
Due genitori che trovano preservativi
in camera del figlio o un test di gravidanza in camera della figlia e
si rendono conto che non sono più bambini. Oppure vedono che lo
sfondo del cellulare del loro figlio è una foto di lui che bacia un
altro ragazzo. E lo capiscono.
Così.
Di colpo.
Un fulmine a ciel sereno.
Ma è davvero così? Qualche nuvola
doveva pur esserci all'orizzonte.
Il fatto è che gli indizi sono tutti
lì, sono sempre stati lì fin dal primo momento. Sono proprio quello
che vediamo tutti i giorni con la coda dell'occhio e a cui non
facciamo mai caso.
Finché un giorno, senza preavviso, la
realtà che fino a quel momento si era celata alla nostra
consapevolezza nascondendosi nel nostro subconscio ci si rivela più
chiara che mai.
“Non è una cosa così assurda, ormai
lo fanno tutti.”
“Oh, quindi se tutti saltassero giù
da un...”
“Ti prego mamma, non finire quella
frase. È così cliché!”
Continuai a sistemare i piatti sulla
tavola mentre lei si occupava delle posate.
“Beh, lo è anche farsi un tatuaggio
perché lo fanno tutti e ritrovarsi un paio d'anni dopo con una
cicatrice ripiena di inchiostro su una chiappa con su scritto Pedro.”
“Santo Cielo, mica mi voglio tatuare
il nome di un tizio. È solo una piccola, minuscola rosa sulla
caviglia!”
“Beh, lo farai quando non vivrai più
sotto il mio tetto, Sofia.”
Lei sbuffò, alzando gli occhi al
cielo.
“Prima era finché non diventi
maggiorenne, adesso che sto per compiere diciotto anni è diventato
finché sei sotto il mio tetto, poi sarà finché ti mantengo io”
mi rinfacciò. “La verità è che io sono un'adulta ormai e tu
dovresti accettarlo, mamma. Ormai queste cose non puoi più capirle.
Sei vecchia.”
E fu in quel preciso istante che il
mondo si fermò.
Che ogni immagine che fino a quel
momento avevo visto solo con la coda dell'occhio approdò finalmente
sulla riva della mia coscienza, portandomi a quella sconvolgente
epifania.
Tutto aveva improvvisamente senso.
I primi capelli bianchi, i dolori
muscolari dopo operazioni che duravano una mezza giornata ma che fino
a qualche anno prima non mi avevano mai dato problemi, i figli che
stavano ormai crescendo. Era tutto lì. Avevo solamente scelto di non
vederlo fino a quel momento.
Rimasi immobile, con gli ultimi due
piatti in mano, a guardare mia figlia ridere della sua stessa
battuta, ma sapere che stava solo scherzando non mi consolò. In
fondo, in ogni battuta c'è sempre un fondo di verità.
Forse non ero vecchia. Ma, di sicuro,
stavo invecchiando.
Fu così che per la prima volta, alla
tenera età, per così dire, di quarantasei anni, mi sentii come se
avessi già un piede nella fossa.
Più tardi, quella stessa sera, stesa a
letto e con gli occhi completamente spalancati a fissare il buio,
riflettei su ciò che mi aspettava il giorno successivo.
Avevo la sveglia alla stessa ora a cui
era stata impostata negli ultimi quindici o forse anche vent'anni,
poi mi sarei alzata, avrei svegliato i miei figli, avrei fatto
colazione con la mia famiglia. Noi sei, seduti a tavola, negli stessi
posti di sempre. Io a capotavola, mia moglie alla mia sinistra, Sofia
alla mia destra, accanto a loro rispettivamente Sara e Jessica, le
gemelle, e a capotavola, proprio davanti a me, il piccolo Jamie.
Dopo la colazione avremmo accompagnato
i ragazzi a piedi alla fermata del bus e poi saremmo andate a lavoro,
dove personalmente avrei passato tutto il giorno a fare sempre gli
stessi interventi. Bacini fratturati, ossa rotte, costole frantumate.
Poi mi sarei fatta due ore in pronto soccorso dove per lo più stavo
seduta a rimettere in sede spalle slogate. Poi sarei tornata a casa
ed avrei preparato la cena mentre mia moglie metteva a posto il
casino che i nostri figli seminavano per tutta la casa. Avremmo visto
un film tutti insieme oppure se uno di loro doveva prepararsi per un
test li avremmo ascoltati ripetere.
Alle undici a letto.
Alle sette sveglia e di nuovo in piedi.
Alle undici a letto.
Io alle undici di sera andavo a letto.
Io. Callie Torres. Io che ero una superstar con un bisturi. Che non
avevo mai preso in considerazione di andare a letto prima dell'una di
notte o di andare a letto sobria di sabato sera, andavo a dormire
alle undici.
Capivo che i miei figli dovessero farlo
perché il giorno dopo avevano scuola e dovevano dormire otto ore e
tutte quelle cavolate. Ma perché lo facevo anch'io? Avevo preso
l'abitudine ad andare a dormire alla stessa ora dei miei ragazzi
adolescenti, nonostante non dormissi mai otto ore a notte ma spesso e
volentieri ci mettessi una vita per prendere sonno o, al contrario,
fossi in piedi con largo anticipo rispetto alla sveglia.
Quindi il giorno successivo sarebbe
stato esattamente come tutti i giorni prima di quello, nella media.
E il giorno dopo ancora?
Stessa cosa.
E quello dopo?
Uguale.
E così all'infinito, la mia vita
poteva essere considerata ormai una rimanenza di giorni fatti tutti
allo stesso modo.
Certo, Sofia l'anno successivo sarebbe
partita per il college, i ragazzi sarebbero cresciuti, magari avremmo
comprato un nuovo frullatore. Ma si sa, più le cose cambiano, più
rimangono esattamente le stesse.
Quindi rimasi lì, gli occhi aperti, le
braccia tese lungo i fianchi sopra le lenzuola. Immobile. Come se
stessi già svanendo.
Aspettai che la sveglia suonasse già
seduta e con le pantofole addosso. La spensi immediatamente e mi
diressi verso il bagno. Entrai nella doccia, svegliai i ragazzi e
preparai la colazione, riuscendo a dire in totale una manciata scarsa
di parole.
“Stai bene? Sei stata silenziosa
tutto il giorno” chiese mia moglie quando ci sedemmo
nell'auditorium dell'ospedale per quello che doveva essere un
convegno sulla fiducia in se stessi e nei propri colleghi e cavolate
simili. Qualche strano discorso motivazionale di sicuro. Ma almeno
non dovevo concludere la giornata con due ore di pronto soccorso.
