Quando
la mattina dopo si svegliò, era appoggiato con la schiena al
divano. Si
stropicciò un occhio assonnato e si alzò. Aveva
tutti i muscoli tesi e
indolenziti per la scomoda posizione.
Lo
zaino che la sera prima era sul divano accanto a lui, non
c’era più.
Probabilmente Francesca era andata a scuola.
Che
strana ragazza, pensò.
Non
sembrava intimorita da quello che doveva affrontare. Va bene che non si
erano
mai spinti a parlare “a cuore aperto”,
però non si era mai mostrata fragile.
O
almeno, questa era l’impressione che dava.
Il
professore stava scrivendo alla lavagna il testo del problema che i
ragazzi
avrebbero dovuto risolvere. Il pennarello blu scorreva veloce sulla
superficie
bianca, tracciando parole e lettere. Infine un triangolo rettangolo in
basso a
sinistra, bello grande e preciso.
Il
professore si allontanò dalla lavagna, chiudendo il tappo
del pennarello e
sedendosi alla cattedra.
I
ragazzi stavano ricopiando la traccia e quando tutti ebbero finito,
calò il
silenzio, segno che tutti erano concentrati per risolverlo.
Francesca
guardò il suo problema, un triangolo rettangolo disegnato
accanto al testo. Per
prima cosa segnò gli angoli ai vertici, indicandone
l’ampiezza.
Diede
un’occhiata alla figura e scrisse le incognite che doveva
trovarsi.
Poi,
infilata la matita fra i denti e sollevatala in aria come se fosse una
sigaretta, rifletté cercando di ricordarsi le formule.
La
sua amica, Paola, alla sua destra, scarabocchiava figure ai margini e
sembrava
avere già intuito cosa bisognava fare.
Francesca
sapeva risolvere quel problema, credeva di aver trovato la soluzione.
Iniziò,
presa dall’eccitazione e dall’entusiasmo di
ottenere un bel voto, e scrisse la
formula principale.
Poi
cominciò a calcolarsi il primo cateto con i dati che aveva e
poi…
Si
bloccò improvvisamente.
Un
senso di nausea, fortissimo, le salì lungo lo stomaco, fino
all’esofago per poi
arrivare alla bocca. O cavolo.
Si
scostò bruscamente dal banco, chiuse gli occhi tentando di
non farsi prendere
dall’agitazione; provò a dimenticarsi della nausea
che l’aveva assaltata senza
preavviso. Guardò di nuovo il suo triangolo rettangolo.
Ma
non ci riusciva, sentiva che non avrebbe resistito.
Cercò
lo sguardo della sua compagna, ma lei era tutta presa dal risolvere
quell’esercizio.
Lentamente
alzò la mano.
-Professore?-
lo chiamò, pregando che facesse in fretta.
L’uomo
dietro la cattedra, sorpreso, alzò lo sguardo fissandola
ragazzina.
-Professore,
non mi sento molto bene, potrei andare al bagno?-
A
quella battuta tutta la classe si voltò a guardarla. Ma
nessuno, eccetto Paola
che le rivolse uno sguardo più preoccupato del solito,
sembrava veramente in
pensiero; la bionda la tranquillizzò con un veloce sguardo,
si alzò e percorse
a passo svelto il tragitto dal suo posto alla porta.
Una
volta fuori, si precipitò al bagno, si infilò in
un cubicolo e chiuse forte la
porta.
Le
scritte ricoprivano tutto il muro, alcune marcavano persino la
superficie del
gabinetto.
Francesca
si inginocchiò e aggrappò le mani alla tavoletta.
Deglutì
a vuoto, incominciando a sudare e protendendosi in avanti.
Fece
dei piccoli respiri per calmarsi, pregando che succedesse tutto in
fretta.
Sentiva
il voltastomaco crescere e arrivare quasi alla bocca, ma era come se si
fermasse proprio alla fine.
