Notturno Chopiniano (in La minore)
Notturno Chopiniano (in La minore)
-Guarda… sono appena uscita da
facoltà. Ti prometto che appena avrò un attimo di tempo libero, ti chiamerò. Sai
che mantengo le promesse.- Ed un sorriso caldo spuntò sul viso rotondo di Flora.
Quando Lara cominciava i suoi lamentosi sproloqui sul fatto che non la
considerasse nessuno sfociava nel comico.
Un attimo di silenzio. Un’altra
frase che pretende attenzione.
-Certo, Là. Ho la giornata
completamente libera. D’accordo. Il 24, okay. Torna a lezione. Ci sentiamo
stasera!- e dopo uno sbrigativo saluto chiuse lo sportellino del cellulare.
Flora era quella tipica ragazza
eclettica, sempre impegnata e priva di tempo libero da dedicare ai suoi amici.
Ed era proprio di quello che la sua “sorella-amica” si stava lamentando in quel
momento. La sua inafferrabilità, come un raggio di sole, come il vento che
spalanca violentemente le finestre a primavera. Magari anche come un’onda di
mare, fatta di acqua cristallina e salsedine.
Aveva avuto così tanto da
studiare in quei giorni che aveva completamente dimenticato di avere una vita
sociale. Un vero martirio, per lei. Ma l’esame era vicino e non poteva
permettersi il lusso di fallire e perdere altro tempo. Sarebbe stato uno
schiaffo agli sforzi che suo padre Nino faceva economicamente.
Commerciante di materiale
artistico, guadagnava poco e male nella sua lontana Sicilia. Solo e senza alcun
affetto familiare a confortarlo, Flora sapeva benissimo quanto ogni giorno
piangesse la morte di sua moglie Rita, avvenuta per fatalità la Vigilia di
Natale di due anni addietro, quando la vita le si era rivelata subdola e priva
di qualsiasi scrupolo. Al pensiero di suo padre strinse involontariamente il
cellulare tra le dita, come a sentirlo vicino a sé, vicino nei momenti di minor
serenità, nei momenti in cui rimpiangeva la voce melodiosa di sua madre.
E dietro quel sorriso si celavano
le paure peggiori che il Natale recava con sé: la fobia di quella lunga serata a
casa, lei e suo padre, attendendo una donna che tardava a rincasare, l’orologio
alla parete batteva i minuti in maniera incessante, non un attimo di pietà, non
un secondo di cuore. La cena freddata sul tavolo, l’albero acceso e tristemente
lampeggiante… e lo squillo al telefono di casa… la sua signora è deceduta circa un’ora fa…
ne siamo certi, purtroppo. Abbiamo ritrovato i documenti… un motorino,
supponiamo, ma è da appurare… fuori città… si, si… aveva in mano un biglietto
aereo…
Ma quello era il suo regalo di
Natale, per mandarla a Roma a studiare Lettere e Filosofia. E se sua madre non
fosse andata a comprarglielo, sarebbe stata ancora viva…
Ricordi e poi ricordi, rimorsi e
dolori… mordevano…
-Scusi, signora. Ha bisogno di
una mano?- ecco cosa succedeva a non prestare attenzione. Una signora sulla
sessantina e le sue arance rosse per terra. Alcune ancora rotolavano via.
-Per la miseria, ragazza! Fà
attenzione a dove cammini!- ma già era piegata a terra e raccoglieva i frutti
per ridarli alla donna. L’ultima arancia se la portò al naso e sospirò:
-Non sente odore di sole?-
-Sento solo odore di fretta. La
tua sbadataggine avrebbe potuto farmi male.- e poi una mano le strappava via
l’agrume e lo rimetteva in busta. Neppure un saluto e già era altrove, la
signora. Flora sola sul marciapiede. Sorrise, allora, e sussurrò sarcastica:
-Carina…- ed un pensiero che,
quella donna, non fosse affatto come sua madre. Affatto. Ma non avrebbe dovuto
darci peso. L’allegria che la mattinata regalava non andava sprecata in simili
scempiaggini. Perché era una di quelle mattinate che ispiravano serenità, la
gioia frenetica di un consumismo natalizio superficiale e futile. E la
possibilità di lasciar marcire se stessi ed i propri problemi irrisolti per un
altro po’, si. Come accadeva da due anni, ormai.