“Ma sì, sto bene” risposi,
accennando un sorriso debole.
Il discorso iniziò, ma io avevo la
testa da un'altra parte.
Quando lei se ne accorse mi sfiorò la
mano, replicando la domanda. Io mi limitai ad annuire, cercando di
concentrarmi su quello di cui il tizio stava parlando ormai da
quaranta minuti.
“In definitiva, non lasciate mai che
le redini della vostra vita vi sfuggano di mano e non dimenticate che
l'unica persona in controllo di voi, siete voi stessi. C'è qualcosa
che non vi piace nella vostra vita?”
“Sì” mormorai con una risatina
ironica.
“Cambiatela.”
Quello mi colse di sorpresa. Le persone
non cambiavano radicalmente la propria vita dall'oggi al domani.
Però la mia era cambiata, anche se era
stato un processo graduale. Quindi forse bastava solo che invertissi
il processo per poter riportare la scintilla che ormai mancava nelle
mie giornate.
“Vi sentite inutili, insicuri o
trascurati?”
Tutto il tempo. Di continuo.
“Fate la differenza. Fate qualcosa
che vi faccia sentire utili. Passate più tempo con le persone che vi
fanno sentire amati.”
Io passavo tutto il tempo con le
persone che amavo. Il problema forse era che quel tempo era speso in
modi come guardare la televisione o parlare del tempo. Non era speso
nel modo giusto.
“Quando vi trovate a dover scegliere
tra due cose da fare, ovviamente tenendo sempre presenti leggi e
moralità, ma se siete davanti a due scelte equivalenti nella vostra
vita quotidiana, la discriminante da usare è semplice.”
Mi protesi in avanti, rapita dalle sue
parole. Pendevo dalle sue labbra.
“Fate ciò che vi rende felici.”
Ed eccola lì. L'epifania numero due.
La cosa che avevo sempre saputo, la
regola che avevo sempre seguito ma che in chissà come con il tempo
avevo dimenticato.
In qualche modo, per qualche motivo,
inspiegabilmente, lungo il cammino mi ero distratta e avevo smesso di
fare ciò che mi rendeva felice.
Come era potuto succedere? Ma
soprattutto, come potevo rimediare?
Uscimmo dalla sala, mia moglie stava
parlando con Cristina Yang e Meredith Grey di quello che avevamo
appena ascoltato.
“Tutto quel discorso era una cavolata
epocale” fu il commento di Cristina.
“Due ore buttate al vento. Vite
potevano essere salvate in queste due ore” disse invece Meredith.
Loro rimasero sulla soglia mentre io
prosegui, come in trans.
“Che diavolo è preso oggi a Callie?”
domandò Cristina.
“Non ne ho idea, è stata strana
tutta la mattina.”
Alzai di colpo lo sguardo in avanti,
non curandomi delle donne alle mie spalle che stavano parlando di me.
“So cosa devo fare.”
Iniziai a camminare di nuovo, sentendo
ancora per qualche istante la voce di mia moglie che diceva che il
mio, probabilmente, era soltanto stress.
Entrai nel mio ufficio, sedendomi e
appoggiando le mani sulla scrivania.
Era il tempo di cambiare qualcosa. Ma
cosa? E da dove iniziare?
La risposta riecheggiò nella mia
mente.
Me stessa. Ecco la prima cosa da
cambiare.
“Sei pronta?” mia moglie entrò nel
mio ufficio, con la giacca addosso e un meraviglioso sorriso in
volto.
“Sono pronta. Più che mai” risposi, alzandomi e
togliendomi il camice.
Mi misi in fretta la giacca, facendole
segno di precedermi all'esterno.
“Pensavo” le dissi “di tagliarmi
i capelli.”
Oh, era una frase apparentemente così
casuale e innocente. Così random da parte mia.
Come poteva lei sospettare che quelle
cinque parole stavano in realtà dando inizio a quella che, a tutti
gli effetti, fu la mia crisi di mezz'età?
“Mi sembra un'idea carina.”
L'inizio della fine.
“Questa macchina mi ha stancato.”
Due occhi curiosi si voltarono
immediatamente nella mia direzione.
“Che cosa c'è che non va nella
nostra macchina?” domandò la donna al mio fianco.
Era sabato e stavamo accompagnando
Sofia da una sua amica.
“Per cominciare, è vecchia. È molto
sicura, questo è vero, ma ci sono macchine nuove più sicure e molto
più belle. Propongo di cambiare macchina.”
“Quindi, fammi capire bene, vuoi
vendere la monovolume per comprare...quale macchina esattamente?”
chiese Sofia.
“Non lo so ancora. Un BMW?”
“Che cosa, un...sei impazzita?”
domandò la mia dolce metà.
“Non dobbiamo venderlo. Sofia ha
bisogno di una macchina. Il prossimo anno sarà al College dall'altra
parte del paese, giusto? Come si sposterà?”
“Sai, mamma, a New York esistono gli
autobus.”
“Ok, allora vendiamola. È vecchia,
consuma un sacco. Se vi fa sentire meglio con la coscienza la
prendiamo ibrida e facciamo un favore all'ambiente.”
“Una BMW ibrida? Ma almeno esistono?”
“Non ne ho idea. Ma forse è ora di
scoprirlo.”
Fu così che, quella stessa mattina,
dopo aver lasciato Sofia a casa della sua amica, guidai fino al
concessionario.
“Bel modo di passare l'unico giorno
libero da due settimane, Calliope.”
“Non è che tu avessi in mente chissà
quale folle divertimento. Volevi fare la spesa.”
“Ehi! La spesa può essere
divertente.”
“Sì, e lo sarà ancora di più se
andremo a farla con una nuova macchina.”
E fu scendendo dalla macchina, proprio
in quel concessionario, che mi innamorai. No, non del tizio
sudaticcio e tarchiato che voleva venderci una stupida macchina che
amava definire “per signore”, ma di una Mercedes Coupé Classe-S.
“Voglio fare un giro di prova su
quella.”
Due ore e mezza dopo, uscii da quel
concessionario con in mano le chiavi di quella meraviglia.
“Ora, amore mio, possiamo andare a
fare spesa.”
“Se ci sono rimasti dei soldi con cui
fare spesa, visto quanto hai appena speso per una macchina che, tra
le altre cose, non è neanche un'ibrida!”
Mi voltai verso di lei, guardando la
sua aria imbronciata. Con calma, le sorrisi.
Accostai la macchina.
“Provala.”
“Cosa?”
“Prova a guidarla e
poi dimmi che è stata una scelta sbagliata.”
“Posso tranquillamente dirtelo senza
neanche...”
