Cap. 19 Vincitori..?
Il branco sarà riuscito a portare a casa la pelliccia? E la trasformazione di Andrew a che punto sarà?
Date la scalata al capitolo e lo scoprirete.
Buona lettura :)
Cap. 19 Vincitori..?
Se avesse potuto gridare
l’avrebbe fatto, anche col poco fiato che le rimaneva. Ma era
ancora in forma animale e l’unica cosa che poté fare fu
emettere un uggiolio di terrore.
Osservò impotente il corpo
del suo piccolino descrivere un arco in aria e poi sparire nelle acque
del fiume Hudson con una cascata di spruzzi.
Spalancò la bocca, tentando ancora di urlare.
Inutile.
Gli occhi colmi di terrore,
restò a fissare i cerchi d’acqua che pian piano scemavano,
sperando ardentemente che le corde si fossero allentate e Blake fosse
sul punto di riemergere. Percepiva nella propria testa la paura cieca
del suo bambino, le sue involontarie richieste d’aiuto
telepatico, ma era troppo sconvolta anche solo per rispondergli.
E non sarebbe riuscita ad immergersi per salvarlo, ridotta com’era.
Disperata, girò la testa in
cerca di aiuto. Evan era ancora impegnato a fronteggiare Jared e lo
scontro sembrava ben lungi dall’essere finito; il nuovo arrivato
stava combattendo furiosamente con uno degli ultimi avversari rimasti e
non riusciva a vedere Eric.
Ma percepiva la paura e l’ansia di tutti quanti.
Volevano salvare Blake.
Dovevano salvare Blake, a tutti i costi.
“Ragazzo! Eric!”,
Alastair lo chiamò per l’ennesima volta, cercando di
ottenere la sua attenzione. Ma il licantropo non si muoveva e
l’unico segno di vita era l’alzarsi ed abbassarsi frenetico
della sua cassa toracica.
Alst sentì la rabbia montare
dentro di sé, simile al ghiaccio che avanza e inghiotte tutto
quello che si trovi nei paraggi. Non era mai stato incline a scoppi
d’ira violenti, ma sapeva rendersi pericoloso quando voleva.
Arricciò con forza il labbro
superiore e puntò gli occhi castani sul lupo che aveva davanti.
Se a molti poteva apparire come uno scozzese dall’aspetto un
po’ rude, pochi sapevano quanto fosse abile nel controllare i
propri impulsi. Era riuscito a raggiungere l’equilibrio interiore
e non era più in conflitto con la bestia dentro di sé da
parecchio tempo.
Ma questo non voleva dire che aveva perso la capacità di uccidere. Preferiva solo usarla quando era veramente necessario.
Come in quel momento.
Divaricò le zampe, saggiando
con cura l’asfalto consunto sotto i polpastrelli. Il suo
avversario sembrava ancora intenzionato ad attaccarlo, pago del
risultato ottenuto poco prima.
Li aveva colpiti a tradimento ed
Alst aveva reagito troppo lentamente, rischiando di essere preso in
pieno. Inaspettatamente Eric si era frapposto tra loro due,
intercettando il colpo destinato a lui.
Ed ora giaceva a terra, praticamente immobile e riverso nel suo stesso sangue.
Non poteva tollerarlo. E non poteva
nemmeno permettere che il cucciolo che erano venuti a salvare morisse
annegato… quindi doveva liberarsi in fretta di quello
scocciatore.
Fece perno su tutte e quattro le
zampe e scattò in avanti, coprendo in poco tempo i metri che lo
separavano dal suo obiettivo. All’ultimo momento deviò
dalla propria traiettoria e si spostò di lato, attaccandolo sul
fianco.
Il lupo ringhiò una protesta,
cercando di contrattaccare, ma non ne ebbe il tempo. Alastair
iniziò a colpirlo da tutte le angolazioni, strappandogli ogni
volta un’oncia di carne o qualche schizzo di sangue.
In meno di tre minuti riuscì
ad avere la meglio sull’avversario, decretando la parola fine.
Osservò il cadavere del lupo, ma poi si girò per
concentrare la propria attenzione su Eric.
“Alst, il bambino!”, la voce di Evan gli esplose in testa.
“Chi si occuperà del ragazzo?”, domandò, esitante.
“Io. Vai!”, ordinò l’altro.
Senza più esitazioni si
gettò a capofitto verso la banchina, superando sia Emily che il
suo avversario. Intercettò l’odore del piccolo e
piegò leggermente a destra, balzando in acqua poco dopo.
Perforò la
superficie come una freccia e, una volta sott’acqua, riassunse
sembianze umane. La bestia permetteva loro di fare molte cose, ma il
nuoto non era tra le sue abilità più sviluppate.
Scandagliò le
profondità grigiastre del letto del fiume, cercando di
individuare la piccola sagoma. Sentiva la sua paura, ma con tutto quel
fango era difficile vederlo.
Fino a che notò un piccolo
baluginio con la coda dell’occhio. Si avvitò su se stesso
e puntò in quella direzione, fendendo la corrente con grandi
bracciate.
Più si avvicinava più
la sua visione d’insieme si schiariva, rendendogli possibile
individuare Blake. Senza troppe cerimonie lo afferrò per le
corde che lo legavano per trarlo a sé, poi se lo strinse con
cura al petto e, con un colpo di reni, tornò a puntare verso
l’alto.
