Di cattedre, jaeger e tarocchi di emmevic (/viewuser.php?uid=131809)
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note. Questa fanfiction è una AU/crossover
basata sul film
Pacific Rim.
Ymir, Christa e altri
personaggi dell'Attacco dei Giganti vivono in un mondo alternativo
perennemente assediato dalla minaccia Kaiju (i
Kaiju sono mostri
interdimensionali dalla mole titanica che attaccano le coste del
Pacifico ogni tot settimane, seguendo un preciso algoritmo matematico.
Sono paragonabili a grossi Godzilla, per intenderci).Gli Jaeger,
invece, sono robot immensi comandati da due piloti, e vengono adoperati
per eliminare i Kaiju (i due co-piloti per controllare un solo Jaeger
si uniscono in drift,
fondendo le menti e condividendo ricordi e
sensazioni). Per avere maggiori chiarimenti, comunque, consiglio di
vedere il film Pacific Rim dal quale ho tratto interamente
l'ambientazione oppure dare una sbirciata alla wikia
apposita. *Ringrazio camelie
di carta che mi ha fatto notare di non aver
specificato di che genere di AU si trattasse.
Di
cattedre, jaeger e tarocchi
a
Schwarz.
I wanna heal
Dalla
cucina veniva un profumo di spezie e aromi esotici e un meno invitante
odore di carne bruciata, Christa ne fu investita non appena
entrò
nell’appartamento. Sorrise leggermente, sentendosi subito a
casa.
«Ciao»
disse ad alta voce, cercando di sovrastare le urla terrorizzate che
venivano dal televisore del soggiorno: una donna in intimo correva per
una strada buia, braccata da un mostro dalle enormi fauci.
Sorpassò
lo schermo e con esso la fanciulla in deshabillé,
lasciandosi alle
spalle le sue grida; Ymir
e il suo vizio di tenere il televisore
perennemente acceso.
Sospirò e “mi fa
compagnia” immaginò l’altra
obiettare con le braccia incrociate, mentre ostentava indifferenza.
«Ciao»
ripeté Christa, facendo il suo ingresso in cucina e
poggiando le buste
della spesa sul tavolo. Ymir era china sui fornelli, con il manico di
un cucchiaio di legno stretto tra i denti e le mani che saltavano da un
fornello all’altro, impegnate in una danza piuttosto goffa.
Per la
stanza aleggiava un intenso odore di curry e cipolle, e Christa era
abbastanza certa che il giorno seguente avrebbe dovuto buttare a lavare
anche le tende, dopo aver arieggiato l’intero appartamento
per una
mezz’ora buona.
Non sembrava nemmeno di stare a San Francisco, ma in un qualche
sobborgo indiano dai profumi speziati.
«Com’è
andata al lavoro?» biascicò la donna con il
cucchiaio ancora in bocca;
cercò anche di sorridere, cosa che non le riuscì
affatto. Christa nel
frattempo riponeva gli spaghetti appena comprati nella credenza e un
sorrisetto divertito le vestiva le labbra sottili.
«È andata bene,
non ho dovuto riprendere nessuno...» aveva quindi cominciato
a dire la
più giovane, tenendo una delle mani dietro la schiena,
quando estrasse
trionfante la custodia sbiadita di un vecchio DVD e aggiunse con
entusiasmo: «Ho anche noleggiato un film per stasera: un
classico
dell’horror!». Il titolo, nero e in maiuscoletto,
riportava la scritta
“Shining”
assieme alla faccia poco raccomandabile di un uomo sulla
quarantina.
«E brava la mia Christa!» proruppe Ymir: aveva
appena
sollevato il coperchio di una delle pentole quando,
d’improvviso, partì
una fiammata.
Christa si raggelò, ipotizzando l’ormai prossima
distruzione della cucina. «Sicura di non volere una
mano?» azzardò. L’altra scosse la testa.
«Ho tutto sotto controllo».
«Stavo
pensando... – riprese Ymir, girando il pollo – Non
abbiamo ancora
inaugurato la tua cattedra, sarebbe doveroso farlo. Potrei venire a
salutare i marmocchi e fermarmi per la pausa pranz-»
«Non pensarci nemmeno: la mia cattedra non ha bisogno di... certi riti».
«Tanto lo sai che i bambini mi adorano, sono il loro
eroe».
«Ymir,
pilotare un robot di ottanta metri non fa di te un eroe, –
Christa alzò
gli occhi al cielo – fa di te una pazza incosciente con
chiari istinti
masochisti».
«Che stronzate, hanno pure le mie figurine. E anche tu
mi adori, sarebbero tutti più felici se passassi a trovarti:
tu e i
tuoi alunni». La più giovane glissò.