Attendeva quel giorno da tanto,
per esempio. Quell’attesa le metteva addosso la forza per andare avanti e la
curiosità di esplorare ogni giorno con un sorriso. Come se ogni istante fosse
l’ultimo, come se quel giorno fosse la Vigilia di Natale di due anni fa e lei
fosse sua madre, questa volta consapevole che la morte poteva fermarsi da lei da
un momento all’altro. Come un vecchio autobus arancio, sbiadito, il motore
rumoroso di una corriera anni ’50.
Era un peccato che le orecchie
umane non fossero in grado di coglierne il rumore. Gli eventi, in caso
contrario, avrebbero preso un corso diverso.
Aveva un incontro che lei
riteneva importante. Per lei era improrogabile, non vi poteva rinunciare.
Svoltava angoli, imboccava vie
che diventavano man mano più strette. La folla svaniva lentamente, il rumore più
lontano e fievole come nebbia che svaniva col sole. E lei incedeva e continuava
a farlo, un sorriso sul viso rotondo, le labbra rosse di loro distese a
respirare una giornata tersa, anche se un po’ rigida per via dell’inverno. Non
era difficile dire quanto il suo cammino fosse durato. Non aveva l’abitudine di
misurarlo in minuti, il tempo. Tutto dipendeva dal rumore che riempiva le strade
e che man mano scivolava via come una lacrima su un vetro appannato. Poteva dire
di essere arrivata a destinazione solo quando non sembrava più di star
camminando per una strada di Roma ma per una via deserta, sospesa nel tempo,
silenziosa. E dolcemente cullata, poi, dopo alcuni passi, da una musica di
violino lenta e trascinante. Proveniva sempre da una finestra che si affacciava
sulla stradina e che veniva lasciata aperta in qualsiasi periodo dell’anno, come
se chi suonasse non si curasse affatto del clima ma fosse solamente intento a
far musica, unica sua ragione di vita. Anzi, rifletteva Flora impaziente e
trepidante, la temperatura non faceva altro che essere inglobata nella melodia:
si acuiva come per esprimere il freddo che doveva star provando il compositore
ma anche il suo umore e le sue sensazioni. Un compositore che non si stancava
mai di suonare, incurante del tempo, incurante degli eventi e della vita che
trascorrevano frenetici fuori da quella finestra.
Poteva dire che quel giorno era
malinconico, Flora. La melodia pizzicata al violino mal si intonata con il sole
che tentava invano di riscaldare le acque impietose del Tevere. Un flusso di
note delicate che affluivano al suo orecchio con incommensurabile dolcezza. Un
modo di osservare la vita con un sorriso malinconico.
Si accinse a bussare al citofono
scarno. Contrastava con la palazzina bassa che sembrava appartenere ad un’altra
epoca, ad un’altra città. Come fosse un frammento di vita a sé, una scheggia di
esistenza che faceva un corso proprio. La nenia continuava a riempire l’aria,
rivelando parti nascoste dell’animo del compositore, sogni che teneva
gelosamente nascosti nel suo intimo e che le parole mai avrebbero potuto rendere
per intero. Senza sminuirne il concetto.
Fantasie che si sommavano a
fantasie. Altre ancora. Alleggerivano la realtà.
-Sono Flora, signora.
Buongiorno.- una voce gracchiò sorridente un saluto. Il portone scattò qualche
istante dopo, aprendosi e permettendo alla giovane di entrare. Non le ci volle
tanto per abbandonare la strada vagamente appiccicosa per la gelida umidità e
raggiungere una porta d’ingresso finemente lucidata, dalla tinta scura, la
targhetta di un nome importante a sottolineare chi fosse il padrone di casa. Dei
gradini massicci di granito avevano sorretto il suo passo, fremente di
raggiungere la meta.
Bussò al campanello. Il suo dolce
rumore risuonò ovattato nella scalinata, il suono del violino di certo più grave
e malinconico di questo. Una signora anziana venne ad aprire: gli spessi
occhiali per ipermetropia le ingrandivano gli occhietti neri che esprimevano
curiosità e sincera contentezza. Era una donna accartocciata dagli anni, ben
vestita per via della classe sociale della quale faceva parte nella Roma bene, i
capelli brizzolati che ormai tendevano ad un bianco candido e la pelle molto
chiara mostrava tutte le rughe che avevano accumulato le fatiche della vita.
Magra, esile, un sorriso comprensivo ed accogliente. La nonna che avrebbe sempre
desiderato avere.
-Buongiorno, cara! Che piacere
vederti! Entra, ti prego!-
-La ringrazio infinite, signora.