Sentiva il cuoricino del piccolo rallentare la propria corsa e sapeva che doveva sbrigarsi.
-Riuscirete a salvare il marmocchio, a quanto pare.- commentò Jared, sprezzante.
Aveva la spalla sinistra lacerata e
non riusciva ad usare il braccio già da un po’ ma,
nonostante la ferita, rimaneva sempre un emerito idiota.
-Spera di riuscire a salvare la tua
pellaccia, piuttosto.- gli suggerì Evan. Avrebbe voluto
risparmiare al piccolo Blake tutti quei traumi, così come ad
Emily ed Eric, che giaceva ancora a terra. Vivo, nonostante tutto, ma
ancora incapace di muoversi.
“Bel lavoro, Alfa.”, si rimproverò. Detestava che altri pagassero per sue imprudenze.
L’americano tentò un
affondo, prontamente bloccato dal suo avversario. –Non ti
preoccupare per me: me la sono sempre cavata.- rispose, cercando di
forzare la resistenza di Evan.
Lui gli lanciò
un’occhiata bieca, prima di torcergli il polso e sferrargli un
calcio al menisco. –Non lo metto in dubbio.- replicò.
–Ma questa volta te ne andrai con un po’ di lividi.
Dai rumori che riusciva a percepire,
Alastair stava riemergendo e avrebbe avuto bisogno di aiuto per gestire
la situazione. Quindi doveva metter fine a quello scontro.
Gonfiò i muscoli di spalle e
braccia, raccogliendo le ultime forze rimastegli: nonostante la
spavalderia, aveva alcune lacerazioni e fratture dall’aspetto
preoccupante.
Jared sembrò vedere
qualcosa nei suoi occhi perché cambiò improvvisamente
espressione, mentre il sangue gli defluiva dal viso. Provò a
contrattaccare per liberarsi l’arto bloccato, ma ottenne
solamente una frattura scomposta.
Van lo lasciò andare,
permettendogli di arretrare, ma subito dopo lo colpì alla base
del collo con la gamba destra, imprimendo al corpo del licantropo una
forza di rotazione tale da mandarlo a schiantarsi a terra.
Nel punto di atterraggi
l’asfalto si sbriciolò, collassando in un avvallamento
creato dall’onda d’urto. Soddisfatto, lo scozzese diede le
spalle all’avversario, pronto a metter fuori gioco anche
l’ultimo lupo rimasto.
Peccato che Simon, il Gamma del branco, se la fosse data a gambe.
“Codardo.”, pensò disgustato.
Sputò un grumo di sangue,
ripulendosi la bocca dai residui e poi si avviò rapidamente
verso Eric, per controllare come stesse. Mentre si accosciava accanto
al corpo un improvviso brivido freddo gli attraversò la schiena.
Sollevò la testa di scatto, cercando d’individuarne la causa, ma non scorse nulla di sospetto.
“Mi sento osservato.”,
pensò, mantenendosi davanti ad Eric per proteggerlo da eventuali
attacchi. Scandagliò ogni metro quadro in vista, ma i suoi occhi
non videro nulla di anomalo in ciò che lo circondava.
Stava per iniziare una nuova
perlustrazione visiva quando colse un baluginio. Puntò lo
sguardo verso l’ingresso di un grosso capannone alla sua destra,
scrutando attraverso le ombre della basculante di metallo.
Un paio di occhi comparve nel suo
campo visivo. Sbatté le palpebre, confuso e, quando tornò
a guardare, quelli erano spariti.
Non avrebbe saputo spiegare il perché, ma era sicuro di averli già visti prima.
Infranse la superficie calma del fiume con violenza, prendendo una grande boccata d’aria.
Si tolse i capelli dal viso e poi
percorse i pochi metri che lo separavano dalla banchina, aggrappandosi
al bordo con l’ausilio della mano libera.
Blake aveva iniziato a tossire abbondantemente, rischiando di strozzarsi, ma era un buon segno: non avrebbe dovuto rianimarlo.
Fece perno e si issò sul
bordo, al sicuro e all’asciutto. Per prima cosa liberò il
piccolo dalle corde intessute d’argento, rivelando quanto fossero
state più pericolose del bagno fuori programma.
-Figliolo…- Alastair
cercò di attirare la sua attenzione. Blake, il viso
completamente congestionato a causa dei colpi di tosse, alzò la
testa e lo fissò confuso. –Sono un amico di tua madre.
Come ti senti?
Il bambino si fece un rapido esame e poi gli mostrò i polsi. –Bruciano…- disse con voce roca.
-Lo so. Ma guariranno, non ti
preoccupare. Senti male da qualche altra parte?-
s’informò, paziente. Ci pensò su e poi scosse la
testa. –Bene. Ti porto da tua madre.
Lo prese in braccio senza sforzo e
raggiunse Emily, che nel frattempo era riuscita a sedersi. Ansimava
pesantemente e teneva una mano premuta sul fianco per tentare di
fermare l’emorragia in corso. Quando sentì i passi dello
scozzese sollevò il capo e i suoi occhi si riempirono di
lacrime. Senza più pensare al dolore o ad altro allungò
entrambe le braccia, incitando Alastair ad affrettare il passo.
Quando la distanza che li
separava fu annullata, zia e nipote si strinsero forte, quasi come se
volessero diventare una cosa sola.
