UN PIZZICO DI AGITAZIONE PER
UNA TONNELLATA DI FELICITA'
I
ciottoli del cortile avevano diverse forme e colori: alcuni erano
pentagonali, altri esagonali, altri ancora rettangolari o
quadrangolari; il grigio e il bianco prevalevano in quella composizione
ma, se si guardava con maggiore attenzione, si riusciva ad intravedere
anche una sfumatura brunastra correre lungo i bordi.
Philippe aveva contato quelle pietre almeno una ventina di volte, lo
sguardo abbassato e opaco, come se in realtà non stesse
vedendo quei sassi di chissà quale epoca, ma uno
spettacolo a lui solo noto.
In realtà, stava pensando a molte cose, ai suoi ragazzi del Centre, prima di
tutto, che il giorno prima gli avevano preparato una meravigliosa festa
a sorpresa e gli avevano regalato una cornice con una poesia inventata
da loro, tanto da farlo commuovere fino alle lacrime; purtroppo, madame
Betancourt non era riuscita ad ottenere i permessi necessari
affinchè potessero partecipare almeno alla cerimonia,
così aveva promesso di scattare tante fotografie, in modo da
mostrargliele, appena tornato dal viaggio di nozze.
Persino Sophie, venuta a conoscenza del grande evento, gli aveva
spedito una lettera e una sua fotografia, che la raffigurava cresciuta
e sorridente, nel bel mezzo della savana africana, dove si era
trasferita insieme alla madre, Aimée, la donna che lo aveva
abbagliato, poco più di anno addietro.
Avvertiva i bisbigli e i mormorii degli invitati all'interno della
chiesa, lo sbuffare ironico del padre, la presenza rassicurante delle
sorelle Claire, Jeanne ed Agnèse con i mariti e i figli,
delle colleghe -Mireille, Nicole, Juliette e Gabrielle- sedute accanto
alla direttrice, dei suoi amici di Lione, di zia Arianna, di zio Paolo,
di Marco e Alessia, del dottor Brice con la famiglia ... mancavano solo
loro, i suoi bambini, i suoi ragazzi: Adriene, Chloé,
Nicolas, Suzanne, Amal, Fatima e tutti gli altri.
Prima che s'intristisse del tutto, scacciò quei pensieri
così tanto cari, eppure insopportabili in quel momento.
Si accorse sbuffando che la camicia bianca a maniche corte gli si stava
appiccicando alla schiena: percepiva dei vergognosi rivoli di sudore
scendergli dal collo, mentre, con il fazzoletto di stoffa che aveva nel
taschino della giacca gessata, tentava inutilmente di acchiappare le
goccioline, prima che facessero ulteriore danno.
Si tastò nelle tasche dei pantaloni, alla ricerca di un
gingillo con cui passare il tempo che ancora gli rimaneva prima del
grande momento; oltre al pezzo di stoffa ormai zuppo con cui si era
asciugato, non trovò nulla, neppure il cellulare che era
rimasto spento in macchina.
Sospirò rumorosamente, mordendosi le labbra per
l’agitazione.
“La vuoi smettere di andare avanti e indietro?! E’
mezz’ora che siamo qui e non sei stato fermo per
più di un minuto!”
François, il testimone e amico dello sposo, gli si
avvicinò, dandogli una pacca di incoraggiamento su una
spalla.
“Scusa, hai ragione. E’ che sono un po’
emozionato … non vedo l’ora che arrivi e che tutto
finisca”
“Bravo, per uno che sta per convolare a nozze, non
è propriamente una frase felice!”
“Ma io … insomma, non intendevo dire questo
…”
“Lo so, stupido! Stai tranquillo, vedrai che la tua Liliane
non ti lascerà da solo sull’altare!”
Lo psicologo abbracciò l’altro ragazzo,
restituendogli la pacca di poco prima.
“Che ore sono? Nella fretta mi sono dimenticato di mettere
l’orologio” continuò, toccandosi i polsi
nudi.
