Angelica aveva sempre desiderato un cane. Fin da piccola, il suo
più grande desiderio era sempre stato avere un bel cagnolino
candido, da poter chiamare Neve.
All’età di sei anni, per il suo compleanno, suo
padre, manager di una grande ed importante azienda, le portò
a casa un cucciolo di setter di due mesi, che un amico gli aveva
procurato. Angelica fu entusiasta di quel regalo: si
dimenticò della montagna di altri doni, saltò in
braccio al padre e lo ringraziò con una pioggia di baci.
Nelle settimane successive Angelica trascorse ogni singolo istante
libero a prendersi cura di Neve e a giocare con lui. Voleva insegnargli
a riportare la palla, ma suo padre le spiegò che doveva
avere pazienza ed aspettare che crescesse ancora un po’.
Così Angelica aspettò.
Aspettò un mese, due, tre, e Neve cresceva, ed intanto
piccole macchie scure comparivano sul suo manto, ma ancora non correva
dietro alla palla che Angelica insisteva a lanciargli. Poco dopo, una
visita veterinaria accurata rivelò che il cucciolo aveva dei
problemi alle articolazioni degli arti posteriori che gli impedivano di
correre. Era perfettamente sano sotto qualunque altro aspetto, ma, con
somma delusione di Angelica, non sarebbe mai stato in grado di correre
per inseguire una palla.
Nonostante questo piccolo problema, però, Neve era un cane
molto sveglio: imparò presto a portare il giornale al padre
di Angelica, ad aiutare la madre con le borse della spesa, e spesso
cercava Angelica, scodinzolando, portandole il suo giocattolo di corda
per chiederle di giocare con lui.
Angelica, però, non provava più alcun interesse
per lui.
All’età di cinque anni, il suo pelo non era
più morbido e bianco, ma si era fatto lungo ed ispido, e
ormai le macchie nere erano tante e sempre più grandi. Una
volta Neve cercò anche di riportarle quella palla,
sforzandosi di correre come meglio poteva, ma Angelica non lo
degnò di uno sguardo, nemmeno quando lui le posò
la palla in grembo uggiolando.
Angelica nemmeno gli badò, e Neve se ne andò a
testa bassa, accoccolandosi nella propria cuccia con rassegnazione.
Non era il cane che aveva sempre sognato lei. Non era bianco, non era
capace di riportare la palla, e non era nemmeno bello come sembrava da
piccolo.
“Ma tu gli vuoi bene lo stesso, vero?” le chiese un
giorno sua madre, guardando tristemente la povera bestiola, abbandonata
solitariamente in un angolo.
Angelica lanciò un’occhiata a Neve: con gli anni
si era stancato di tentare di giocare con lei, di cercare di
compiacerla; si era fatto schivo e malinconico, e spesso sembrava quasi
che fosse in grado di capire la delusione che lei provava nei suoi
confronti, che sapesse di non essere quello che lei avrebbe voluto, e
che ne soffrisse.
Angelica scrollò le spalle.
“È il mio cane, no?” disse alla madre,
come se quella risposta sottintendesse un
“Sì” rassicurante che in
realtà non esisteva.
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Angelica aveva sedici anni, ormai. Neve era morto l’anno
prima, per motivi che nessuno aveva saputo spiegare. Aveva cominciato a
manifestare segni di indebolimento e stanchezza, anche se nessuna
analisi era stata in grado di individuare malattie che potessero
spiegarlo. Angelica lo trovò una mattina accucciato ai piedi
del proprio letto. Non respirava più.
Anche se provava da qualche parte dentro di sé un vago
sentore di dispiacere, non aveva versato una lacrima quando lo avevano
portato via.
In quel periodo era troppo occupata a pensare agli altri problemi che
aveva per curarsi di quel cane che non aveva mai amato davvero.
Suo padre non faceva che ripeterle che doveva impegnarsi di
più a scuola, dimostrare maggiore rispetto verso
l’autorità sua e di sua madre, imparare ad essere
riconoscente per i sacrifici che venivano fatti per lei.
E intanto Angelica non era più la bambina che la mamma una
volta guardava con orgoglio e a cui il papà portava a casa
giocattoli nuovi ogni sabato sera. Crescendo aveva capito che i regali
non colmavano i vuoti lasciati da carenze ben più profonde.
Le piacevano la musica alternativa e la pittura, e dopo il liceo voleva
frequentare una scuola d’arte, ma i suoi genitori volevano
che si laureasse e si assicurasse un posto nella società del
padre.
E così, finito il liceo, Angelica li accontentò.
Ma lei, più i giorni passavano, più perdeva la
voglia di andare avanti.
Si sforzava di essere all’altezza delle aspettative, di
assecondare la volontà di chi le stava attorno, con la sola
speranza che un giorno qualcuno le avrebbe detto di nuovo
“Brava, siamo fieri di te”.
Ma niente sembrava essere mai abbastanza.
Una sera, rinchiusa nella propria stanza con la sua musica nelle
orecchie per non pensare al male che si sentiva dentro,
sentì i propri genitori discutere tra di loro nella stanza
accanto.
“Dove abbiamo sbagliato, Laura?” stava dicendo suo
padre, in tono duro. “Cosa c’è che non
va, in lei?”
“Abbiamo fatto tutto quello che potevamo, Fabio,”
gli rispose sua madre. “Lo psicologo è stato
inutile, le pillole hanno solo peggiorato la
situazione…”
“Passa le ore chiusa in quella maledetta stanza a
scarabocchiare sui quei fogli… Che gusto ci prova a perdere
tempo in quel modo?!”
“Le piace disegnare…”
“Non l’ho messa al mondo perché
diventasse una parassita della società per rincorrere uno
stupido sogno! È ora che si rimbocchi le maniche e si dia da
fare per guadagnarsi il suo posto nel mondo! Ha quasi
vent’anni, cazzo!”
Ogni parola uccise Angelica come un colpo di pistola sparato dritto al
cuore. Un delitto indiretto consumato tra le mura domestiche di una
famiglia che, ad occhi esterni, era sempre apparsa perfetta. Mancava
solo il cane accanto al caminetto, per completare il quadretto dello
stereotipo classico, ma Neve era morto, e quel che restava era ben
lungi dall’essere ciò che appariva.
“Ma tu le vuoi bene lo stesso,” disse la
voce preoccupata di sua madre dall’altra parte del muro.
“Vero?”
Angelica ascoltò senza riuscire a respirare il lungo e
pesante silenzio che ne seguì, finché suo padre,
gelido e lapidario, non si decise a pronunciare la sentenza finale:
“È mia figlia, no?”
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A/N:
non so se sono riuscita a scrivere nel modo giusto quello che intendevo
comunicare. Chi mi conosce forse capirà il significato di
questa storia. Chi non mi conosce, forse capirà lo stesso. Il titolo significa "meritevole del tuo/vostro amore".
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