“Scendi, fai il giro, siediti e guida. Ne varrà
la pena. Promesso.”
“Ok, se ti fa sentire meglio lo farò.
Ma non cambierò mai e poi mai idea, neanche tra un milione di anni.
È stata una spesa eccessiva e inutile.”
“Amore. Siamo due primari, possiamo
permetterci una macchina sportiva. Cavolo, possiamo permetterci una
villa con piscina. O un castello in Europa, usando i soldi di mio
padre. Ora vieni qui e guida.”
Quando, qualche ora dopo, mi ritrovai
ad aprire la porta di casa con tre buste in mano mentre mia moglie ne
portava una soltanto perché lei era troppo impegnata a parlare di
quanto fosse fantastica la nostra nuova macchina, ebbi la conferma di
aver fatto la scelta giusta.
Sistemata la spesa, lei mi annunciò
che voleva farsi un bel bagno caldo. Io le dissi che nel frattempo
sarei andata a farmi quel taglio di capelli di cui avevamo discusso
il giorno prima.
Lei annuì, sorridendo, mentre andava
nell'altra stanza.
Allargai le braccia, lasciandole
ricadere pesantemente contro i fianchi con un pesante sospiro.
“Neanche io vedo l'ora di vederti di
nuovo, amore della mia vita” mormorai a me stessa nell'ingresso
ormai vuoto.
Presi le chiavi, uscendo di nuovo.
Quando tornai, due ore dopo, non solo
avevo tagliato i capelli, comprato un nuovo paio di occhiali da sole
e delle scarpe, ma avevo anche trovato la soluzione al problema che
mi ero posta su come cambiare me stessa.
Sport.
Dicono che avere una forma fisica
giovane ti aiuta a rimanere giovane. Ed io mi svegliavo sempre prima
della sveglia in ogni caso. A quel punto potevo alzarmi ed andare a
correre.
Quella sera, a cena, appena tutti
furono seduti e Sofia si fu, come al solito, impossessata del
telecomando, io staccai la spina del televisore e mi sedetti. Tutti
mi guardarono, ancora una volta, del tutto sconvolti dal mio
comportamento.
“Ora faremo conversazione.”
Iniziai a mangiare, mentre tutti ancora
mi fissavano.
“Allora, Sofia, com'è andata la tua
giornata?”
Sara sghignazzò, mentre sua sorella
deglutiva.
“Non ridere, ragazzina. Tu sei la
prossima.”
Improvvisamente anche lei si fece
seria. Calò di nuovo il silenzio.
“Niente da dire? Non c'è niente che
volete condividere con le vostre madri? Nessuno di voi oggi ha fatto
qualcosa degno di nota?”
Silenzio, ancora una volta, interrotto
solo dal rumore della mia forchetta contro il piatto, mentre tutti
gli altri erano immobili.
“Io ho dipinto uno scoiattolo.”
Jamie aveva otto anni, ma era molto in
gamba per la sua età ed aveva un talento particolare nel disegnare.
“Perché proprio uno scoiattolo?”
Lui scrollò le spalle, iniziando a
mangiare a sua volta.
“Gli scoiattoli vivono sugli alberi e
sono liberi e non hanno preoccupazioni. Anch'io voglio vivere su un
albero, dentro una casetta di legno. In più, mi piacciono le noci.”
“Mi sembra giusto, Jamie. Ti va di
farmi vedere il disegno dopo cena?”
Lui annuì, entusiasta.
“Che altro hai fatto a scuola?”
“Ho mangiato del pollo.”
“Bene,
è buono il pollo, no?”
“Molto, però quello che fai tu mi
piace di più.”
“Beh, nessuno batte il pollo alla
Torres.”
Lui rise.
“Allora, Sofia” continuai. “Sicura
che non vuoi raccontarci niente?”
Lei rimase interdetta un istante
ancora, poi iniziò a mangiare, seguita dalle sue sorelle.
“Beh, in realtà delle cose sono
successe” iniziò a raccontare, andando avanti poi per più di
mezz'ora e rendendoci finalmente partecipi di quello che le passava
per la testa.
Chi avrebbe mai detto che bastava
chiedere?
Jamie, appena finito di cenare, mi
portò il disegno.
“Ma è bellissimo, mijo. Uno dei tuoi
migliori.”
“Piace anche a me” disse, mentre si
sedeva accanto a me sul divano.
“Sai che ti dico? Voglio appenderlo.
Domani comprerò una cornice. Che ne dici?”
“Come un quadro?”
“Come un quadro.”
“Fantastico.”
Sorrisi, scompigliandogli i capelli.
“Vai a lavarti i denti adesso” gli
dissi, alzandomi ed andando in cucina per aiutare mia moglie a lavare
i piatti.
O almeno, quello era il mio intento. Ma
appena arrivai sulla soglia mi paralizzai.
Ecco, un'altra cosa che mi ero
dimenticata di guardare.
Una cosa che era sempre stata nella
coda del mio occhio e forse l'avevo data per scontata.
Era come se avessi ricominciato a
vedere.
E quella cosa in particolare, mi
appariva chiara più che mai.
“Arizona?”
Lei si voltò nella mia direzione,
appoggiando il piatto che aveva in mano dentro il lavandino.
“Sì?”
Avrei voluto dire un milione di cose.
Che mi dispiaceva, per esempio.
Che non ero mai riuscita a capire a che
punto le cose avevano iniziato ad essere così banali proprio tra
noi, che eravamo sempre state straordinarie.
Avrei voluto dirle che era colpa mia,
anche se non avevo idea di chi fosse, solo per non incolpare lei.
Ma ogni parola mi morì in gola,
incapace di raggiungere le labbra.
“Sei bellissima. Tutto qui.”
La sua espressione spiazzata mi
mortificò.
Era davvero così raro che le
ricordassi quanto era bella? O speciale? Come avevo reso tutto ciò
che un tempo era un'abitudine un evento così raro, mentre ciò che
prima era inconcepibile era diventata un'abitudine?
Senza aggiungere altro, andai verso la
camera da letto.
Dalla mattina seguente iniziai ad
andare a correre. Ammetto che la prima volta fu dura e riuscii a
malapena a fare un paio di chilometri prima di tornare indietro
esausta.
“Dove sei stata?”
Mi guardò perplessa, notando il mio
fiatone. La sveglia non era ancora suonata.
“Ah, sai stavo” inspirai ed
espirai, cercando di riprendere fiato. “Stavo correndo.”
“Correndo? Che vuol dire che stavi
correndo?”
Si tirò a sedere, guardandomi.
“Beh, sai, è tipo camminare solo che
lo fai più velocemente.”