“Le undici e quaranta. Siamo arrivati troppo presto, te
l’ho detto che dovevamo aspettare ancora un po’
prima di uscire di casa!” lo punzecchiò
François, appoggiandosi a una colonna di basalto, posta
all'entrata del grande portone di legno massiccio.
“D’accordo, hai ragione, la prossima volta ti
darò retta!”
“La prossima volta che ti sposerai?!” lo
canzonò l’amico, sistemandosi gli occhiali da sole
sul naso.
“Sei davvero insopportabile! Non ti sceglierò mai
più come testimone … oh, accidenti, che cosa mi
fai dire?! Uffa, lasciami camminare, così almeno mi
sembrerà di essere meno nervoso”
“Philippe …”
“Che c’è?”
“Dal momento che la sposa, si sa, per tradizione è
sempre in ritardo, che ne dici di cambiarti la camicia? Sembra che sei
appena uscito da una nuoata in piscina!”
Il futuro marito aprì la bocca per replicare: in effetti, il
16 giugno, con il sole di mezzogiorno che pulsava sulla testa,
l’idea di sua madre Nadine di fargli indossare una camicia
che, per quanto avesse le maniche corte, pesava almeno il doppio di una
maglia normale, non era stato quello che si definisce un buon consiglio.
“Non posso andare a casa! Devo attraversare mezza
città e, così facendo, arriverò in
ritardo …!”
“Ehi, calmati! A cosa servono gli amici e, in questo caso, il
fedele testimone di nozze, se non ad andare in macchina e recuperare
una camicia decente, adatta per la stagione e
l’occasione?!”
François scoppiò in un sorriso a trentadue denti
e, le chiavi in mano, si affrettò ad andare verso il
parcheggio, a pochi metri dallo spiazzo della chiesa.
Ritornò dopo una manciata di secondi, la salvezza in una
mano e la riconoscenza perpetua di Philippe che, nascosto sul retro
dell'edificio sacro, compì lo spogliarello più
liberatorio della Storia dello streptease mondiale.
Liliane non aveva dormito molto quella notte: aveva festeggiato l'addio
al nubilato insieme alle colleghe, alle cognate e a Vivianne, ma era
dovuta rientrare a casa presto, anzi, per lei era fin troppo tardi.
In realtà, non aveva voluto lasciare Estelle, la
sua bambina, da sola con i suoceri: non perché non
si fidasse, tutt’altro, il problema era più suo
che di altri, non sapeva spiegarlo bene.
Nutriva una sorta di gelosa ancestrale, di senso di possesso nei
confronti delle persone che stavano con la figlia per più di
un minuto, perlomeno quando lei non era lì a controllare che
tutto stesse andando come voleva.
Nonostante la piccola avesse quattro mesi e fosse stata, fin dai primi
giorni, abituata agli estranei, ai rumori, alle voci, ai suoni in
generale, la madre si sentiva scioccamente e incredibilmente possessiva
della sua cucciola.
Philippe la rimproverava di essere troppo apprensiva ma, lei stessa,
più di una volta, lo aveva sentito bisbigliare alla figlia
di essere contento di poter stare da soli, senza nessuno intorno, per
spupazzarsela a proprio piacimento.
Adesso, quando mancava meno di mezz’ora al fatidico
sì, Liliane era in piedi davanti allo specchio
dell’armadio della camera da letto, che le rimandava
l’immagine felice e radiosa di futura sposa.
Non riusciva a vedersi completamente la figura, ma solo metà
busto, quindi si avvicinò al letto e vi salì,
facendo attenzione a non calpestare il risvolto dell’abito e
a sollevarlo con delicatezza.
Rimase piacevolmente stupita dell’effetto generale: aveva
scelto un vestito poco pretenzioso, senza lunghi strascichi o pesanti
balze, ma che fosse il più lineare possibile.
I capelli biondi, morbidamente arricciati e tenuti fermi da qualche
rosa di campo, erano freschi di lacca; gli occhi azzurri vantavano un
filo di ombretto scuro e di mascara, mentre le guance erano state
imporporate da un sottile strato di cipria, appena accennato.