Blake scoppiò a piangere di colpo, dando libero sfogo a tutta la paura che aveva provato in quelle ore di prigionia.
Emily fece lo stesso, anche se con
un po’ più di contegno. Che si sgretolò non appena
vide la carne viva messa a nudo dalle corde d’argento.
Accentuò ancor di più la presa e seppellì il viso
nei capelli scuri del bambino.
Alst rimase ad osservare la scena,
memore di momenti simili nel proprio passato. Poi, come ricordandosi di
dove fosse e perché si trovasse lì, si riscosse e si
scrollò di dosso l’acqua. Passò una mano tra i
capelli e, dopo un’ultima occhiata al quadretto familiare,
raggiunge Evan.
S’accostò al suo
pupillo e cercò di capire quanto fosse grave la situazione. Non
l’avrebbe mai detto a voce alta ma, considerando lo svantaggio
numerico, era un miracolo che non ci fossero state vittime tra le loro
fila.
Almeno, non ancora.
-Lasciami controllare il ragazzo.-
scostò Van, gentilmente ma con mano decisa. Nel farlo,
però, arrischiò una rapida occhiata indagatrice del corpo
dello scozzese, prendendo nota delle sue ferite. Alcune sembravano
più serie di altre, ma nessuna aveva un aspetto mortale.
Eric non se la passava
altrettanto bene, invece. Spostò gli occhi su di lui e prese a
tastargli il corpo alla ricerca delle ferite. Trovò un brutto
squarcio all’altezza dello sterno che necessitava di punti di
sutura, punti che non poteva assicurargli dato che non aveva con
sé l’attrezzatura medica. Gli si erano rotte alcune
costole, ma le fratture erano pulite e sarebbero guarite abbastanza
velocemente.
La ferita più preoccupante,
però, era quella che aveva alla testa e che grondava sangue di
un rosso brillante, talmente intenso da sembrare finto.
“Speriamo non abbia subito
danni cerebrali.”, si augurò, analizzando con tutti i
sensi a disposizione ciò che aveva davanti.
-E’ molto grave…?- la voce di Evan suonò vagamente esitante.
-Lasciami lavorare, per favore.-
replicò, un po’ brusco. Non poteva permettersi
distrazioni, non in quel momento. –Va’ da Emily.
Non aveva nulla che potesse essergli
d’aiuto, con sé, ma poteva controllare tutti i parametri
vitali del ragazzo per poter escludere alcune diagnosi. Prima,
però, doveva svegliarlo.
Facendo attenzione a non scrollarlo
iniziò a richiamarlo alla coscienza usando la telepatia.
Sfiorò la bestia di Eric, stuzzicandola e quella rispose
abbastanza velocemente da fargli ben sperare. Dovette fare numerosi
tentativi prima di svegliarlo, ma alla fine ci riuscì.
-Non ti muovere, ragazzo.- gl’intimò.
Gli controllò le pupille per
verificare se ci fosse asimmetria e quindi una possibile emorragia
interna. Quando quelle si presentarono uguali e sensibili alla luce,
sentì la tensione allentare un po’ la presa.
Fece per chiedergli come si sentisse quando colse il suono di sirene in lontananza.
Confuso, si voltò per cercare
lo sguardo di Evan. “Ho avvertito il mio dipartimento circa
possibili scontri violenti in questa zona.”, gli disse.
“Volevo avere un piano di riserva… anche se
intempestivo.”, diede in una scrollata di spalle che doveva
apparire noncurante, ma che fece capire quanto fosse stata rischiosa
quella retata.
“Ma David…”
“Non l’ho detto a Dave perché non immaginavo avrei chiesto aiuto.”, rivelò.
“Grazie a Dio non sei
così sconsiderato come ho temuto.”, Alastair
sollevò gli occhi al cielo, prima di tornare a concentrarsi
sulle autovetture in arrivo. “Farò ricoverare Eric, per
sicurezza. Potrebbe avere un edema cerebrale.”, aggiunse subito
dopo.
Percepì, più che
vederla, la scossa che attraversò il corpo del giovane
MacGregor. Senza rendersene conto, tutti quei cambiamenti che stavano
avendo luogo lo stavano trascinando a forza fuori dal suo guscio
protettivo.
Avrebbe potuto essere
doloroso, anzi lo sarebbe stato di sicuro, ma sperava che potesse
servire a ridargli il ragazzo passionale ed estroverso che aveva visto
crescere e a cui aveva insegnato ad amare l’arte del tiro con
l’arco.
“Stagli accanto e avvertimi non appena sai qualcosa.”, si raccomandò il giovane, allontanandosi.
Un gemito di protesta lo fece
voltare nuovamente verso Eric, che stava tentando di tenere gli occhi
aperti per capire cosa gli fosse successo. –Non sforzarti.- disse
Alastair. –Sta arrivando l’ambulanza. Verrò con te.-
aggiunse, pratico.
La nuova recluta si lappò le
labbra, cercando di inumidirle un po’ per poter parlare.
–Il… bimbo..?- riuscì a chiedere.
-Scosso, ma salvo.
Eric si concesse un breve sorriso prima che un fremito lo scuotesse e tornasse nuovamente nell’incoscienza.
Van avvertì la bestia
di Eric chetarsi, quasi dissolversi, stremata dal combattimento. Il
corpo del ragazzo stava combattendo contro i colpi subiti, cercando di
ritrovare il proprio equilibrio.