La trovo splendidamente, sa?-
-Questa benedetta ragazza eccede
sempre troppo nei complimenti per lusingare l’animo di una vecchia signora come
il mio… Dove sei stata per tutto questo tempo?- E nel frattempo Flora era
entrata e la vecchietta aveva chiuso la porta dietro di lei, continuandola poi a
rimirare con quello sguardo affettuoso che si riserva volentieri ad una cara
nipote.
-In facoltà ogni giorno c’è una
novità. In questo periodo gli esami si stanno facendo imminenti e non mi danno
un attimo di tregua.-
-Quando vorrai calmarti un
attimo? La tua giovinezza merita anche di essere vissuta. Non dovrai ricordarti
solo le pagine di un libro quando avrai i miei anni!- ed una risata aggraziata e
tossicchiata terminò il discorso. Flora si sfilò la sciarpa e l’appese con il
cappotto bianco sull’appendiabiti elegante, slanciato.
-Voglio rendere orgoglioso mio
padre. Al momento aspiro a questo.- La signora anziana le rivolse un sorriso
silenzioso ma non aggiunse altro. Si diresse in salotto e la invitò a sedersi.
Flora rifiutò gentilmente.
-Vado ad avvisare mio nipote del
tuo arrivo. Non essere timida! Accomodati!-
-Si figuri!- ma da rituale lei
sempre scuoteva il suo capo riccioluto e disordinato e la mano destra paffuta,
rimanendo comunque in piedi. La signora con altrettanta ritualità si dirigeva
verso lo studio del ragazzo e diceva qualcosa. La musica ad un tratto si
dissolveva, lasciando nell’aria un senso di vuoto, come di favola di cristallo
che si infrangeva tristemente a terra. E poi riappariva la signora e la invitava
a percorrere il corridoio largo e ben areato. Per terra del marmo chiaro
lucidato in maniera perfezionistica. Le pareti erano bianche, quasi come
intonacate il giorno prima. Il corridoio terminava con una porta aperta, un
minuscolo studio dall’aria raccolta. Una scrivania di legno massiccio occupava
il centro della stanza. Una sedia imbottita, dall’aria vittoriana, foderata in
pelle bordeaux si intonava benissimo con l’ambiente. Sulla scrivania fogli
bianchi , accatastati ordinatamente ad un angolo del tavolo. Un portapenne in
pelle vicino al bordo esterno e tanti fogli di spartito sparpagliati senza una
regola un po’ dappertutto: sul tavolo, per terra, in bilico sul davanzale
interno della finestra, su un leggio completamente orientato verso di essa.
Qualche altro mobile basso qui e lì ed un’altra sedia in pelle a ridosso della
parete, affianco alla porta.
Un ragazzo ad attenderla dietro
la scrivania, in piedi, il violino ancora tra le mani con il suo arco. Un bel
ragazzo che aveva all’incirca la sua età: statura media, un bel sorriso, sincero
di vederla, che gli stendeva delicatamente le labbra sottili e rosee. Il viso
curato nei minimi dettagli, non un tratto di viso su cui cresceva della barba
incolta, non un difetto a sciuparne la perfezione quasi femminile. I capelli
bruni gli oscuravano i tratti, il viso pallido, quasi cadaverico. Ma il suo era
un candore congenito che faceva apparire i suoi occhi neri come occhi attenti
anche a qualcosa che orecchie o occhi umani, troppo ancorati alla realtà, non
riuscivano a cogliere. Davano l’impressione di un ragazzo come smarrito in un
altro mondo, la cui sola presenza fisica lo tratteneva alla Terra. Ma anche la
presenza fisica dava a tratti cedimenti di stabilità. E quella chioma scura che
gli arrivava fino a qualche centimetro sopra le spalle, e quel ciuffo che gli
copriva dispettosamente l’occhio sinistro non facevano che aumentarne il fascino
anarchico e non ferocemente ribelle.
Un anarchico che credeva nel
potere onnipresente della musica.
Un bel jeans nero si abbinava ad
un pullover beige con una sola riga bianca orizzontale che gli passava giusto
sul petto. Il colletto di una camicia bianca spuntava garbatamente da fuori.
Rimase quasi incantata sulla soglia della porta a guardarlo; il suo carattere
frizzante e spigliato volatilizzato, ormai quasi dimentica del motivo per cui
era lì. Lui continuava a sorriderle non del tutto presente, rimanendo dell’altra
parte della scrivania.
-Flora… che piacevole
sorpresa…-
-Ho sentito da fuori che suonavi
qualcosa. Spero di non averti disturbato.- e gesticolava imbarazzata, quasi
timorosa di entrare nel suo studio.