Stette
in attesa, respirando forte per un paio di minuti. Ma niente.
Quanto
detestava quando succedeva così.
Quando
non si voleva decidere, e intanto lei rimaneva sempre con quel suo
senso di
nausea che la faceva sentire uno schifo.
Mentre
pensava questo, tutto d’un colpo il rigetto le
arrivò in bocca, e lei sputò
fuori il vomito.
Il
conato fu abbastanza normale, anzi meno dell’altra volta. Una
volta finito il primo,
ebbe qualche attimo per riprendersi, e poi arrivò puntuale
il secondo.
Stavolta
vomitò molto di più.
Quando
anche quello terminò, disgustata di vedere il colorito
verde, arancione e
giallo che aveva gettato, schiacciò con una mano il pulsante
dello scarico.
Tremava
tutta, e aveva ancora in bocca quel sapore vomitevole. Respirando
forte, a
scatti, si alzò in piedi. Le gambe facevano Giacomo-Giacomo,
e per non cadere
dovette reggersi al muro.
Raccolse
i capelli dietro le orecchie e sputò ancora un po’
di rigetto. Sentì bussare
alla porta, disse
-Occupato-
-Scema
sono io-
Riconosciuta
la voce aprì subito la porta.
Paola
la guardò preoccupata mentre andava verso i lavandini.
-Fatto?-
-Fatto-
Francesca
aprì il getto dell’acqua e si sciacquò
la bocca come meglio poteva; prese un
fazzoletto e si asciugò la fronte bagnata di sudore, ed era
pronta a tornare in
classe.
-Sei
tutta bianca- commentò l’amica, sempre
osservandola a distanza.
-Tanto
non si nota- decretò sicura la bionda, sistemandosi i
capelli.
-Comunque
il problema se vuoi te lo faccio io. Perché non ti fai
venire a prendere? Dici
a tuo padre che ti sei sentita male- suggerì Paola.
L’altra
si irritò.
-So
farlo benissimo il problema, è solo che
all’improvviso mi ha preso il vomito. E
poi da mio padre non voglio farmi venire a prendere-
Uscirono
dal bagno e tornarono in classe. Disse che si sentiva meglio, anche se
quello
non era affatto vero; aveva tanta voglia di andare a dormire.
Però
si sedette composta al suo posto e riprese il problema da dove
l’aveva
lasciato.
La
verità era che, avendo lasciato casa, era andata a vivere da
quel ragazzo lì.
Non voleva l’aiuto né di colui che si professava
suo padre, né di quell’altro.
Poteva farcela benissimo da sola.
E
non le importava se era una stupida testarda. Era fiera di esserlo.
Quando
la campanella suonò la ressa di studenti si
precipitò fuori. Paola si affiancò
all’amica e le domandò
-Se
ti va puoi venire a mangiare a casa mia oggi-
La
bionda scosse la testa.
-Non
posso, oggi torno a casa-
-Casa
quale?-
-Casa
mia. Mi sono scordata una cosa-
Nemmeno
quella era la verità. Ma ormai era diventata così
abile nel dire bugie, dato
che le raccontava spesso, che risultava molto credibile.
In
realtà andava a casa sua per dire la verità al
suo, diciamo così, tutore. Ci
aveva pensato tutta la sera e la mattina, e aveva deciso che per una
volta dire
la verità sarebbe stata la cosa migliore.
In
brevissimo tempo fu sotto al portone; lui doveva essere in casa,
perché
riconobbe la macchina parcheggiata sotto. Sbuffò, scocciata
per doverlo
affrontare ancora. Poi premette il campanello.
-Sono
io- disse, e il portone si aprì. Ripassò
mentalmente il discorso che si era
preparata mentre saliva le scale.
Trovò
la porta già spalancata e un uomo che la aspettava.
Damiano
si precipitò immediatamente sulla soglia, osservandola.