“So cosa significa, quello che non
capisco è perché lo stavi facendo alle sei di mattina.”
Scrollai le spalle.
“Non riuscivo a dormire e non avevo
nient'altro da fare. Mi faccio una doccia, ok? Torna a dormire.”
Circa un'ora più tardi mi ritrovai a
percorrere il tragitto dalla cucina alla mia camera da letto tenendo
una vassoio con così tante cose in bilico sopra che fu un miracolo
che non rovesciai tutto a terra dopo due passi.
Quando la sveglia di Arizona suonò e
lei si alzò, mi vide davanti a lei. Sorrisi del suo sguardo stupito.
“Ti ho portato la colazione a letto.”
“Lo vedo. Come mai? Mi sono
dimenticata qualcosa?”
“No. È solo un giorno qualunque in
una settimana qualunque e questa è la tua colazione. C'è il
caffellatte, ho già messo la marmellata di ciliegie dentro la tua
brioche come piace a te, ho messo sia una pera che un'arancia perché
sei sempre indecisa su quale mangiare e non sapevo quale avresti
voluto” appoggiai il vassoio sulle sue gambe con il suo aiuto. “Il
cioccolatino è extra rispetto alla colazione standard” scherzai.
Guardò stupita verso il basso e poi di
nuovo me.
“Ti ringrazio. Non ho parole,
davvero.”
“Non è niente di che. Sveglio i
ragazzi e gli faccio fare colazione, ho già preparato anche per
loro. Tu per una mattina rilassati e goditi la colazione in
tranquillità.”
Mi voltai, andando verso il corridoio,
quando la sua voce mi fermò.
“Calliope?”
Mi voltai. “Sì?”
“Che ne dici di...” si schiarì la
voce, spostandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. “Potresti
tornare dopo che hai svegliato i ragazzi e fare colazione insieme a
me” propose. “Dividerò la brioche a metà. Ma il cioccolatino è
mio.”
Annuii ridendo.
“Ne sarei molto felice. Torno tra
poco.”
Il suo sorriso fu abbastanza da
ripagarmi abbondantemente per averle portato quella colazione a
letto.
Stavo uscendo dalla sala operatoria
quando sentii qualcuno entrare. Continuai a lavarmi le mani, alzando
lo sguardo.
“Ho trovato un mazzo di fiori sulla
mia scrivania. Gigli rosa.”
“I tuoi preferiti” notai.
“Già. C'era un biglietto. A quanto
pare sono da parte della mia ammiratrice segreta.”
“Oh, hai un'ammiratrice segreta? Devo
iniziare ad essere gelosa?”
“Calliope, siamo state sposate per
ventidue anni. Penso di saper riconoscere la tua calligrafia quando
la vedo.”
Alzò la mano in cui teneva il
bigliettino.
Io feci una piccola smorfia.
“Ops. Mi hai beccato.”
“Qualche giorno fa la colazione a
letto, ora questo. Per cosa sono i fiori?”
Scollai le spalle.
“Perché sei la donna più bella del
mondo e visto che ti piacciono i gigli rosa ho pensato che fosse un
pensiero carino.”
Lei esitò un momento, riflettendo
sulla mia risposta.
“No, sul serio. Per cosa sono i
fiori?”
Accennai una risata, avvicinandomi a
lei e appoggiandole le mani sui fianchi.
Prima che potesse chiedere di nuovo la
baciai sulle labbra, stringendola contro di me.
“Ti amo” le dissi dopo essermi
allontanata. “I fiori sono lì per ricordartelo.”
Il sorriso che si formò sulle sue
labbra in quel momento, valeva milioni e milioni di gigli rosa e
altri fiori di ogni tipo.
“I gigli sono un bel promemoria. Ti
amo anch'io.”
Stavamo seduti sul divano. Non
guardavamo più la televisione, di sera si parlava. Volevo sapere
cosa provavano i miei figli, se le loro vite andavano bene e tutto
ciò che li riguardava. Beh, almeno la parte che loro volevano
raccontarmi, diciamo.
“Questo divano è diventato
incredibilmente scomodo. Non trovate?”
“Ci risiamo” mormorò Sofia alzando
lo sguardo al cielo.
“Dovremmo cambiarlo.”
“Appunto.”
“Cosa c'è Sofia?” le domandai,
irritata dal suo mormorare a bassa voce.
“Prima hai voluto cambiare la
macchina” mi fece notare. “Poi i capelli. Poi improvvisamente non
potevamo più vedere la televisione a cena o dopo cena perché
dovevamo parlare, ma hai comprato un televisore piatto a dir poco
enorme.”
“Potete vederla di pomeriggio o nel
weekend. Hai visto quanto è bella la nuova televisione? Ce ne
serviva una così. Quella di prima non aveva senso.”
“Questa frase non aveva senso” mi
fece notare Sara.
“Poi hai cambiato il tuo materasso”
continuò Sofia.
“Ragazzina, quel materasso era in
questa casa da più di te. La sua vita era chiaramente giunta al
termine.”
“Poi hai cambiato il tappeto in
soggiorno, ti sei fatta fare dei preventivi per mettere il parquet in
salotto.”
“Cosa che non faremo mai e poi mai”
precisò Arizona.
“Adesso vuoi cambiare il divano. Stai
attraversando questa strana crisi di mezza età in cui compri cose
inutili solo perché puoi.”
Crisi di mezza età.
Mi alzai dal divano lentamente,
guardandola negli occhi.
Pensai a lungo a cosa dire. Ma non è
facile riuscire a spiegare ad un'adolescente quanto le parole
riescano a ferire.
Invecchiare, certo, non è altro che un
processo biologico. Ma per la psiche è molto più complicato di
così. Ed io non riuscivo ancora ad accettarlo del tutto, nonostante
ci stessi provando.
Il punto non era che stavo
invecchiando.
Ma che volevo invecchiare felicemente.
Senza rimpianti o desideri mai realizzati.
“Benissimo” decretai in tono
neutro. “In tal caso non cambieremo il divano.”
Senza aggiungere neanche un'altra
parola, andai in camera mia dove mi stesi a letto, riflettendo sulle
parole di mia figlia.
Forse aveva ragione. Forse quella fase
poteva essere solo come una crisi di mezza età che poi sarebbe
passata. Forse sarei presto tornata a vivere in modo apatico la
mediocrità della routine quotidiana.
Forse.
O forse, volevo semplicemente un divano
nuovo.
Arizona mi raggiunge a letto solo
qualche minuto più tardi.
Si sdraiò al mio fianco, sotto le
coperte e spense la luce.