-I giorni sono solo un
susseguirsi di albe e tramonti. Un accumularsi di sospiri. La gente vive la sua
vita illudendosi di star concludendo qualcosa… quante persone però lo stanno
facendo davvero?- e le indicò con un gesto elegante della mano affusolata e
curatissima di accomodarsi sulla sedia accanto alla porta. Il suo sorriso
distratto continuava a stregarla.
-Poche, suppongo. Al giorno
d’oggi si tende a sopravvivere.- ribattè con enfasi, l’aria da ragazzina
sperduta sapientemente nascosta dietro un’apparente sicurezza cordiale. Lo sentì
sospirare ed annuire aggrottando vagamente la fronte, come avesse udito nella
sua mente una voce in disaccordo con l’atmosfera del luogo. Posò lentamente il
violino sul tavolo e l’arco affianco e poi alzò il viso su di lei per ritrovarla
sorridente, il viso vagamente paffuto ancora da bambina ad ispirare tenerezza.
Attimo di silenzio. Il ticchettio dell’orologio a parete scandiva i battiti del
tempo.
-Mia nonna appare trepidante ogni
qual volta ti vede, Flora. Hai un piacevolissimo ascendente sulla sua persona…-
La ragazza respirò insuperbendosi comicamente.
-Non credevo di avere la capacità
di portare serenità ed allegria a quanti mi vedono…-
-Ti sottovaluti, allora… le doti
nascoste sono sempre le migliori…-
-Che suonavi prima?- Dario la
guardò pensieroso, di nuovo quella lontananza che lo separava anni luce da una
realtà chissà quanto mai umana. Un attimo di pausa nella quale le scrutò
sbadatamente i lineamenti mediterranei. Una ragazza corpulenta dai capelli neri,
ricci e crespi, un sorriso contagioso come la sua allegria e delle sopracciglia
folte e dal taglio nettamente siciliano. Un bello spettacolo genetico. Dopo
riprese, come mettendola a fuoco:
-Io non stavo suonando… stavo
parlando.-
-Parli con la musica?-
-Chi ha mai imposto di non
farlo?-
-Nessuno, per fortuna. Esistono
ancora certe libertà...-
-Bene, allora. Dovresti parlare
anche tu con le note.- la ragazza rise e piegò il capo di lato per guardarlo
scettica ed incantata:
-Oh no! No, no, Dario! Io non so
parlare con le note! Questa è una tua assoluta priorità!- Il ragazzo girò
intorno alla scrivania, fermandosi poi davanti a questa. Le si appoggiò
sopra:
-La musica… cosa non è in grado
di esprimere la musica? E’ uno degli errori che fa l’uomo: affidare alle parole
ciò che un paio di note saprebbero descrivere meglio! Capisci adesso qual è lo
sbaglio che macchia la nostra specie?- e i suoi occhi si accesero di interesse e
passione.
-Sei un ottimo musicista, Dario.
Ma non c’è bisogno che io te lo ricordi…- Per contro il ragazzo le rivolse un
sorriso abbagliante e perfetto e si passò una mano tra i lisci capelli che
odoravano di bagnoschiuma.
-Fa sempre piacere sentirselo
dire. Anche se io non lo credo affatto.-
-Oh… ora sei tu che sottovaluti
le tue capacità. Ti togli punti così…- e gli ricambiò il sorriso guardandolo con
occhi ingenui. Lo vide incrociare educatamente le braccia sul petto, il silenzio
sembrava far parte dello charme del quale si circondava. Bello, slanciato e
magro, l’espressione distratta gli toglieva pesantezza: lo faceva apparire come
privo di corporeità. La ragazza arrossì per l’attenzione che lui, sorridente, le
stava concedendo.
Non aveva parole per esprimere
quanto provava: un’agitazione simile a fuoco le incendiava il petto,
un’attrazione psicologica verso quello che era lui, verso i suoi modi gentili,
verso il suo comportamento sempre e comunque conforme al galateo. Era sempre
stato il suo opposto: una ragazza rustica, sbrigativa, solare e con i piedi per
terra, lei. Lui così etereo, gentile, dalle espressioni quasi femminili, senza
mai perdere di virilità e contegno.