«Nessuno sano di mente
andrebbe a combattere contro un Kaiju» e nessuno sano di mente vorrebbe
attuare certi propositi in una scuola elementare. Si prese
un momento
per dispiacersi della cattedra.
«Riuscirai mai ad accettare il mio lavoro,
Christa?» Il tono di Ymir aveva un sapore amaro: era da anni
che andava avanti quella storia. Anni!
«Quando non ci saranno più Kaiju»
ribatté in un moto di stizza l’altra.
«Tante grazie, non avrei nemmeno più un lavoro a
quel punto».
«E
comunque non è questo il punto, Ymir» e Christa,
sbattuto il DVD sul
tavolo con un tonfo sordo, osservò contrita le spalle della
compagna:
calò un improvviso silenzio. Dalla televisione in salotto,
ancora
accesa, arrivò un lungo grido agghiacciato.
Ymir sbuffò, chiedendosi come fossero giunte a discutere per
l’ennesima volta del progetto Jaeger.
Giusto,
la cattedra.
Sorrise,
sensuale, e si girò verso Christa, rendendosi conto solo in
quel
momento di averle dato le spalle da quando era arrivata.
«Sicura
che non vuoi inaugurare la tua cattedra?» ammiccò
e l’altra a quelle
parole roteò gli occhi e si sciolse in una risata soffocata
a fatica.
«Credo che quel pollo sia pronto, sai?» e le loro
labbra si unirono in un casto bacio al sapore di curry e cipolle.
Quando
un triangolino di pollo scivolò fuori dal piatto e
macchiò la tovaglia
a fiori – l’orrenda tovaglia a fiori, si chiese
perché non l’avessero
ancora buttata – Ymir non si scompose particolarmente, e
raccattò con
la forchetta e una buona dose di nonchalance il disertore.
«Buono?»
domandò, sondando le reazioni dell’altra: gli
occhi cerulei della
bionda erano inchiodati al piatto e gli angoli della bocca rivolti
all’insù.
Christa sorrise, deglutendo il boccone.
«Per un attimo ho temuto per la cucina, ma potrei abituarmi
all’idea di vederti ai fornelli, sai? E, sì,
è squisito».
Ymir
registrò l’informazione con soddisfazione. Poteva
reputarla una
vittoria, considerando che quella era la prima volta in cui affrontava
seriamente l’arte culinaria orientale e si cimentava in una
vera
ricetta made in Asia. Non che solitamente si applicasse in cucina, era
abituata a seguire il proprio istinto ai fornelli; istinto peraltro
piuttosto basico, dato che prima di Christa la maggior parte dei suoi
pasti consisteva in piatti arrangiati alla bell’e meglio. Il più
delle volte bruciati. A tal proposito Christa era stata
una vera manna
dal cielo, non solo si era rivelata una compagna dolce e leale (e un
mucchio di altre cose che se solo Ymir si fosse messa a elencarle,
avrebbe fatto notte), ma con quelle manine affusolate si era rivelata
una cuoca eccezionale.
Ma cucinare per qualcuno poteva portare a dei
risvolti infinitamente positivi, questo Ymir lo sapeva bene: ricordava
sempre con un sorriso tronfio e soddisfatto di come, anni prima, dopo
qualche mese di frequentazione, era riuscita a sedurre
l’altra con il
suo cavallo di battaglia: il pollo ripieno. In effetti era piuttosto
brava con il pollo in generale.
«Domani non hai lezioni, giusto?»
Christa
si agitò leggermente sulla sedia, per poi irrigidirsi.
«Già, – sussurrò
– essendo lutto cittadino, la scuola rimarrà
chiusa».
«Ti avevo
accennato alla commemorazione decennale per le vittime
dell’attacco del
2013... Vorrei presenziassi anche tu alla cerimonia, io sarò
lì in
qualità di pilot-».
«Non m’importa. Non voglio andarci nemmeno se ci
sei tu, Ymir. Soprattutto
se ci sei tu».
Ymir si corrucciò. Non stava andando come voleva, nemmeno la
carta del pollo al curry stava funzionando.
«Christa,
non puoi far finta che non sia successo niente per te in quella data.
–
Ymir poggiò entrambi i palmi sul tavolo, irritata
– Devi andarci. E se
non vuoi farlo per te, fallo per me. Sappiamo che potrà solo
farti
bene».
«Ne abbiamo già parlato».
«Historia»
e Ymir vide gli occhi azzurri di Christa spalancarsi di sorpresa,
subito sostituita da risentimento e indignazione.
«Non chiamarmi così» sibilò
con uno sguardo vitreo l’altra.