“E il mio, di equilibrio?”, gli venne da chiedersi.
Ancora non si capacitava di come
fossero riusciti a sopravvivere a quell’incursione né di
come si sarebbe evoluta la situazione da lì in avanti. Quello
che contava, in quel momento, era portare Blake in un posto sicuro e
tranquillo, dove potesse riprendersi dallo shock.
Annullò la distanza che lo
separava da zia e nipote e si fermò, colpito fisicamente dal
miscuglio di emozioni che emanava dai due. Erano così forti da
poterne sentire il calore, avvolgente e soffocante al tempo stesso.
Si sentì stranamente a disagio, senza sapere bene come affrontare la situazione.
Gli venne in aiuto il piccolo, che
lo guardò con uno sguardo di supplica negli occhi chiari. Evan
capì al volo la sua richiesta e, schiarendosi la voce,
disse:-Emily, lo stai stritolando.
La lupa spalancò gli occhi e
si staccò di colpo dal corpo tremante del nipote, guardandolo
come fosse un alieno. –C-cosa..?- balbettò.
-Mi stavi facendo male…- piagnucolò in risposta Blake.
-Oddio, scusami!- fece per
riabbracciarlo, ma si rese conto della presenza di Evan. Si
bloccò e si guardò intorno, evitando di incontrare lo
sguardo dello scozzese.
-Abbiamo vinto. Per ora.- la
informò. –Ma Eric ha incassato parecchi colpi e deve
essere ricoverato. Voi avete bisogno di un controllo?- chiese subito
dopo.
Emily allora si rialzò
lentamente in piedi, decidendosi ad alzare gli occhi. –Forse
dovresti farti vedere da un medico.- rispose di contro.
-Sciocchezze.- Evan liquidò
la questione con una piccola smorfia. –Gli agenti che sono appena
arrivati fanno parte della mia squadra. Venite con me: credo avranno
bisogno di farci alcune domande.
A quelle parole il piccolo Blake si
allarmò ed arretrò di qualche passo. Emily se ne accorse
e lo afferrò prontamente per un polso. –Cosa succede,
tesoro?- gli chiese, preoccupata.
Lui scosse energicamente la testa.
–Non posso! Se dico qualcosa… se… papà si
arrabbierà!- farfugliò, ora visibilmente spaventato.
Apparve subito chiaro che Jared aveva giocato con la mente del suo
stesso figlio, minacciandolo di fargli del male se avesse fatto o detto
qualcosa contro di lui.
La bestia dentro Emily
digrignò i denti, indignata, ma il suo capobranco fu lesto a
fermarla. –Lascia perdere. Abbiamo bisogno di cure, quindi
sbrighiamo questa faccenda ed andiamo a casa.- la fissò
intensamente per alcuni istanti, sfidandola ad opporsi. Lentamente,
anche se riluttante, l’americana rilassò i muscoli della
mascella ed annuì.
-Bene. Andiamo.
Non aveva notizie da
parecchie ore, ormai. Né Andrew né David si erano fatti
vivi per aggiornarla sulla situazione. Anzi, sulle situazioni, dato che
parte del branco era andata in missione.
Sentiva le budella attorcigliate ed
aveva un’ansia tale che le mani non smettevano di tremarle. Senza
considerare la fastidiosa pulsazione alle ferite che si era procurata
quando era stata coinvolta in una partita mortale di guardie e ladri.
Osservò il proprio
riflesso allo specchio e tentò di non spaventarsi. Tutti i
muscoli del suo viso erano contratti e sembrava sul punto di esplodere
in un grido isterico. Si passò lentamente una mano tra i capelli
e si inumidì la base del collo.
“Perché nessuno mi dice
niente?”, si chiese, vagamente irritata. Continuava ad oscillare
tra l’irritazione e la preoccupazione come un pendolo impazzito.
-Ehi, Mandy, la cliente
delle…- Gabrielle spalancò la porta all’improvviso,
interrompendosi però subito dopo. –Oddio, stai bene?-
chiese preoccupata.
Amanda tentò un sorriso.
–Sì. Tutto bene… tranquilla.- mentì
spudoratamente. Ed anche male, a giudicare dallo sguardo
dell’amica. –Ci sono dei problemi a casa. Con Drew.-
confessò con voce stanca.
Gabbie si appoggiò allo
stipite della porta e la soppesò in silenzio. –Termina
questo appuntamento e poi vai a casa.- le disse.
L’altra alzò la testa
di scatto. –Ma… il mio permesso non mi permette di uscire
prima di due ore!- protestò.
La direttrice di sala fece spallucce. –Non mi interessa. Ci vediamo di là.- e detto questo la lasciò sola.
Mandy restò a fissare la
porta, basita, ma poi si lasciò sfuggire un sorriso.
–Grazie.- sussurrò. Per quanto Gabrielle potesse sembrava
superficiale (e spesso ce la metteva davvero tutta per dare
quell’impressione), aveva un cuore d’oro.
Trasse un respiro profondo,
ritrovò un po’ di calma interiore ed indossò il suo
miglior sorriso professionale. Un rapido aggiustamento ai pantaloni
palazzo che aveva scelto per quella giornata di lavoro ed uscì,
diretta verso la sposa delle quindici.