Un nobile, in pratica. Un
appartenente alla Roma bene che, magari, ancora da qualche parte esisteva. Una
volta le aveva raccontato la storia della sua famiglia, durante uno dei loro
incontri pomeridiani, dove il tempo sembrava non esistere o scorrere troppo in
fretta. Aveva parlato di conti, contesse che erano detentori di grandi fortune,
di grande contegno e umanità. Signori nell’animo che il tempo aveva cancellato,
come le onde portano via con sé delle orme sul bagnasciuga. Una leggenda, forse
una favola sperduta nel mare del tempo. E i tempi d’oggi che avevano lasciato
alla sua famiglia solo un cognome e delle maniere da uomini d’onore ad
attestarne la grandezza. Oltre che una buona posizione economica.
Ma questa era una delle tante
cose di cui il ragazzo le aveva parlato. Avevano in comune molto di più che una
semplice passione per la cultura. Se Flora ne era affascinata e si faceva
docilmente corteggiare da lei (con libri, quadri, teatro, musica e quant’altro),
Dario la reputava la sua amante, l’unica donna che mai avrebbe avuto la capacità
di tradirlo e di distruggere la sua personalità così sensibile e sottile. Un
patto con un qualcosa di immortale, di diverso dall’umanità, dalla quale era
stato dolorosamente ferito.
Viveva con sua nonna da quando
aveva 12 anni. I suoi genitori lo avevano lasciato orfano in uno sfortunato
incidente stradale che lo aveva visto perdere anche sua sorella maggiore, alla
quale era tanto legato. Già bambino introverso di suo, il ritrovarsi senza
famiglia ne aveva acuito l’intensità, al punto che non aveva amici, e non ne
ebbe fino alla ventina, a parte il violino che suo padre gli aveva regalato per
il suo undicesimo compleanno. E per lui suonarlo era come la chiave d’accesso ad
un’altra realtà dove i suoi erano ancora vivi e non lo avevano lasciato solo.
Come sentire ancora la voce di suo padre e sua madre. Come dare loro il fiato
che un automobilista ubriaco e sotto l’effetto della droga aveva strappato loro
prematuramente.
Dario non era tipo da arrabbiarsi
col mondo e con Dio, maledire tutti e progettare vendetta, propulsore per una
ripresa gloriosa che avrebbe fortificato il suo ego.
Dario soffriva e basta.
Ma sapeva nasconderlo molto bene,
al punto che neppure sua nonna, che in lui rivedeva il padre, riusciva a
decifrarlo e svelarlo.
Eppure lei lo percepiva e lo
ammirava persino: perché lui guardava in faccia il dolore ogni giorno,
abbracciando la sua croce e portandosela in spalla. Lei continuava a rifiutarla
e a lasciarla coprire di polvere nel fondo della sua mente, consapevole che,
quando sarebbe stato inevitabile affrontarla, il peso eccessivo l’avrebbe
schiacciata. Forse lui un giorno sarebbe guarito; lei ne ignorava sintomi e
malattia.
-Non vedevo l’ora di vederti… non
ne potevo più…- si sentì bisbigliare con un sorriso infantile al suo indirizzo.
Lo vide ricambiare l’espressione con maturità, malinconia recondita e vaga
dolcezza,
illanguidita da pensieri che
sembravano continuare a distrarlo.
-Tutte le dipendenze fanno male.
Cosa dice la tua Filosofia?-
-Che… la dipendenza da una
persona a volte può capitare…- ed abbassò lo sguardo sul pavimento lucidato e
pulito. La sua voce arrochita per il tono basso che usava per risponderle, una
conferma del fatto che lei era l’unica, o una delle pochissime persone, che
avessero stabilito un qualche rapporto con lui:
-Questo è quello che pensi tu…-
ma il loro rapporto era profondo. Dario stabiliva solo rapporti di quel genere.
-In effetti è così… Questo lo
penso io…- lui non aggiunse altro. Inclinò il viso di lato e la osservò curioso,
con tenerezza, un pizzico di apparente serenità. Dopo un po’ afferrò con
delicatezza il violino e lo appoggiò nell’incavo della sua spalla sinistra, con
l’arco in mano a sobbalzare di qualche millimetro.
Lo osservò ancora, sembrava così
concentrato che a momenti esprimeva, con un’espressione, il dolore che la mente
gli doveva star dando.
Occhi che studiavano la sua
persona, occhi che fissavano i suoi occhi, non intenzionati a parlarle, perché
le note esprimono molto più di quanto le parole sappiano fare. Altra dolcezza
per lei, forse. O per il pensiero che gli attraversava il viso.
E poi lo vide chiudere gli occhi
e suonare a memoria una melodia. Abbandonarsi completamente a lei, ai suoi gesti
lenti e a tratti nervosi che compiva per accarezzare il violino, la sensazione
di fusione tra lui ed il legno, l’aria fredda che penetrava nella stanza, il
silenzio che faceva da sottofondo al suo aleggiare tra le pareti bianche.