La ragazza si passò una mano sulla bocca, adombrata da un
rossetto color lillà: si sentiva veramente felice,
orgogliosa, appagata, in pace con se stessa.
Dopo anni di sofferenze, di indecisioni, aveva raggiunto un equilibrio
duraturo e, di questo era convinta, completo, che mai avrebbe pensato
di ottenere.
Scese dal letto con un balzo, reggendosi l'abito con entrambe le mani.
Poi, andò a recuperare la scatola con le scarpe, bianche e
con poco tacco, che aveva abbandonato vicino al calorifero: una volta
indossate, si guardò ancora una volta allo specchio, quindi,
con la borsa del cambio e della pappa per Estelle, già
pronta tra le braccia di nonna Nadine, aprì la porta della
camera, pronta per andare incontro al suo destino di madre e moglie.
Vivianne temeva di arrivare in ritardo, proprio il giorno del suo
matrimonio: per la prima volta, da quando aveva deciso la data insieme
ad Alexis, otto mesi prima, si stava pentendo di aver scelto di
sposarsi insieme a Philippe.
Che poi, a pensarci bene, era lui che aveva fissato la data dopo di
loro, quindi, se bisognava dare la colpa a qualcuno, era del suo amico.
Beh, forse era esagerato parlare di colpe, ognuno è libero di
fare quello che vuole, pensò la ragazza, tanto più che i
preparativi sono stati ancora più eccitanti.
Lei e Liliane si erano consigliate ed aiutate in moltissime occasioni,
durante quel periodo di organizzazioni, dalla location per il
banchetto, al menù, alle canzoni da suonare in chiesa a
quelle da ballare nel pomeriggio.
Solo per la scelta dell’abito erano state entrambe
d’accordo sull' essere autonome, di non lasciarsi
influenzare l’una con l’altra
né, tantomeno, dai rispettivi partner.
Il vestito era una cosa privata, una decisione che andava presa
singolarmente, intimamente, senza condizionamenti esterni.
Persa in quel mare di ricordi appena trascorsi, la fisioterapista si
accorse che il tempo, ormai, stava pericolosamente incalzando,
rischiando di mandare a monte la sua scaletta di priorità.
“Scusi, non può andare un po’
più veloce?”
“Non è colpa mia se la gente non è in
grado di guidare e se i semafori diventano subito tutti
rossi” esclamò monocorde l’autista della
Mercedes in affitto, senza degnarla di uno sguardo.
Ci mancava solo la
simpatia di questo rincitrullito! pensò
Vivianne, sbuffando irritata.
Guardò fuori dal finestrino: il traffico di certo non
abbondava, tanto più se si pensava che era un sabato di
metà mattina, alle porte dell’estate, quando la
gente cominciava a riempire le piscine comunali e a passare le prime
vacanze fuori città, alla ricerca di un minimo di refrigerio.
Si passò le mani sull’organza del vestito,
sistemando pieghe invisibili.
“Senta, tra dieci minuti mi dovrei sposare, lo capisce
questo? Se non preme un minimo sull’acceleratore, rischio di
arrivare in ritardo!” piagnucolò la ragazza,
protraendosi verso l’uomo, un cappellino blu calato sulla
fronte.
“Adesso non è più usanza che la sposa
arrivi in ritardo? Mia moglie, cara signorina, è arrivata
all’altare con quasi due ore di ritardo!”
“Due ore?!” ribatté, sperando di aver
compreso male.
“Sì, ma solo perché aveva le doglie.
Falso allarme, per fortuna, altrimenti non sarebbe mai arrivata in
chiesa, nemmeno il giorno dopo!”
L’autista si lasciò andare ad una risata sguaiata,
battendo entusiasta le mani sul volante.
La quasi neosposa si abbandonò allo schienale della costosa
automobile: chiuse gli occhi per qualche istante, pregando che ogni
cosa andasse per il verso giusto.