Non
stava decisamente
andando come aveva programmato. Nella sua testa Ymir
aveva già pianificato tutto da giorni: avrebbe cucinato a
Christa pollo
al curry, il suo piatto preferito, quello che prendeva sempre al Thai
in centro, e poi avrebbe affrontato la questione
“cerimonia” mentre lei
gustava soddisfatta il piatto e a quel punto l’altra avrebbe
dovuto
accettare di venire alla cerimonia. Non rifiutarsi così e
tagliarla
fuori.
A Christa avrebbe fatto solo bene affrontare definitivamente il passato
e, invece, si ostinava a fuggire.
Ymir cercò di placare la propria irritazione: darle addosso
non avrebbe risolto assolutamente nulla.
«Sindrome premestruale?» provò a buttare
sul ridere: il silenzio risentito dell’altra fu una chiara
risposta.
«Lo prendo per un sì».
Ancora in silenzio, la più giovane si alzò dalla
sedia; parte del pollo nel piatto.
«Christa,
scusa, non avrei dovuto» sussurrò Ymir e
osservò la schiena della
bionda fermarsi un attimo, prima di uscire dalla cucina;
improvvisamente il ricordo della litigata di due anni prima la travolse.
Era
da quella volta che non sentiva la voce dell’altra incrinarsi
tanto di
rabbia, da quando avevano litigato per il suo essere pilota.
«Non
puoi,» le aveva gridato Christa «non puoi farmi
questo. Avevi detto che
avresti passato la tua vita con me! E se ti succede qualcosa? Se
muori?» ed era scoppiata a piangere.
Quel giorno era finita con
del sesso rappacificatorio, ma Ymir dubitava che la discussione appena
conclusasi avrebbe sortito il medesimo effetto. Anzi, ne era certa.
Si
prese la testa tra le mani, frustrata. Le avrebbe anche gridato contro,
se solo fosse servito, ma sapeva che alzare la voce avrebbe solo
peggiorato le cose.
Perché
Christa si ostinava a ignorare l’elefante nella stanza?
I wanna
feel what I thought was real
C’era
qualcosa di magico nel modo in cui l’aria entrava dai
finestrini di
quel treno di periferia, insinuandosi sotto le gonne e scompigliando i
capelli. Dei signori parlavano a voce bassa in fondo al vagone,
sbracati come gatti al sole sui sedili dal tessuto nero; poco lontano,
con le labbra impiastricciate e gli occhi svelti, un bambino succhiava
rumorosamente un lecca-lecca alla fragola. Fuori scorrevano gli alberi
e le case, assieme alla vita delle persone, dentro, invece, era un
limbo, un universo a sé stante: un mondo senza Kaiju. Il
soffitto
rifletteva la luce rotonda di uno specchietto aperto, di quelli da
trucco: una donna che forse si incipriava il naso dopo una mattinata di
fatiche. Christa intanto si guardava attorno, silenziosa.
Adorava la
quiete rumorosa del vagone, l’avanzare ritmico del treno e il
sole che
filtrava luminoso dalle tendine gialle. Quasi si perdeva in una vecchia
routine, dimentica della discussione del giorno precedente.
Quella
mattina era uscita senza dire nulla a Ymir, lasciandola mentre si
infilava in una rigida divisa militare, quella che era solita
utilizzare per gli eventi ufficiali.
Di certo non pilotava uno Jaeger
così. Christa scacciò il pensiero
repentinamente e, inspirato il
profumo dolce dell’estate, abbassò la visiera
rossa del berretto da
baseball, senza fretta, poi si diresse verso le porte automatiche. Le
ante arrugginite si aprirono con un rumore metallico e il sole le
pizzicò le guance.
Come sarebbe stato
tornare dopo dieci anni di assenza?
Ma era già arrivata, ancora prima di aver formulato
pienamente la domanda.
Quanto tempo,
si ritrovò a pensare, guardandosi attorno con occhi lucidi.
Si
ritrovò a camminare automaticamente e quasi senza
accorgersene era già
giunta davanti alla propria casa, quella vecchia, di quando era
bambina, dove aveva vissuto la prima adolescenza: la casa di Historia.
Il passato in quel momento la travolse con la potenza di una tempesta e
la pace di poco prima svanì di colpo.
Il pulviscolo fluttuava,
smosso, e il sole del mezzogiorno entrava senza permesso dalla porta
ancora aperta; pareva che, sotto le ragnatele e gli anni di polvere,
tutto e nulla fosse cambiato dall’ultima volta. Non
c’era niente di
riconoscibile in quella caotica selva di travi spezzate, ma era tutto
dolorosamente familiare. Notò con un moto di nostalgia che
sul tavolo,
intatto, c’erano ancora i suoi libri di scuola.