Fortunatamente la ragazza che
le era stata assegnata si rivelò essere pacata e tranquilla. E,
cosa molto importante, per nulla sovversiva in merito alle scelte
d’abito che le proponeva. Così in meno di un’ora si
ritrovarono davanti alla cassa, entrambe sorridenti e soddisfatte.
Amanda si congedò con una
stretta di mano e poi si avviò a passo sostenuto verso i
camerini, grata a Gabrielle per averla congedata in anticipò.
Indossò la giacca con gesti misurati per evitare di riaprire la
ferita al fianco, stranamente meno impegnativa di quella alla gamba.
Controllò brevemente entrambe
le fasciature e poi si diresse verso l’uscita, salutando con
rapidi gesti della mano le colleghe ancora al lavoro.
Una volta fuori venne investita
dall’aria carica di odori e storse il naso, infastidita dalla
presenza elevata di smog. Sistemò la sciarpa che si era avvolta
attorno al collo e si incamminò il più velocemente
possibile verso l’entrata della metropolitana.
Il motivo principale era che voleva
tornare a casa per vedere come stesse Andrew, ma aveva anche il terrore
di incontrare un altro di quei giornalisti insistenti e cafoni. Da
quando la signorina Forbes aveva fatto quella scenata davanti
l’entrata di Kleinfeld si era ritrovata spesso alle calcagna uno
o due sciacalli a caccia di scoop. Anche se nemmeno lei sapeva bene a
quale tipo di scoop stessero mirando, dato che si era ritrovata a
vivere con Evan per cause assolutamente accidentali.
Con la mente temporaneamente
distratta da quel tipo di elucubrazioni raggiunse la metropolitana e
trovò posto presso un seggiolino isolato, accanto al finestrino.
Prese un respiro profondo ed iniziò a concentrarsi per mantenere
la calma. Non bastava l’ansia, il vagone le ricordava anche della
sua paura per gli spazi circoscritti ed affollati.
-Eric è fuori pericolo. Aveva
un leggero edema cerebrale, ma si è praticamente già
riassorbito.- Evan prese la notizia con grande disinvoltura, nonostante
dentro di sé provasse una fitta di sollievo
nell’apprendere che il giovane si sarebbe ripreso senza
conseguenze.
Osservò il traffico oltre la
finestra e continuò ad ascoltare Alastair. Con la mente stava
ripercorrendo lo scontro appena concluso e non gli stava prestando la
giusta attenzione.
-Evan…- si sentì chiamare.
Spostò lo sguardo dai palazzi
oltre la strada e si raddrizzò sulla sedia. –Per quando
credi potrete rientrare?- domandò, ignorando il brontolio del
suo mentore.
-Preferisco che stia in
osservazione, per stanotte.- rispose. –Ma se hai bisogno di me,
dammi il tempo di trovare un taxi e sarò a tua disposizione.-
aggiunse.
-D’accordo. Noi stiamo finendo
di trascrivere le testimonianze relative allo scontro. Ci vediamo a
casa.- disse. Fece per chiudere la chiamata, ma poi ci ripensò.
–Alst… grazie.
Sentì distintamente
l’altro sorridere e salutarlo poco dopo, senza rispondere.
Alastair sapeva che, in quei casi, una sua risposta avrebbe messo Evan
in imbarazzo.
Il giovane MacGregor fece scivolare
il telefono in tasca e si alzò, raggiungendo i colleghi ed
Emily. Blake se ne stava addormentato su una panchina poco distante.
“Dev’essere esausto. E
sconvolto.”, ragionò, osservando la posizione difensiva
che aveva assunto nel sonno.
-Capitano MacGregor, noi abbiamo
finito.- annunciò la voce del tenente Simmons. Van si
voltò a guardarla e le fece un rapido cenno del capo.
-Ti ringrazio.- disse solamente.
Emily si alzò, scarmigliata e sporca di sangue, e lo
guardò in attesa di ordini. –Torniamo a casa. Prendi
Blake.- le comunicò.
Iniziava a sentire il peso degli
avvenimenti su di sé e aveva solamente voglia di strisciare in
doccia e lavarsi di dosso il sangue raggrumato. Prima avrebbe dovuto
controllare la gravità delle ferite che gli erano state inferte,
ma era quasi certo che nessuna di esse fosse mortale.
-Ci sono…- sentì
mormorare alla propria destra. Abbassò lo sguardo sulla sua
nuova affiliata e notò che stava reggendo il nipote con una
stretta d’acciaio, forse nel timore che potesse cadere. Si
sarebbe proposto di aiutarla, se tutto in lei non avesse espresso
opinione contraria.
Decise allora di lasciarla fare e si
avviò verso l’uscita, ringraziando ancora una volta
Simmons ed i colleghi per l’intervento tempestivo.
Erano quasi fuori quando Rogers
attirò la sua attenzione. Si fermò ed attese di essere
raggiunto, mostrandosi calmo e disponibile nonostante le sue energie
fisiche e mentali fossero ormai agli sgoccioli.
–Prenditi la giornata di
domani.- gli suggerì il suo capo. Fece per ribattere, ma
l’altro aggiunse:-Non appena sarai tornato, vorrei che aiutassi
la squadra omicidi con la questione dell’Ammenda.
Evan si accigliò. –Non
ho molto altro da offrire a parte le informazioni che le ho già
riferito.- fece presente.