Non conosceva le strade che stavano percorrendo, perché di
Versailles era pratica solo della zona in cui lavorava, esattamente
all’opposto del loro percorso, altrimenti sarebbe scesa dalla
Mercedes senza troppe storie, andando a piedi fin dal suo Alexis,
trascinandosi dietro la coda di tulle e sballottando il bouquet di
girasoli e violaciocche.
Abbassò il finestrino, per respirare un po’
d’aria fresca, ma subito si pentì,
perché la raggiunse un’ondata di vento caldo.
Ritornò ai suoi tristi pensieri, immaginando che non sarebbe
mai riuscita ad arrivare in orario per la cerimonia di mezzogiorno.
Nei suoi piani, non avrebbe fatto aspettare il suo amore neppure per un
secondo, sebbene la tradizione volesse altrimenti: la sola idea di far
soffrire quel patatino che sarebbe presto diventato l’altra
metà della mela per l’eternità, le
provocava una fitta dolorosa alla bocca dello stomaco, facendola
agitare ancora più del necessario.
Poi, finalmente, come un miraggio in mezzo al deserto, Vivianne la
vide: la guglia del campanile stava svettando proprio davanti a lei, a
un centinaio di metri dal traguardo.
Appena l’autista bloccò la Mercedes, lei scese,
felice di essere giunta alla tanto sospirata meta.
E, quasi, non si accorse che le sue meravigliose tulle stavano
rischiando di rimanere impigliate nella portiera.
I polsini gli stavano dando un fastidio terribile: si era slacciato e
riallacciato i bottoni una dozzina di volte, ma non riusciva a trovare
una soluzione che gli permettesse di lasciare in pace
l’estremità delle maniche della camicia di seta,
rischiando di rovinare i gemelli in oro bianco, regalo della madre per
il grande evento.
Tossì nervosamente per l’ennesima volta,
allentando il nodo del cravattino rosso, quindi si ritrovò a
fissare le lancette sul suo Rolex, silenziose ma veloci:
constatò a metà tra il soddisfatto e
l’agitato che mancava ancora una manciata di minuti
all’inizio di quella grandiosa giornata, per questo
avvertì l’adrenalina aumentare nelle vene,
scorrere ancora più rapidamente.
Philippe era appena entrato in chiesa, dopo avergli fatto un cenno di
saluto: quel giorno si stavano accuratamente evitando, seppure la cosa
gli dispiaceva alquanto, dal momento che stimava e trovava simpatico
quel buffo e strampalato psicologo.
Vivianne aveva un’alta considerazione di lui, ne parlava
sempre bene e sapeva che, se c’era una persona a cui avrebbe
chiesto un consiglio, di qualsiasi tipo, quella sarebbe stata proprio
il vicino di casa, ormai ancora per pochi minuti, precisò
gongolante, fino a quando la sua cocchina non sarebbe diventata madame
Duval.
Alexis si grattò una guancia e cominciò a contare
fino a dieci, decidendo che, dopo il countdown, sarebbe entrato anche
lui.
Quando stava per finire, Sebastien, il suo testimone, collega e braccio
destro dell’azienda edile di cui la sua famiglia era
proprietaria, tornò all’attacco, invitandolo a
sbrigarsi.
“Le campane stanno suonando! Tra poco Vivianne
arriverà e ti troverà ancora qui! Dai, muoviti,
vieni dentro!”
Il quasi novello sposo annuì a vuoto, ma non si mosse di un
millimetro: quando sentì il rombo di una macchina, riconobbe
il motore della Mercedes, l’automobile su cui avrebbe dovuto
viaggiare il suo tesoruccio, la futura regina dei mattoni del suo cuore.
Diede un’ultima occhiata dietro di sé,
sistemandosi i polsini che, inspiegabilmente, avevano smesso di
tormentarlo.
Reclinò la testa in avanti e indietro, poi di lato, infine
sorrise, pronto ad affrontare il grande sì.
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