Ormai da tantissimo tempo non facevamo
più l'amore. Già era raro che ci scambiassimo dei baci più
significativi di un piccolo bacio a stampo. Eravamo sdraiate nello
stesso letto, così vicine. Eppure eravamo così dannatamente
lontane.
Da quanto tempo eravamo così fredde?
Che cosa era successo? Forse niente di particolarmente degno di nota.
Semplicemente l'intimità si era diradata sempre di più fino a
diventare un evento di estrema rarità.
“Se ti va domenica possiamo andare a
scegliere un nuovo divano” la sua voce spezzò i miei pensieri.
Esitai per qualche istante.
“Non abbiamo bisogno di un nuovo
divano” ammisi.
“Ma un divano più comodo sarebbe
carino, che dici? Magari di un colore caldo.”
Voltai la testa nella sua direzione.
“Tu hai scelto la macchina”
aggiunse poi. “Il divano lo scelgo io.”
Continuai con le corse mattutine per
tutto il mese successivo. I dolori alla schiena dopo le operazioni
lunghe sparirono, non avevo il fiatone dopo aver fatto di corsa le
scale, avevo perfino perso diversi chili.
Mi sentivo bene. Anzi, mi sentivo alla
grande.
Quando tornai a casa, quel pomeriggio,
sapevo che ci sarebbe stata solo lei visto che i ragazzi erano ancora
a scuola.
“Amore, dove sei?” urlai,
appoggiando le chiavi e la borsa e togliendomi il giacchetto.
“Arrivo” mi informò dall'altra
stanza.
Io sorrisi a me stessa, prendendo tra
le mani una scatolina e andandole incontro.
“Ti ho preso una cosa” le dissi
baciandola sulle labbra e poi porgendole la scatola.
“Mi hai fatto un regalo?”
“Sì. Aprilo.”
“Per cos'è?”
“Nessuna occasione in particolare.”
Lei aprì la scatola, vedendo una
collana con un pendente argentato a forma di farfalla.
“L'ho vista e mi ha fatto subito
pensare a te, così l'ho presa. Spero che ti piaccia.”
“Oh mio Dio” mormorò, incredula,
con un filo di voce. Per qualche istante continuò a guardarla senza
parlare. “Oh. Mio. Dio” ripeté a voce più alta, richiudendo la
scatoletta e andando a sedersi sul divano mentre si passava una mano
sulla fronte. “Hai un amante” esclamò alzando lo sguardo su di
me.
Quella non era la reazione che mi
aspettavo.
“Io ho” inclinai la testa di lato,
cercando di capire cosa l'aveva portata a quella conclusione, ma
senza risultati. “Cosa?”
“Hai un amante. Non è così? Come si
chiama lui?”
“Lui?” chiesi, spiazzata. “Per
prima cosa, chi dice che sia un lui?”
Io scossi la testa, vedendola agitarsi.
Alcune lacrime iniziarono a formarsi
nei suoi occhi.
“Ok, non intendevo dire...”
Si alzò in piedi, iniziando a
percorrere la stanza a grandi passi.
“La stessa cosa è successa a Jenny.”
“Chi?”
“Jenny” ripeté con enfasi.
“Gestisce il bar in fondo all'isolato. Il marito ha iniziato a
farle regali, darle attenzioni. Proprio come te! La colazione a
letto, i fiori, i gioielli.”
Trattenni a stento una risata.
“Arizona, andiamo. Sai che non lo
farei mai.”
“Lo diceva anche Nathan” mi
rinfacciò.
“Chi?” ripetei io.
“L'ex marito di Jenny” puntualizzò.
“Chi è lei?” il pronome uscì come veleno dalle sue
labbra.
Un paio di lacrime sfuggirono alla sua
ferrea presa, rigandole le guance.
“Oh, no. Ti prego non piangere. Sai
che non sono brava a gestire le lacrime.”
“Dovevi pensarci prima di tradirmi”
mi accusò.
“Ma io non ti ho affatto tradito”
la guardai come se fosse pazza.
“Provamelo!”
“Come sarebbe a dire” mormorai.
“Che fine ha fatto 'innocente fino a prova contraria'?”
“E allora perché?”
“Ma perché cosa?” chiesi
incredula.
“I gioielli!” sventolò in aria la
scatoletta che teneva in mano, come a voler sottolineare le proprie
parole. “I fiori, la colazione a letto, i complimenti, i sorrisi,
il fatto che ti alzi alle sei di mattina ed esci di casa, per
iniziare” continuò imperterrita.
“Vado solo a correre.”
“Già, sei in forma smagliante,
Calliope. Per chi lo stai facendo?” mi guardò, pretendendo di
avere un'aria minacciosa nonostante le lacrime.
Scoppiai in una risata ironica, alzando
le braccia e poi rifacendole cadere pesantemente lungo i fianchi.
“Per te. Chi altro altrimenti? Beh, e
per me stessa” aggiunsi in un secondo momento.
Quello la colse totalmente di sorpresa.
“Per me?”
“Sì. Ovviamente, per te. È sempre
stato tutto per te.”
“Ma” protestò debolmente. “Ma io
sono sempre stata qui.”
Distolsi lo sguardo, appoggiandomi le
mani sui fianchi e sospirando.
“Solo perché sei qui non significa
che vorresti essere qui. Non voglio che tu sia qui. Voglio che tu sia
mia.”
Le lacrime si asciugarono mentre
pensava alle parole che avevo appena pronunciato.
“Che ci è successo?”
“Non lo so” scossi la testa,
guardando in basso.
“Tu” iniziò, ma la voce la tradì.
“Non mi guardavi più come prima.”
“Certo che ti guardavo come prima.
Solo che ho iniziato a farlo solamente quando non potevi
accorgertene.”
“Perché mai?”
“Perché non sembrava che tu volessi
più che ti guardassi come prima” spiegai come se fosse la cosa più
scontata del mondo.
Il silenzio che seguì le mie parole fu
come un pugno allo stomaco. Come la silenziosa conferma di tutte le
mie paure.
“Senti, io non so in quale maledetto
istante le cose hanno iniziato ad andare storte” le dissi,
sospirando. “Ma mi dispiace. Dico davvero.”
Non sapevo che altro dire.
Avevo un nodo che mi attanagliava la
gola e sentii le lacrime salire anche nei miei occhi.
“Vuoi che vada via?”
Non sapevo neanche io cosa significasse
quella domanda.
Via da dove, poi? Da quella stanza, da
quella casa, dalla sua vita?
E per andare dove? Non avevo mai avuto
altra casa oltre lei.