-Non importa. Sei sicuramente
più avvezzo a questo genere di usanze, dato che il branco ha
origini irlandesi ed è ancora legato alle vecchie tradizioni.-
rispose l’altro, convinto. Alla luce di ciò non gli
restò che annuire e promettere il proprio supporto.
-Stanno tornando… - sospirò David.
Andrew, alle sue spalle, si sporse
per sbirciare lo schermo del cellulare e controllare di persona il
testo del messaggio. –Eric è stato ferito?- si
accigliò, preoccupato.
Dave si voltò a guardarlo.
–Sì, ma per fortuna Alst ha saputo contenere i danni.-
rispose, concedendosi un sorriso sollevato. Subito dopo, però,
si fece di nuovo serio. –Non dovresti distrarti. Sento la tua
aurea crepitare come se ci avessero gettato sopra della benzina!- lo
rimproverò.
L’americano alzò le
mani in segno di scusa. –Mi dispiace, ma l’ansia mi stava
uccidendo.- disse. –Ora che so che stanno bene mi sento meglio. E
posso concentrarmi sul mio personale problema.- aggiunse, tornando a
sedersi sul divano. Sprofondò tra i cuscini e ne strinse uno al
petto in un gesto istintivo.
David prese un respiro profondo e si
mise a girare per il soggiorno. –Ok… devo capire come
gestire al meglio tutta quanta la situazione…- mormorò
tra sé, le mani intrecciate tra i ricci scuri.
Drew lo osservò in silenzio,
perdendosi momentaneamente dietro al via vai del suo Beta. La presenza
dell’inglese lo metteva a proprio agio e quasi non gli sembrava
d’essere una bomba ad orologeria pronta ad esplodere. “Non
fosse per il continuo e sordo brontolio che sento nella mia
testa.”, pensò.
Poteva percepire la bestia senza
difficoltà, ora. E la cosa lo angustiava parecchio, dato che non
era sicuramente un buon segno. –Non credi che sia meglio che io
vada di sotto…?- domandò, interrompendo i pensieri del
compagno di branco.
-Come…?- fece quello.
-Ehm… la luna piena.
Ricordi?- tentò di scherzare. –Ormai sento la bestia senza
bisogno di concentrarmi. È come se fosse acquattata sottopelle
ed aspettasse solo di poter balzare fuori.- ammise, reprimendo un
brivido al pensiero.
“Giusto. Come hai fatto a
dimenticarti di questo piccolo, insignificante dettaglio?”, si
rimproverò l’inglese. –Scusami, hai perfettamente
ragione. Meglio se ci avviamo di sotto.- abbozzò un sorriso,
cercando di suonare incoraggiante.
Andrew annuì un paio di volte. –La cantina è sicura, vero?- s’informò.
-Certo. Non potrai uscire fino a
domani mattina.- assicurò l’altro. Fece per dirigersi
verso la porta quando un odore familiare attirò la sua
attenzione. –Aspetta!
Drew lo fissò perplesso per
poi rendersi conto che i passi che sentiva lungo le scale appartenevano
ad Evan. Scambiò uno sguardo stupito con il compare e poi si
precipitò ad aprire la porta, affacciandosi al pianerottolo.
-Perché sei ancora libero?-
lo apostrofò il suo Alfa. Pentito della propria mossa,
l’americano incassò la testa nelle spalle, abbassando gli
occhi. Restarono immobili per alcuni lunghi istanti. –Stiamo
tutti bene.- aggiunse in un sussurro l’altro.
-Mi fa piacere.- rispose lui, lo stesso tono sommesso e sollevato. –Bentornati.
-Van! Grazie a Dio!- Dave
sbucò sul pianerottolo e si avvicinò subito allo
scozzese, cercando di determinare l’entità delle sue
ferite.
MacGregor, ben conscio del
tentativo, si sottrasse all’ispezione facendo cenno ad Emily di
raggiungerli. –Blake ha bisogno di cure. È stato a
contatto con l’argento.- disse solamente.
Al che i due uomini fecero caso, per
la prima volta, al piccolo licantropo che se ne stava strettamente
avvinghiato al collo di Emily.
Il suo sconcerto era tale e tanto
che anche la bestia dentro di lui stava tremando. Andrew fece per
avvicinarsi, pratico nella gestione dei bambini, ma l’odore del
sangue lo investì come un maglio. Si bloccò,
irrigidendosi e per un attimo non ebbe altra sensazione se non il
sapore del ferro sulla lingua.
La prese di Evan sulla sua
spalla, salda ma rassicurante, lo fece rinsavire con un singulto. Si
lappò le labbra e lo guardò senza realmente vederlo.
–E’ meglio che tu vada di sotto. Gli effetti della luna e
dello stress si stanno facendo sentire.- gli disse. Non era un ordine,
ma il tono non ammetteva comunque discussioni.
Annuì meccanicamente e, dopo
un attimo di esitazione, si avviò lungo le scale. Quando
passò accanto al piccolo, il suo istinto gli disse di accudirlo
ma sapeva che il sangue gli avrebbe dato alla testa. Strinse i pugni e
con uno sforzo di volontà proseguì la discesa.
Sapeva che stavano tutti aspettando
con ansia una sua reazione violenta e non voleva assolutamente che
ciò avvenisse. Non voleva uccidere nessuno.