-Cosa
significava quel biglietto di ieri?- chiese subito.
-Posso
entrare a mangiare?-
-Certo-
Così
dicendo, si spostò e la ragazza entrò
nell’appartamento, superandolo
impassibile.
Damiano
richiuse il portone e si voltò ad osservarla.
Francesca
lo guardò.
Gli
occhi, azzurri come i suoi, saettavano preoccupati sul suo viso,
cercando di
capire cosa le fosse successo.
-Damiano,
devo dirti una cosa-
Lui
si sedette al tavolo e la bionda fece lo stesso. Iniziarono a mangiare
il
pranzo che aveva preparato l’uomo.
Lui
non ci riusciva, però. La fissava incantato come se non
credesse di vederla lì
di fronte a sé.
-Non
puoi sparire così e non tornare a casa. Mi hai fatto
preoccupare-
Sai
quanto mi importa, aggiunse lei mentalmente, ma non rispose.
-Dove
sei stata a dormire?-
-A
casa di un’amica, te l’ho detto-
-Potevi
dirmelo-
Lei
ingoiò i maccheroni e li masticò lentamente,
guardandolo negli occhi. Sembrava
preoccupato e sollevato al tempo stesso.
Preoccupato
per esser tornato dal lavoro e non averla vista, e sollevato
perché era tornata
a casa. D’altronde non era la prima volta che lo faceva;
ricordò con un sorriso
forse illegittimo, che a dodici anni si era rifiutata di stare a casa
da lui
perché l’aveva vista baciarsi col suo primo
fidanzatino; Damiano aveva fatto il
diavolo a quattro come qualsiasi padre e cominciato a dire che doveva
lasciarlo
perdere.
Lei
orgogliosa come sempre, preso zaino e pigiama, era andata per davvero a
dormire
dalla sua amica. Credeva di sfidare il mondo e che quella fosse una
cosa
importante.
Forse
ora sì che lo era.
-Cosa
c’è, è un altro fidanzato?-
domandò con un sorriso tirato.
-Non
proprio-
Tenne
ostinatamente lo sguardo fisso sul piatto.
-è
che… è successa una cosa importante e volevo che
la sapessi. Perché dopo non
possiamo più continuare così-
Quelle
parole resero pallido Damiano.
-Ma
insomma che è successo?-
La
sua voce aumentò di tono, facendosi più severa.
Lei temeva che si mettesse ad
urlare. Ma tanto non sarebbe mai tornata indietro.
-Ho
conosciuto un ragazzo, sai…-
Doveva
dirglielo.
-…e?-
incalzò lui.
Francesca
alzò finalmente i suoi occhi in quelli dell’uomo,
teoricamente suo padre.
-Io
aspetto un bambino-
Ecco,
gliel’aveva detto.
Damiano
schiuse lentamente le labbra, guardandola perplesso.
-Cosa?-
fu tutto quello che riuscì a dire dopo un attimo di
smarrimento.
Lei
non disse altro, ma tornò a mangiare il suo pranzo.
-Cosa
significa che aspetti un bambino?- l’uomo smise di mangiare e
alzò davvero la
voce.
La
bionda si fermò, imitandolo. Ora iniziava sul serio a
rompere.
-Cosa
significa? Significa che ho scopato con uno, i suoi spermatozoi hanno
fecondato
il mio ovulo e ora ho un bimbo nella pancia! Sei sconvolto? Ti ha
bloccato la
crescita? Non le sapevi queste cose?- gli gridò contro.
-E
ti sembra una cosa normale? Vieni a dirmelo ora?-
Damiano
parve accorgersi solo ora che stava urlando; si calmò,
deglutendo.
Poi
chiese di nuovo, quasi in un sibilo
-Chi
è questo ragazzo?-
-Uno-
-Smettila
di fare l’arrogante con me-
Francesca
alzò lentamente lo sguardo su di lui, stringendo gli occhi;
quella non era mai
una buona cosa, aveva imparato Damiano.