Era una musica delicata, che lo
portava a spostare il capo e la spalla a cui era appoggiato lo strumento con una
lentezza ed una delicatezza quasi commovente, come a descrivere l’idillio che
lui e la sua arte stavano avendo. Il suo completo farsi trascinare come un’onda
nel mare in burrasca porta con sé la sabbia del bagnoschiuma. Un’estasi che si
sentiva con la stessa intensità anche da fuori, anche dalla sua posizione di
spettatrice. Quella musica a tratti malinconica, a tratti giocosa e divertente
che graffiava e tremolava insieme ai gesti determinati ed esperti delle sue
mani. Un vento fresco che arrivava dalla finestra e gli scompigliava i capelli
ma lui incurante continuava a parlarle, a raccontarle di sé e di altre cose di
cui a voce non avrebbe mai parlato. Una dolce ninna nanna che a tratti diventava
spinosa, come violenta, impetuosa. E da lì i suoi gesti si impennavano,
diventavano teatrali, i suoi occhi si serravano come se stesse provando dolore
di fronte a quelle note che da raccontare avevano molto.
Quel suono le prese il cuore,
glielo strinse tristemente in una morsa senza speranza. Le sembrava di sentire
la sua voce bassa, senza nessuna inflessione regionale di preciso, narrarle di una
storia molto più complicata di un semplice racconto. Le sembrava sentito,
vissuto interiormente con tragicità. Le sembrava le stesse raccontando una parte
di sé, dei suoi sentimenti che a galla non venivano mai quando parlava. Lo
vedeva colpire quasi con rabbia e violenza le corde del violino e mordersi il
labbro inferiore con i denti, come per evitare di urlare. Strinse maggiormente
le corde dello strumento. Un suono acuto ed agghiacciante di dolore risuonò
nella stanza.
Poi uscì fuori nel vicinato
deserto.
Lo vide allontanarsi dal tavolo e
piegarsi un po’ di lato. Il suono che ne ebbe origine fu malinconico e
nostalgico, colmo di rammarico. E poi divenne una nenia di nuovo dolce, che
entrava nel cuore. Colma di amore e di tenerezza. E poi di nuovo come un’altra
voce che rispondeva a quella dolce.
Flora chiuse gli occhi ed
un’immagine soffusa prese vita nella sua mente. Le stava raccontando una storia
d’amore tra due giovani così diversi, così uguali. Lui soffocato dai suoi
rimorsi, incapace di uscirne e di assicurare un futuro radioso a lei. Soffocato
dalla sua interiorità, dal suo pessimismo che si adagia sul fondo, che non ha
voglia di combattere. Le chiede di guardare oltre lui, intorno a sè, alla
ricerca di qualcun’altro che si faccia meno problemi, che abbia la capacità di
assicurarle la felicità. E’ una richiesta dolorosa, che dentro lo piaga perché
per lui è la cosa più bella che abbia mai incontrato sulla sua strada. Una parte
di sé è troppo egoista per desiderare la libertà di lei, il suo bene. L’altra è
disposta a sacrificare ancora, l’ennesima volta, se stessa per la persona che
ama, spingendola a ricercare fuori una felicità surrogata, un’illusione che
anestetizzi un po’ il dolore della sua mancanza. Lui prova rabbia verso di sé,
vorrebbe essere diverso ma non può. Ha già provato e non ci riesce. La luce di
lei è la sola terapia che possa riportarlo alla vita. Ma con la sua presenza
rischierebbe di affievolirla, di ucciderla. Lei non crede alla sua freddezza
esteriore. E’ troppo innamorata per fermarsi alle apparenze. Gli dice che sa
aspettare, che se sarà necessario invecchierà pur di attenderlo, affinché anche
lui trovi la propria libertà da sé. Il tutto si conclude con una promessa da
parte di lui.
Quando riaprì gli occhi la musica
aveva smesso di animare la stanza, lasciando un musicista immobile, appoggiato
al suo strumento, come per riprendere aria. Come se il buttare fuori tutti quei
tumulti interiori lo avesse affaticato. Affascinata notò una lacrima percorrere
la sua guancia rasata alla perfezione. Scomparve velocemente alla sua vista,
quella pausa troppo lunga per non sottolineare il suo gesto musicale.
Quando anche lui ebbe riaperto
gli occhi la guardò intensamente per un attimo, gli occhi umidi che non
avrebbero versato altre lacrime per orgoglio. Dopo il suo sguardo cambiò e fu
mascherato con un sorriso sereno.