Con quel pensiero in mente trattenne
il fiato e percorse altre due rampe di scale, sempre più vicino
al basamento dell’edificio.
-Rimani concentrato.- la voce di
David suonò poco distante e, con la coda dell’occhio, lo
vide tre gradini dietro di sé. Annuì rapidamente ed
imboccò la porta che conduceva alle cantine.
La semioscurità che regnava
nel corridoio di cemento lo spiazzò per alcuni istanti, ma ben
presto i suoi occhi presero a distinguere forme e contorni senza
problema.
-L’ultima in fondo.-
suggerì Dave. Andrew s’incamminò con passo rigido,
il tumulto che aveva dentro sempre più crescente.
Digrignò i denti. –David… la sento…- riuscì a dire.
L’altro annuì,
comprensivo. –Lo so. La sento anche io.- gli disse, aiutandolo
con la propria aura a contenere la bestia.
-E’ sempre così?-
l’americano raggiunse la porta indicatagli. La osservò per
qualche istante, stupendosi del materiale con cui era stata fatta e dei
rinforzi che si scorgevano sui cardini.
-Questo è solo l’inizio.- dovette ammettere il moro. –Peggiorerà con l’avanzare della notte.
Andrew si lasciò sfuggire un mezzo singulto. –Perfetto…
-Entra.- David afferrò con
attenzione la maniglia di acciaio e fece pressione. La porta si
aprì senza far rumore, ben oliata. Drew non poté fare a
meno di chiedersi di che materiale fosse fatta. –E’ acciaio
additivato con polvere d’argento. All’interno corre una
rete di fili di vischio intrecciato, in modo che ti sia difficile
uscire.- spiegò, notando lo sguardo dell’amico.
-Oh. Immagino che non fosse
già così.- commentò, sentendosi stupido. Era ovvio
che nessun essere umano avrebbe mai progettato una cantina in modo da
essere a prova di licantropo.
-No. L’ho modificata non appena abbiamo traslocato.- rispose l’inglese. –Devo ancora fare gli ultimi ritocchi.
Lentamente e con circospezione, il
giovane entrò in quella che sarebbe stata la sua personale cella
per quella notte. E per molte a venire, probabilmente. –Come
saprete quando…?- iniziò, nella voce una leggera nota
distorta.
-Non ti preoccupare. Lo sapremo.- lo rassicurò. –C’è un interfono. Se dovessi aver bisogno di qualcosa, usalo.
Andrew ruotò su se stesso,
concedendosi una breve esplorazione visiva. Concentrarsi sui dettagli
lo aiutava a mantenere la concentrazione. Quel briciolo rimastogli,
almeno. –Grazie…- mormorò.
-Vedremo se domani mi ringrazierai o mi maledirai per averti chiuso qua dentro.- sorrise spiacente David.
-Meglio questo che uccidere
qualcuno.- gli fece notare l’altro, sedendosi sull’unico
oggetto di arredamento presente, ossia una brandina.
L’architetto esitò qualche istante, ma poi si decise a chiudere. –Buona fortuna, Andrew.- sussurrò.
Era sopravvissuta abbastanza
egregiamente alla metropolitana. Ora sperava solo di non trovare la
Terza Guerra Mondiale una volta arrivata a casa.
“Perché nessuno mi dice
cosa sta succedendo? Nemmeno un messaggio! Niente!”, inveì
silenziosamente mentre saliva le scale del sottopassaggio.
Non le avevano dato nessun tipo di
notizia o aggiornamento da quando era uscita di casa quella mattina. Ed
ora ne aveva abbastanza di restare nell’ignoranza: voleva esser
resa partecipe della situazione.
-Situazione che verificherai coi
tuoi occhi tra poco, cara.- si disse a mezza voce. Una volta fuori fece
per dirigersi verso casa, ma si rese conto di aver sbagliato fermata.
Si bloccò sul marciapiedi e si guardò attorno, perplessa.
–Dove..?
Con la coda dell’occhio vide
una lunga cancellata di ferro e si voltò di scatto verso quella
vista, improvvisamente allarmata. Fece per cacciare un urlo, memore
dell’inseguimento cui era stata la sfortunata partecipante, ma si
trattenne mordendosi forte il labbro inferiore.
Nel pieno del panico percorse
febbrilmente tutto il perimetro del cimitero in cerca del suo
aggressore. Poi, di colpo, la sua mente realizzò che il luogo
non era lo stesso e che stava in realtà proiettando un brutto
ricordo.
Prese un respiro profondo e lesse la targa a lato del cancello. Trinity Cemetery.
Si trovava nel suo quartiere, nella parte alta a confine con Washington Heights. Non troppo lontana da casa, per fortuna.
Rafforzò la presa sulla borsa
e si mise a camminare a fianco della lunga recinzione metallica,
cercando di non gettare sguardi all’interno, tra le lapidi. Non
era mai stata superstiziosa, ma da quando era stata inseguita per mezza
Alphabet City rischiando di rimanere impalata su una lancia di ferro
aveva sviluppato una certa soggezione per luoghi del genere.
Affrettò il passo, sperando di arrivare il prima possibile sulla via principale e lasciarsi alle spalle le tombe.
Era quasi arrivata a
destinazione quando le scivolò la borsa dalla spalla.