Lasciò
perdere il cibo e si alzò in piedi.
-Altrimenti
cosa mi fai?- disse, scandendo bene le parole e pronunciandolo con
strafottenza.
Anche
l’altro si alzò, superandola di molto e
incrociando le braccia.
Gli
tremavano le labbra.
-Basta.
Non puoi dirmi una cosa del genere così. Da
quant’è che lo sai?-
-Due
settimane. Sono al secondo mese-
-E
quand’è che pensavi di dirmelo? Sono tuo padre!-
Questo
era troppo, per i suoi nervi pronti a scattare. Le fiammeggiarono gli
occhi
quando pronunciò con tutto il disprezzo che riusciva a
mettere insieme
-Tu
non sei mio padre-
Damiano
si immobilizzò.
Poi
uno schiaffo volò in faccia alla ragazza, che
però non indietreggiò.
-Come
ti permetti di dire questo? Dopo tutto quello che ho fatto per te! Io
ti voglio
bene come se fossi mia figlia!-
-Ma
io no. Forse è meglio se te ne cerchi un’altra,
che ti voglia bene magari-
La
situazione era degenerata.
-Lasciami
in pace, Damiano-
Lo
superò, ignorando tutto quello che le diceva, e
uscì da quella casa. Era
l’ultima volta che vi avrebbe messo piede. Quante volte aveva
desiderato che un
bel giorno, venisse all’orfanotrofio una coppia di signori.
L’una
sarebbe stata bionda come lei, e avrebbe avuto un gran sorriso.
L’uomo sarebbe
stato alto, con i suoi occhi azzurri, e molto bello.
Che
fantasia sciocca da bambina, pensò dandosi della stupida.
Subito
dopo però, inspiegabilmente, le pungevano gli occhi, come se
volesse piangere.
Davide
aveva finito il suo turno al bar. Lei ancora non si era vista;
incominciava a
chiedersi che fine avesse fatto. Gli aveva detto che dopo la scuola
andava al
bar dove lavorava.
Ma
quella mattina non si era fatta vedere. Che fosse nuovamente tutto un
ridicolo
scherzo?
Stava
salendo le scale del suo condominio, e arrivato al suo piano, si
bloccò.
-Era
ora. Dove sei stato?-
Francesca
stava lì, seduta a terra, col broncio sul viso e ora lo
guardava.
-Potrei
farti la stessa domanda- rispose lui, mentre infilava la chiave nella
toppa.
La
ragazza lo seguì entrando dentro.
-Hai
già mangiato?-
-Sì,
sì……- lei agitò una mano
con fare annoiato, poi si fermò mentre andava di
là.
-Posso
andare di là?-
Davide
fu sorpreso dalla richiesta formulata con tanta gentilezza, tanto che
si
accigliò.
-Ah
sì, certo!- si affrettò ad aggiungere.
La
guardò andare di là, e sparire nella stanza da
letto.
Chissà
cosa le era successo; di certo non avrebbe osato domandarglielo.
Si
cucinò qualcosa di veloce, tanto non aveva molta fame.
Quella
mattina, prima di andare a compiere il suo turno al bar, era passato
con la
macchina all’ospedale. Se non ricordava male, un suo amico
gli aveva detto che
si era trovato particolarmente bene con un certo ginecologo che aveva
assistito
la moglie. “Un tipo molto professionale, serio e
disponibile”. Gli sembrava
adatto.
Così,
giusto per farsi un’idea, aveva domandato un appuntamento,
fissato per la
prossima settimana.
Ora
restava un problema non meno grave, cioè dirlo a Francesca e
convincerla a
farsi visitare.
Pensò
che fosse meglio farlo prima.
Quasi
un’ora dopo, si sentiva così in pace, in quel
silenzio che regnava sovrano, che
si era dimenticato di avere un’ospite in casa.