Tutta una finzione per sfuggire
da sé.
Flora aprì un paio di volte le
labbra carnose e non emise alcuna parola. Dopo bisbigliò ancora
impressionata:
-Davvero… notevole.- Lui non
aggiunse nulla e si limitò a sorridere educatamente, il suo sguardo una lenta
carezza sulle sue guance. Dopo lo sentì sospirare e le diede compostamente le
spalle, forse per sistemare il violino sul tavolo, forse per respirare una
boccata d’aria pura, ancora. Allora lei prese coraggio e domandò, guardandogli
intensamente la schiena:
-E come va a finire questa storia
d’amore?- Attimo di pausa. Dario smise di armeggiare col suo violino. Un respiro
profondo, più degli altri.
-Lui è estremamente complicato
dentro, Flora… dovrebbe rinascere daccapo affinché le cose funzionino come
devono. Come lei vorrebbe. Come meriterebbe che le accadessero.-
-Lei è piena di speranza. E’
disposta ad attenderlo tutta la vita…-
-La vita è un battito di ciglia
così leggero… per coglierne il senso non sarebbero sufficienti tutte le promesse
del mondo…- le sussurrò di rimando.
-Ma lui manterrà la sua
promessa?- chiese lei bruscamente, mostrando la sua impulsività solare. Dario si
girò per scrutarla, come ponderando la risposta migliore da darle. Rimase un
minuto buono ad osservarle gli occhi scuri, limpidi, in attesa di risposta,
trepidanti.
-Chi può saperlo, in fondo? La
storia è solo a metà.- e poi le rivolse un altro sorriso che andava via via
allargandosi sul viso. Un’ombra malinconica nei suoi occhi. La ragazza si sentì
avvampare ed abbassò il viso, sorridendo controvoglia a sua volta.
-Mi spiace farti accomodare nello
studio, ogni volta che vieni a trovarmi… sono un pessimo ospite.- e si mosse
verso un mobile basso, dal quale estrasse una bottiglia ambrata. Doveva essere
liquore pregiato.
-Al contrario, invece. Sei sempre
così gentile…-
-E’ quanto di più intimo possiedo
qui. Qui passo le mie giornate. Le pareti sono colme della mia musica. La mia
camera da letto a volte mi è estranea.- poggiò la bottiglia sul tavolo. Poi fu
la volta di due bicchierini a calice, eleganti, semplici, luccicanti.
-Io passo più tempo in cucina.
Non so perché, ma mi ricorda la mia terra.- Il ragazzo rise divertito ed
obbiettò seducente, più di quanto volesse realmente apparire:
-La Sicilia… terra di bontà
culinarie, delle arance e del sole.-
-E terra di affetti. Prima di
tutto è quello.- Un vago sorriso ancora sulle sue labbra sottili. Un invitarla
ad alzarsi e a prendere posto accanto al tavolo, al posto suo. Flora ubbidì
ricambiando il sorriso. La sedia sulla quale era accomodata prima fu spostata di
fronte a lei. Lui vi prese posto soddisfatto. Rimasero un attimo a fissarsi in
silenzio. Il freddo pungente non lo scalfiva.
Sembrava fatto di ghiaccio
morbido.
La ragazza allora mormorò:
-Perché tieni sempre aperta la
finestra?- Il ragazzo abbassò lo sguardo sui bicchieri luccicanti e gliene
avvicinò uno in silenzio. Lei in silenzio lo afferrò. Lo vide aprire con calma
la bottiglia. Appena fu stappata un aroma pungente si diffuse nell’aria fredda.
Le versò con educazione una giusta quantità di liquido prezioso. La versò a sé.
La bottiglia tornò al posto di prima.
-E’ un cognac squisito. Ha almeno
7 anni di vita.- stava sfuggendo.
Quella finestra aperta per lui
valeva cose che nessuno poteva comprendere. Non sarebbe stato difficile capire
che forse non avrebbe parlato.
-La tua passione per liquori del
genere è innegabilmente raffinata.-
-Momenti speciali. Li apro quando
si verificano momenti speciali.- lei era uno di quelli. Le sorrise il cuore.
-Rischierai di farmi perdere il
senno, allora… ogni volta che vengo a trovarti mi dai assaggio di meraviglie
sempre diverse.- Dario rise brevemente. Dopo bevve con garbo e per qualche
secondo. Quindi prese a far oscillare il liquido chiaro nel vetro del calice.