Incespicò nei propri piedi, rischiando di cadere e si
chinò a raccoglierla. Quando si raddrizzò si
ritrovò a fissare oltre le sbarre di ferro, attraverso il prato
ben curato punteggiato di lapidi.
Senza che potesse impedirselo il suo
sguardo vagò tra i monumenti fino a quando non scorse un piccolo
baluginio di luce azzurrastra. Da principio credette di esserselo
immaginato, ma poi eccola riapparire al limite del suo campo visivo.
Basita, osservò il piccolo globo evanescente fluttuare nell’aria, incorporeo.
All’improvviso sembrava che
tutta la città si fosse acquietata e che non esistesse
null’altro al di fuori di quel minuscolo fuoco.
Amanda restò a guardarlo rapita, seguendone la lenta danza aerea come ipnotizzata.
Non seppe dire quanto tempo fosse
passato da che si era fermata, fatto sta che la fiammella si
eclissò improvvisamente dietro una lapide e fu come se
l’incantesimo si fosse rotto.
Mandy ritornò alla coscienza, vagamente confusa.
Si guardò intorno,
controllando che fosse tutto normale. Poi un brivido freddo le scese
giù lungo la schiena ed una sgradevole sensazione le strinse lo
stomaco in una morsa ferrea.
Non sapeva a cosa avesse appena assistito, ma il suo istinto le stava dicendo che non era nulla di beneaugurante.
Ulteriormente preoccupata,
voltò le spalle al cimitero ed attraversò la strada di
corsa, diretta verso la prima fermata dell’autobus utile.
-L’hai rinchiuso?- s’informò.
David chiuse lentamente la porta di
casa e poi alzò lo sguardo. –Sì. Si è
comportato egregiamente, considerato cosa sta passando.- disse con voce
stanca.
La realtà dei fatti
l’aveva colto all’improvviso e tutto lo stress emotivo che
aveva tenuto a bada nel corso di quelle lunghe ore stava chiedendo il
conto. Non sapeva se buttarsi a peso morto sul divano per poter dormire
oppure sfogarsi verbalmente con Evan per averlo tenuto in panchina.
Mentre valutava le varie opzioni si
rese conto che non sapeva che fine avessero fatto i Blacks. Si
avvicinò al suo migliore amico e chiese:-Jared e compagnia?
-In fuga. Per ora.- fu la risposta sbrigativa.
David si rese conto che Evan non gli
stava prestando veramente attenzione e allora gli chiese cosa lo
turbasse. –Il piccolo Blake.- disse lo scozzese. Non convinto, il
Beta si sedette sul davanzale della finestra e puntò il proprio
sguardo indagatore sul volto del suo Alfa. Quello allora roteò
gli occhi in un gesto d’esasperazione e si decise a guardarlo in
faccia. –C’era qualcun altro al porto…-
rivelò infine.
Dave s’accigliò. –Intendi un altro branco…?
Van scosse la testa. –No. Non
credo appartenesse né ai Blacks né ad un altro branco.
Era una presenza estranea, quasi si trovasse nel posto sbagliato al
momento sbagliato.- cercò di spiegarsi. Non sapeva come
esprimere al meglio la sensazione che aveva provato: era stata breve,
ma intensa. Come se si trovasse di fronte ad un pezzo di storia che
doveva essere stata dimenticata da un bel pezzo.
-Intendi dire che…- iniziò l’inglese, visibilmente confuso dalle dichiarazioni dell’amico.
-Probabilmente a New York c’è un lupo molto antico.- lo interruppe.
-Nel Nuovo Mondo?- fece
l’altro, scettico. –E perché mai? Quel tipo di
creature tende ad essere legata al proprio luogo di origine.
Evan annuì lentamente.
–Lo so. Per questo non capisco.- ammise. –Ma non sono
nemmeno sicuro di quello che ho percepito.- dovette aggiungere subito
dopo.
L’inglese fece per chiedergli
altro, ma venne interrotto dalla comparsa di Emily. I due si voltarono
a guardarla, in attesa.
-Vi ringrazio.- disse solamente. Sul viso aveva una strana espressione, a metà tra la gratitudine e l’imbarazzo.
-Il branco protegge i suoi membri.- fu il commento di Evan.
Lei si lasciò sfuggire una
smorfia. –Non in tutti i branchi. Fidati.- replicò.
–Ma sono contenta che in questo le cose funzionino così.
Van le concesse un rapido cenno del capo come risposta. Poi David chiese:-Blake come sta?
Al che sua zia sospirò e si
strinse nelle spalle. –Per ora non bene. Sono sicura che gli ci
vorrà un bel po’ per superare quest’esperienza. Le
ferite ci metteranno meno tempo a guarire, invece.- considerò.
Le parole dell’americana rimasero sospese nell’aria per alcuni istanti e poi tra loro cadde il silenzio.
David si schiarì la gola, imbarazzato. –Tu… come stai, invece?- si azzardò a chiedere.
Emily lo guardò, stupita.
–Sto bene. Niente che un po’ di sonno non possa sistemare.-
rispose. La sua aura, però, smentì le sue parole.
Sembrava fosse sul punto di spegnersi, anche se ogni tanto un guizzo
improvviso la riportava in vita. Dave stava per farglielo notare quando
con la coda dell’occhio notò Evan irrigidirsi.
Fece per chiedergliene il motivo, ma
il cellulare dello scozzese decise di suonare proprio in quel momento.
Così come il campanello di casa.
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