Lei riaprì la scatolina che aveva in
mano, fissando un'ultima volta il ciondolo, prima di richiuderla ed
appoggiarla sul tavolo alla mia destra, tenendo lo sguardo basso mi
si avvicinò senza guardarmi neanche per un istante.
“Arizona, vuoi che vada via?”
ripetei in un sussurro.
Lei, continuando la sua intensa
contemplazione del pavimento, mi si avvicinò e appoggiò le mani
sulle mie spalle con timidezza. Come se fosse la prima volta che lo
faceva o che mi stava così vicina.
Chiuse gli occhi e si alzò in punta di
piedi, avvicinando il suo viso al mio.
Non riuscii a staccare gli occhi dal
suo viso neanche per una frazione di secondo. Rimasi perfettamente
immobile, trattenendo addirittura il fiato, nell'attesa di scoprire
che cosa avrebbe fatto.
Alzò il mento verso l'alto, arrivò ad
un centimetro dalle mie labbra e poi abbassò di nuovo la testa, come
se ci avesse ripensato.
Ma fu solo un istante di esitazione.
Alzò di nuovo la testa, fino al punto
in cui le sue labbra toccarono le mie.
Fu un bacio morbido, ma veloce.
Fu a quel punto che mi guardò negli
occhi.
E lì, proprio lì, la vidi. La mia
Arizona. Mia.
La baciai una seconda volta, mettendo
in quel bacio tutta la passione che in qualche modo avevo chiuso a
chiave dentro me stessa.
Lei rispose con altrettanta veemenza,
immergendo una mano tra i miei capelli e stringendo la presa sulla
mia maglia con la mano che aveva sulla mia spalla destra.
Un secondo dopo era premuta contro la
parete alle sue spalle ed io avevo una mano sul suo fianco sinistro,
sotto la maglia.
Fui attraversata da quella familiare
sensazione di euforia e vertigini.
Ma, un istante dopo, si allontanò,
premendo le mani sulle mie spalle e spingendomi indietro.
Mi bloccai immediatamente, guardandola.
Si staccò dal muro, facendo ruotare
entrambe di centottanta gradi ed iniziando a camminare all'indietro
verso il corridoio che conduceva alla nostra camera da letto,
riprendendo subito a baciarmi.
Bussai ed entrai nell'ufficio senza
attendere risposta.
Alzò gli occhi ma non si mosse. Stava
seduta alla scrivania con una piccolissima bustina trasparente in
mano.
“Che stai facendo?” domandai.
“Entra e chiudi la porta” ordinò
un po' nervosamente.
Feci ciò che mi aveva chiesto,
aspettandomi spiegazioni subito dopo.
“Ho trovato questa ad un paziente”
sollevò la busta che aveva in mano in modo da farmene vedere il
contenuto.
“Erba?” chiesi, sbalordita. Lei mi
fece cenno di abbassare la voce. “Ok. Erba?” chiesi di nuovo,
sussurrando.
Lei annuì.
“Quel ragazzino ha sedici anni. Se lo
denuncio potrei rovinargli la vita, quindi per adesso l'ho solo
sequestrata, se così si può dire. Sto cercando di decidere se
distruggerla o consegnarla.”
“Beh...”
“Cosa?”
“C'è una terza opzione.”
“Che vuoi dire?”
“Puoi dire al ragazzino che l'hai
distrutta senza farlo davvero.”
Corrugò la fronte.
“Perché mai dovrei fare una cosa del
g-” poi lo capì. “Calliope. Stai per caso suggerendo di
commettere un reato?”
Alzai le mani, mostrandole i palmi in
segno di resa.
“Ehi, non sto suggerendo niente. Fai
pure finta che io non abbia mai parlato.”
Lei mi osservò per diversi istanti.
“L'hai mai provata?” chiese,
sventolando di nuovo la bustina con fare inquisitorio.
“No” risposi forse troppo
velocemente.
Il suo sguardo scettico mi spinse a
distogliere il mio.
“Beh, non quella dentro la bustina
che hai in mano.”
Lei rilasciò una risata incredula.
“Hai fumato erba? Come è possibile
che io non sapessi questa cosa?”
“Senti non è una tragedia. È
successo giusto un paio di volte. Aspetta” realizzai poi. “Mi
stai dicendo che tu non l'hai mai fatto? Mai? Come è
possibile? Il college in cui sei andata era per caso gestito da
suore?”
Lei alzò gli occhi al cielo.
“No, Calliope, la John Hopkins non è
gestita da suore, per tua informazione.”
Inclinai la testa di lato.
“Sì ma...mai? Neanche una
volta?”
“Neanche una volta. Sono stata
cresciuta da un militare, non ho commesso reati e non ho intenzione
di iniziare adesso.”
“Andiamo, l'erba non è mica
omicidio.”
“È una droga, Calliope.”
“Una droga leggera” la corressi.
“Si può a malapena classificare come tale. È quasi più corretto
rapportarla al cioccolato o al caffè piuttosto che alle droghe
pesanti.”
“Ok, sai benissimo che questo non è
corretto.”
“Ci sono studi contrastanti a
riguardo.”
Lei rise, scuotendo la testa.
“Sai, dovresti provarla prima o poi.
Vuoi davvero morire senza aver mai provato a fumare erba? Al diavolo,
vuoi davvero morire senza aver mai commesso neanche il più piccolo
reato?” chiesi incredula.
“Beh, sì!” rispose ridendo, come
se fosse ovvio.
“In tal caso non conoscerai mai
l'ebrezza che si prova ad infrangere la legge per la miglior causa
possibile” decretai. “Ed è un peccato. Un vero peccato. Ma è
una tua scelta, quindi ti lascio sola con quella roba in modo che tu
possa distruggerla per sempre.”
“Ok. Perfetto.”
“Ma se in caso cambiassi idea,
comprerò delle cartine mentre torno a casa.”
“Calliope, ti ho detto...”
“Lo so, lo so. Distruggere, bruciare,
eliminare, bla bla bla. Ma io le comprerò comunque. Solo per
sicurezza.”
Le rivolsi il migliore dei miei sorrisi
maliziosi, uscendo dal suo ufficio con aria soddisfatta, sapendo di
aver scatenato la sua curiosità.
Quella sera, quando la vidi entrare in
casa con l'aria colpevole e furtiva di chi aveva appena sepolto un
cadavere in mezzo ad un bosco e teneva l'arma del delitto dentro la
propria tasca, capii che mi aveva dato ascolto.
Quando i ragazzi furono a letto ci
dirigemmo in camera nostra. Io indossai il pigiama con calma, sicura
che avrebbe tirato in ballo la questione prima che quella giornata
giungesse al termine.
La conoscevo meglio di chiunque altro
al mondo.