Come ipnotizzato dal suo movimento bisbigliò:
-E dimmi, dunque: ogni momento è
ripetibile?- Breve esitazione. La sua risposta.
-No... Credo di no.- lo vide
annuire d’accordo, un vago sorriso malinconico gli fermava i tratti delicati.
Una bellezza irraggiungibile che nemmeno il tempo avrebbe intaccato e che il
dolore continuava a modellare e scolpire. Portò il proprio bicchiere alle
labbra. Ne annusò l’odore pungente e poi bevve un buon sorso.
Cognac francese. Fortissimo. Non
era abituata a bere, lei. Le penetrò nello stomaco bruciando silenziosamente
quanto giaceva al suo interno. Pensieri ed emozioni. Anche quelli. Quasi li
anestetizzava, li rendeva più mansueti e distaccati da sé. Quel gusto né amaro,
né dolce, quel gusto come una carezza data con troppa forza, rabbia repressa nei
propri confronti. Desiderio di esplodere.
Dario era fatto così: non usava
parole. Anche il liquore faceva parte del suo linguaggio. Le stava facendo
provare il suo stordimento interiore, la sua rabbia schiacciante. Quel fuoco che
a lui bruciava tutto, a lei si limitava ad incendiarle lo stomaco. Le regalava
un piccolo frammento di sé. Lei lo custodiva gelosamente, difendendolo dal mondo
e da se stessa. Lo vide chiudere gli occhi, serrare le palpebre e buttare giù un
altro sorso di cognac. Per sentirsi più leggero. Quando non suonava ricorreva a
stratagemmi del genere. Dopo lo sentì mormorare:
-L’aria è di quanto più innocente
e libero c’è.- Flora appoggiò il bicchiere sul tavolo e sospirò osservando la
sua espressione contratta in una morsa di dolore. Una tagliola sembrava
dilaniarlo dall’interno. Lei impotente osservava. –Come la musica. Come la luce
del sole.-
-Non è colpa di nessuno.-
-Suono per chi mi vuole
ascoltare. Racconto la mia vita.-
-Qualcuno l’ascolterà sempre,
Dario.- e avrebbe voluto prendergli la mano e stringergliela forte. Avrebbe
voluto fargli capire che era lei quella che avrebbe voluto udirla per sempre.
Quella che lo avrebbe aiutato a trasportare la sua croce. Non sarebbero più
stati soli. Non avrebbero…
-Non sono che accordi. Non sono
parole… non ti lasciano mai solo. Non ti racconteranno mai bugie.-
-Credi che qualcuno te le
racconterà mai?-
-Qualcuno, qualcosa…
qualsiasi…-
-Qualcuno che farà di te il
centro della sua vita?- Dario si riprese dallo stato in cui era caduto e la
fissò intensamente negli occhi per poi sorridere, il suo dolore di nuovo
celato:
-Morirei per l’arte…- le spezzò
il cuore. Sorrise tristemente ed abbassò lo sguardo sul proprio grembo. Altro
silenzio tra loro.
Erano arrivati ai saluti.
Quando rialzò il viso lo trovò ad
osservarla. Tristezza infinita nei suoi occhi. Si alzò barcollante. Il cognac
non stava influendo sulla sua andatura.
-Si è fatto tardi…-
-Si… si è fatto tardi.- gli
rivolse un sorriso di circostanza e si guardò intorno impacciata. Dopo fece il
giro della scrivania e gli andò vicino per salutarlo. Lui rimase a fissarla
seduto. Tormento, altro ancora. Non voleva che andasse via.
-Tornerò appena…- ma scosse la
testa e face qualche movimento con le braccia nervose. Le mani veloci, troppo
veloci per non trasmettere il suo stato d’animo semidistrutto. Il suo ottimismo
e la speranza solo di superficie.
Sospirò e, non riuscendo a
trattenersi, si allontanò velocemente da lui. O almeno ci provò. Sentì una mano
che afferrava la sua con delicatezza, la stessa con la quale trattava il suo
violino. Interruppe il suo cammino e si girò a guardarlo sorpresa. Lo vide
baciarle dolcemente la mano e le nocche. Le strinse per un secondo il palmo,
come per imprimersi nella pelle il suo tocco. Dopo la lasciò andare via.
Lentamente.
Con malinconia.
Lo guardò un’ultima volta e lui
ricambiò il suo sguardo. La guardò intensamente e poi le sorrise con tristezza.
Si portò l’indice e il medio alle labbra e le soffiò via un bacio.
Chiuse gli occhi.
Accostò la porta alle proprie
spalle.
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