Sentendola
così silenziosa si insospettì e andò
verso la stanza da letto.
La
scena che gli si presentò lo fece leggermente stupire.
La
bionda stava sdraiata sul letto girata su un fianco, gli occhi chiusi e
un
braccio messo sotto la testa. Che strano spettacolo, pensò
lui.
Temendo
di svegliarla, si ritirò di là chiudendo la luce
e la porta.
Un’altra
ora dopo, fatta la doccia e indossando i suoi jeans nuovissimi, stava
seduto
sul divano a leggere il giornale. Nemmeno si accorse che la ragazza gli
era
arrivata alle spalle, finché non sbadigliò e si
sedette accanto a lui.
Francesca
afferrò il suo zaino, e ne estrasse un libro con aria stanca.
-Buongiorno-
disse lui –avevi sonno?-
-Veramente
ce l’ho anche ora il sonno… è solo che
dovevo farmi i compiti…-
Così
dicendo aprì una pagina e iniziò a leggerla,
appoggiandosi allo schienale.
Davide
controllò l’orologio.
-Senti,
io fra un po’ dovrei andare al bar-
-Posso
stare con te? Non voglio rimanere da sola- chiese.
Aveva
i capelli un po’ arruffati e le palpebre stanche; non aveva
la solita aria
distaccata.
-Sicura?
Guarda che poi ti annoi- l’avvertì.
-Tanto
poi esco con le mie amiche-
Qualche
minuto dopo camminavano affiancati lungo la strada. Il ragazzo
pensò fosse il
momento buono per dirglielo.
-Sai,
ho fissato un appuntamento per te la prossima settimana-
-Che
appuntamento?- domandò lei brusca.
-Dal
ginecologo-
-Tu
hai fatto cosa?-
Ebbe
l’impressione di non aver fatto esattamente la cosa a lei
gradita.
-Quindi……
tu vuoi andare in fondo a questa storia? Ma sei sicuro?-
-Sicuro
di cosa?-
-Be’-
iniziò la bionda, spostando lo sguardo altrove –un
bambino ti complicherebbe le
cose, immagino-
-E
che devo fare? Mica possiamo gettarlo in mezzo alla strada- sorrise
lui, un
sorriso ironico ma teso.
Cosa
voleva significare quel discorso?
-Sei
stato gentile ad ospitarmi- disse –ma io non voglio mica
farti problemi. Se tu
questo non lo accetti non c’è problema
sai….-
-Ah,
senti una cosa eh…- la fermò mettendole una mano
sul giubbino.
-Forse
ci siamo capiti male. Io non voglio farti abortire-
Francesca
lo guardò strana.
Troppo
strana. Quasi quasi avrebbe potuto dire stupita. Era certo che il suo
cervello,
sotto quella testa bionda, stesse lavorando parecchio.
-Veramente?-
chiese infine.
-Veramente-
ripeté.
Ricominciarono
a camminare. Lui di tanto in tanto la guardava curioso; non aveva
ribattuto
nulla ma quella risposta sembrava l’avesse turbata.
Lei
intanto rifletteva rapida. Una risposta del genere non se
l’aspettava proprio.
Si
morse la lingua, imprecando mentalmente.
Possibile
che proprio a lei dovesse capitare uno gentile e premuroso?
Porca
miseria.
Francesca
scriveva veloce sul suo piccolo quaderno con la penna blu, seduta sullo
sgabello appoggiata al bancone alto, di legno. La superficie era
liscia, e un
bicchiere mezzo pieno di acqua era poggiato accanto al quaderno.
Nel
frattempo, nel retro una ragazza si stava guardando in uno specchietto.
Per
essere le sei del pomeriggio il locale era già pieno di
gente; occasione per
farsi dare un bel po’ di mance.
Silvia
aveva già adocchiato un paio di uomini, da soli, seduti ai
tavoli, e possibili
dispensatori di soldi se avessero trovato una donna disponibile e
sorridente.