Quell'aria così tesa, il modo
distratto in cui si muoveva o faceva le cose, sempre sovrappensiero,
era indice sicuro che un argomento molto serio stava per essere
sollevato.
“Sofia dice che adora il divano che
hai scelto” le dissi, sedendomi sul letto ed appoggiando la schiena
alla spalliera del letto.
Un suono d'assenso arrivò tramite la
porta aperta del nostro bagno.
“Meredith vuole che discutiamo di
nuovo la procedura da usare per il caso Jones.”
Altro suono di vaga accondiscendenza.
“Stai indossando quella collanina con
la farfalla che ti ho regalato l'altro giorno?”
L'ennesimo assenso arrivò puntuale ma
distratto.
“Pensavo di rasarmi i capelli a zero
e tingere di verde ciò che ne rimane. Pensi che sia una buona idea?”
Di nuovo, tutto ciò che arrivò un
risposta fu un monosillabo incomprensibile.
Sospirai, ridendo.
Uscì dal bagno, chiudendo a chiave la
porta della camera da letto e rovistando per qualche istante nella
sua borsa. Lanciò sul letto la bustina che avevo visto quel
pomeriggio con aria nervosa, mettendosi le mani sui fianchi quasi
come se stesse per rimproverarmi di averla convinta a quel folle
gesto.
“Fallo in fretta, prima che ci
ripensi.”
Venti minuti dopo ero sdraiata sul
letto a fissare il soffitto, con mia moglie stesa accanto nella mia
stessa identica posizione.
“Hai mai notato quanto sia noioso
questo soffitto?”
“No, non fino a questo momento”
ammisi.
“Dovremmo metterci della carta da
parati o farci dipingere qualcosa. Tipo la Cappella Sistina.”
Inclinai la testa di lato, immaginando
quello stesso soffitto con un affresco.
“Vuoi che Michelangelo dipinga il
nostro soffitto?”
Per qualche motivo quella frase suscitò
la sua ilarità.
“No, Calliope! Michelangelo è morto.
Voglio che lo dipinga qualcuno ancora vivo.
“Tipo?”
“Non lo so.”
“Ma poi perché?
Tutti i soffitti sono noiosi, è tipo una caratteristica
imprescindibile di tutti i soffitti del mondo. Tranne per la Cappella
Sistina, ovviamente.”
“Non voglio che
l'ultima cosa che vedo a questo mondo sia qualcosa di così
assolutamente banale come il nostro soffitto, però.”
Scoppiai a ridere.
“Sono seria. La
morte più comune è quella nel sonno. Ed io dormo qui. Questo
soffitto potrebbe essere l'ultima cosa che vedo prima di morire.”
Messa sotto quella
luce tutta la faccenda, in effetti, assumeva toni molto più seri e
quasi macabri ai miei occhi.
“Bene. Facciamolo
dipingere da qualcuno allora. E cosa vuoi che ci sia?”
“Non lo so.”
“Come sarebbe a
dire? Cosa vuoi che sia l'ultima cosa che vedi prima di morire?”
Lei ci pensò per
un istante, poi si voltò nella mia direzione.
“Te. Voglio farci
dipingere una tua gigantografia. Non esiste al mondo un'immagine
migliore da imprimersi negli occhi per sempre.”
“Beh, però
mettiamone anche una tua. Io voglio vedere te.”
“D'accordo. Ci
faremo fare due ritratti e poi li appenderemo al soffitto.”
“Mi piaceva di
più l'idea dell'affresco però.”
“Ma nessuno fa
affreschi come quelli di Michelangelo e lui è morto.”
“Nessuno fa
ritratti come quelli di Leonardo” ribattei. “Ma anche lui è
morto.”
Rimase in silenzio,
riflettendo sulle mie parole.
“Possiamo
incollarci una fotografia formato gigante. Così il soffitto non sarà
più noioso.”
“Niente più cose
noiose nelle nostre vite. Mai più.”
Iniziammo di nuovo
a ridere senza motivo.
“Non sarà la
stessa cosa però” mormorai piano.
“Cosa?”
“Una fotografia.
Vorrei che l'ultima cosa che vedo al mondo fossi tu. La vera tu,
vorrei che fossero i tuoi occhi. Vorrei che nella mia mente rimanesse
impresso per sempre quell'azzurro meraviglioso che amo così tanto.”
Voltai la testa
verso di lei.
Mi guardò per un
istante, poi si avvicinò e mi baciò.
“Allora guardami
per sempre negli occhi e non allontanarti mai” mi sfidò.
Mi spostai su di
lei, baciandola di nuovo.
“Sarebbe
perfetto.”
“Sai, stavo
pensando...”
“Oh-oh.”
Corrugai la fronte
alla sua reazione e voltai la testa verso di lei.
“Cosa stavi
pensando?” incalzò, rendendosi conto del proprio errore.
“Cosa vorrebbe
dire quel suono che hai fatto?” chiesi a mia volta, stringendo gli
occhi, con tono inquisitorio.
“Niente”
rispose, senza alzare gli occhi dal libro che aveva in mano.
“Beh, deve pur
voler dire qualcosa.”
“È solo che
ultimamente ogni volta che inizi una frase nel modo in cui hai appena
fatto o con il tono che hai appena usato, ci ritroviamo a spendere un
sacco di soldi per cose superflue o a fare cose illegali.”
Sbuffai di
incredulità, alzando gli occhi al cielo.
“Questo è
ridicolo.”
“No, non lo è.”
Ci riflettei per
qualche istante e quando iniziai a rendermi conto che aveva
probabilmente ragione sbuffai di nuovo.
“Vuoi parlarne?”
“Di cosa?”
“Della tua crisi
di mezza età.”
“Crisi di...Io
non sto affatto avendo una crisi di mezza età” dissi come
se il solo pensiero fosse ridicolo ed offensivo.
Lei rise, scuotendo
la testa.
“Ok, Calliope.”
“Non assecondarmi
come si fa con i bambini.”
“Allora tu non
mentire davanti all'evidenza come fanno i bambini” ritorse,
aggiungendo un'ulteriore risatina.
Ci pensai di nuovo
per parecchi istanti, mentre lei continuava a leggere il libro che
aveva tra le mani.
“Ok, solo perché
ho comprato una macchina nuova non significa che io abbia avuto una
crisi di mezza età.”
“E il divano”
aggiunse. “E hai iniziato a correre, hai perso peso, ti sei
tagliata i capelli, mi hai comprato fiori e gioielli e portato la
colazione a letto, hai voluto fare un secondo viaggio di nozze, hai
regalato ai tuoi genitori una televisione al plasma uguale a quello
che hai comprato per noi e volevi regalare un idromassaggio come il
nostro ai miei.”