Quella donna era lei.
Si
stampò sul viso un sorriso, gonfiò il piccolo
petto ed entrò nel locale.
Aveva
in mano un blocchetto e una penna. Volse uno sguardo alla biondina che
stava
scrivendo al bancone. La riconobbe come l’amichetta di Davide.
Troppa
carne sui fianchi, si disse e compiaciuta di non avere quel problema,
avanzò
sicura nella sala.
-Ciao
Davi- cinguettò allegra mentre gli passava davanti e gli
diede un bacio sulla guancia.
Lui arrossì impacciato e balbettò qualcosa. Lei
oltrepassò il banco e si
diresse ai tavoli.
Involontariamente
(e come si poteva fare altrimenti?) Davide le fissò
incantato il perfetto
fondoschiena di cui era provvista e le belle gambe scoperte dalla gonna.
-Patetico-
sibilò una voce.
-Come?-
-Sei
patetico- Francesca alzò lo sguardo e lo fulminò
strafottente –le hai guardato
il culo tutto il tempo-
Il
ragazzo arrossì e rispose qualcosa come ‘ma che ti
impicci tu?’.
Lei
scosse la testa e riprese a scrivere.
-E
dovresti essere il padre di mio figlio- aggiunse sarcastica.
-Pensa
la madre…- disse lui sottovoce.
-Cosa?-
-No
niente-
Non
convinta, continuò a fissarlo indispettita.
-Come
si scrive ‘soprattutto’? Con tre o quattro ti?-
domandò succhiandosi il
cappuccio.
Davide
ci pensò su.
-Quattro-
-Sicuro?-
-Boh,
non lo so…- fece, perplesso; poi cercò con lo
sguardo la bella cameriera che
svolazzava per il locale.
-Silvia!-
la chiamò –Con quante ti si scrive soprattutto?-
Lei
lo guardò con un’espressione sorpresa.
-Tre-
gli gridò di rimando, sorridendo.
-Che
scema. Si può dire in tutti e due i modi, ignorante-
commentò altezzosa la
bionda.
-E
allora se lo sai che cavolo chiedi a fare?- disse lui imbronciandosi e
stringendosi nelle spalle, offeso per aver fatto la figura
dell’ignorante. Ma
che poteva farci?
Lui
non era andato oltre i cinque anni della ragioneria, e se aveva
ottenuto il
diploma era già gran cosa.
-D’un
tratto Francesca si illuminò e alzò la testa, con
un sorriso poco promettente.
-è
lei Silvia? Quella che chiamavi mentre…-
Ma
non finì la frase perché il ragazzo le mise una
mano sulla bocca.
-Non
dirlo!-
-Avevo
ragione! È quella che ti piace…-
commentò sorridendo maliziosa e soddisfatta.
-Stai
zitta! Va bene, lo ammetto…- si incurvò verso di
lei, sussurrando per non farsi
sentire –lei mi piace-
La
bionda per tutta risposta avanzò col viso fino a toccargli
la punta del naso
col proprio.
Si
morse un labbro.
-Ciao
Davi- disse imitando la voce un po’ più bassa
della mora.
-Smettila-
ma intanto era arrossito.
Lei
continuò ad ostentare quel sorrisetto compiaciuto che lo
mandava in bestia.
Ad
un certo punto chiuse il quaderno con uno scatto e balzò
giù dallo sgabello.
-Esco
un po’. Tanto dopo torno, quindi aspettami prima di andare a
casa. Non voglio
rimanere chiusa fuori di nuovo-
-D’accordo.
Desidera altro, sua altezza?- domandò imbronciato lui,
ancora irritato perché
l’aveva preso in giro.
-No
grazie. Ciao Davi-
Disse
così, poi mentre stava andandosene si voltò
sorridendogli maliziosa, sorriso
che il ragazzo ricambiò triste. Che razza di seccatura.
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