“Che c'entra.
Abbiamo dei soldi, i soldi sono fatti per essere spesi.”
“E per mandare i
nostri figli al college, magari” mi corresse, chiudendo il libro ed
appoggiandolo sul comodino al suo fianco, voltandosi finalmente nella
mia direzione. “Calliope, abbiamo fumato dell'erba dentro casa
nostra, ci siamo ubriacate tre sabati di fila, abbiamo fatto sesso
nella macchina nuova, a lavoro, in cucina, dentro la doccia. Sai
quanti anni erano che non facevamo sesso dentro la doccia?”
chiese retoricamente.
“Se vuoi fare
meno sesso basta che lo dici, sai Arizona?”
“Non è questo.
Sto solo dicendo che il coraggio di recuperare il nostro rapporto te
lo ha dato questa sorta di crisi che stai avendo.”
Scossi la testa,
distogliendo lo sguardo, in cerca di un'argomentazione convincente
con cui contraddirla, ma non ne trovai.
“E anche se
fosse?” chiesi quindi, sospirando. “Forse sto avendo una crisi di
mezza età, sì, e allora?”
Lei sollevò
entrambe le sopracciglia, guardandomi con curiosità.
“Nostra figlia
pensa che io sia vecchia” le dissi allora, sottolineando ogni
parola di quella frase, come se quelle sette parole bastassero a
giustificare il comportamento che avevo avuto negli ultimi mesi.
“No, non è
vero.”
“Sì invece”
ritorsi. “Lo ha detto lei.”
“Probabilmente
stava scherzando” rispose ridendo.
“Penso di essere
in grado di riconoscere il tono scherzoso di mia figlia da quello
serio.”
“No, invece. Non
è la prima volta che non vi capite.”
“Arizona” avevo
l'impressione che facesse finta di non capire di proposito quello che
intendevo dire.
“Calliope”
rispose a tono.
“Sto
invecchiando.”
“Adesso sì”
mormorò con tono soddisfatto.
“Cosa c'è?”
“Questo è il
problema.”
“Quale?”
“Non che tua
figlia pensa che tu sia vecchia, ma che tu pensi di stare
invecchiando.”
Esitai, insicura
sulla risposta che dovevo darle.
“Beh, forse sì.”
“Perché lo
pensi?”
“Non lo so”
ammisi. “Perché non facciamo più le cose di prima, non abbiamo
più la vita che avevamo i primi tempi che stavamo insieme. La nostra
vita era diventata una routine. I nostri figli stanno crescendo.
Saremo di nuovo sole quando loro saranno tutti al college e non
voglio che pensi di avere accanto un'estranea.”
“Non lo penso,
amore.”
“Beh, lo stavamo
diventando però.”
“Ma tu ci hai
salvato.”
Quella frase mi
colse alla sprovvista.
“Non faremo di
nuovo lo stesso errore” mi disse, prendendomi la mano.
Sospirai, scuotendo
la testa.
“Stiamo
invecchiando davvero, Arizona.”
Lei annuì,
sorridendo.
Guardai la sua
espressione tranquilla e rilassata e mi chiesi come mai io ero stata
così sconvolta da quella realizzazione mentre lei appariva così
tranquilla.
“Perché stai
sorridendo?”
Si strinse nelle
spalle, guardandosi attorno.
“Perché è
questo, Calliope.”
“Che vuoi dire?”
“È questo quello
che volevo. È quello che ho sempre voluto.”
Corrugai la fronte,
cercando di seguirla in quel ragionamento.
“Perché sembri
così sconvolta da questa cosa?” domandò, ancora sorridendo.
Sospirai ancora una
volta, scuotendo la testa.
“Non lo so. Credo
di non essere ancora pronta, tutto qui.”
Guardai nei suoi
occhi e mi resi conto che il suo sorriso aveva raggiunto anche loro.
“Io invece credo
di esserlo. È questo che volevamo, Calliope” ripeté di nuovo.
“Avere l'opportunità di invecchiare insieme.”
Un sorriso causato
dalla tenerezza di quelle sue parole si fece lentamente strada sul
mio viso.
“Suppongo di sì.”
“Abbiamo avuto un bel viaggio”
continuò. “Anzi, uno straordinario viaggio. Ed è stato il nostro,
mio e tuo, che lo rende ancora più bello. Non mi pento di niente,
non cambierei niente. È tutto perfetto. Stiamo invecchiando insieme.
Questo è quello che abbiamo sempre voluto, ed io non potrei essere
più felice” prese la mia mano, sfiorandola lentamente mentre
continuava a guardarmi negli occhi.
“Lo so. E anch'io ne sono
felice. Vorrei solo che non finisse mai” cercai di spiegarle.
“Adesso che ho trovato qualcosa per cui vale la pena vivere non
voglio iniziare a pensare a come sarà la vecchiaia.”
Il suono cristallino della sua risata
riempì la stanza.
“Abbiamo ancora un sacco ti tempo”
mi fece notare. “Tutto il tempo che ci serve” mi si avvicinò,
baciandomi sulle labbra con dolcezza.
Ricambiai il bacio, realizzando che
Arizona aveva ragione.
Stavamo invecchiando insieme.
Ci eravamo costruite la nostra
famiglia, la nostra vita, proprio come avevamo sempre voluto. Ed
eravamo riuscite a farlo insieme, io e lei, ad avere tutto quello che
avevamo sempre voluto sia come coppia che come persone.
Stavamo vivendo il nostro sogno.
Ed era tutto esattamente come lo avevo
immaginato.
Non c'era niente di cui aver paura
nell'invecchiare.
Non avevo rimpianti, non avevo rimorsi,
era andato tutto alla perfezione.
Come aveva detto Arizona, era solo
un'altra tappa di quel meraviglioso viaggio che stavamo facendo
insieme.
Le sorrisi, sdraiandomi e trascinandola
con me, per poi stringerla tra le mie braccia. Lei si lasciò
stringere.
“Detto questo” si schiarì la voce.
“Non azzardarti mai più a dirmi che sono vecchia” finse un tono
serio, quasi offeso.
Scoppiai a ridere.
“Te lo prometto.”
Tutto era come
avevamo sempre sperato. Sapevo di non poter chiedere di meglio dalla
vita che essere lì, in quel momento, con lei.
Era davvero tutto
perfetto.
Ed invecchiare,
dopotutto, non era poi così male.
Fatemi sapere che ne pensate, se volete...vi aspetto domani con
il sequel di Redemption!
A presto ragazzi, un abbraccio!
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