Christa sospirò: era
arrivato il momento di fare i conti il passato. Lasciò
aperta la porta
e si rimboccò le maniche, c’erano così
tante cose che avrebbe voluto
toccare e vedere che quasi la colse l’ansia. Tranquilla, Christa. Va tutto
bene.
I wanna let go of the pain I've
felt so long
«Alla
fine mi hai ascoltato e in qualche modo il passato hai deciso di
affrontarlo». La voce di Ymir, dolce, le raggiunse alle
spalle mentre
era china a frugare in un cassettone.
Christa si immobilizzò, non sapendo cosa fare.
«Sapevo
che saresti venuta qui, sai? Chiamiamolo intuito femminile»
le sussurrò
l’altra all’orecchio, stampandole un bacio sulla
tempia coperta da fini
capelli biondi: si era appena chinata accanto a lei.
«Non dovresti essere alla cerimonia?» chiese
Christa, girandosi leggermente e osservandola negli occhi.
Ymir le sorrise.
«Il
prossimo attacco è previsto fra ventisette giorni: un giorno
ogni tanto
posso anche prendermelo e quella è solo una cerimonia,
nemmeno una
sessione di allenamento».
«Reiner ti ucciderà» borbottò
Christa, tornando a frugare nel cassettone in cerca di
chissà cosa.
«Reiner
non mi ucciderà» ridacchiò Ymir,
immaginandosi il co-pilota
corrucciato, mentre alla cerimonia faceva andare gli occhi da un lato
all’altro del palco e della platea improvvisata, cercandola.
Probabilmente per
farmi perdonare dovrò offrirgli una birra,
riflettè e
alzò gli occhi al cielo.
«Sbagliavi» proruppe improvvisamente Christa.
«Sbagliavo?»
«Sì, Ymir. Quando dicevi che mi avrebbe fatto bene
confrontarmi con il passato, sbagliavi».
«Starai meglio, poi» la consolò.
«Ma adesso fa male, più di prima».
La
mora le prese il volto tra le mani: «È per questo
che sono venuta qui»
e la baciò. «Che ne dici di prendere un
po’ d’aria e uscire da qui,
Christa? Questo posto ha tutta l’aria di essere sul punto di
crollarci
addosso».
Da fuori la casa sembrava più malmessa di quanto fosse
in realtà, Christa se ne accorse solo in quel momento,
quando con
accanto Ymir prese a osservare con occhi spenti il tetto imbarcato,
parzialmente crollato. L’umidità non era stata
gentile con la
struttura.
«Qui è morta Historia, dieci anni fa. La me di
dieci
anni fa è rimasta dentro questa casa, è morta
camminando qualche via in
là, è morta assieme a mia madre».
Ymir trattenne il fiato di fronte
a quell’improvvisa confessione. Christa odiava parlare del
proprio
passato, ma più di tutto odiava parlare di sua madre; da
quel poco che
le aveva accennato, sapeva che il loro rapporto era semplicemente
malsano. Abusivo, probabilmente.
Ma questo non aveva impedito a
Christa di soffrire per la sua morte. Quando le aveva raccontato di
come aveva aiutato sua madre, tramortita dagli effetti delle droghe, a
trascinarsi per le strade di San Francisco durante il primo attacco
kaiju, Ymir aveva spalancato la bocca e non aveva saputo ribattere. Il
fatto che il kaiju, poi, le avesse raggiunte e avesse schiacciato sua
madre davanti ai suoi occhi di tredicenne, era a dir poco agghiacciante.
Christa
era una miracolata: pochi potevano vedere un kaiju così da
vicino ed
essere vivi per raccontarlo. Non che fosse quel genere di persona da
perdersi in chiacchiere e vantarsene in giro.
Ignorare il tutto era
stata la soluzione che Christa aveva scelto per anni, ma qualche volta
era impossibile scappare ai ricordi.
Era stato in uno di quei giorni
che aveva raccontato di Historia all’altra, del fatto che
avesse
cambiato nome, provando a tagliare i ponti con tutto quello che era
venuto prima. Cominciando innanzitutto dal nome.
«Ymir?»
La donna si riscosse. «Sì?»
«Secondo te posso venderla, la casa?»
«Non saprei. Credo che ormai non ti appartenga
più. Ma potremmo darle fuoco». Il fuoco è il
miglior purificatore di sempre, no?
«Non ti facevo piromane, oltre che
masochista» la punzecchiò Christa, senza
entusiasmo.
«O,
se vuoi, la prossima volta che sono nello Jaeger, io e Reiner facciamo
una capatina in città e la spiaccichiamo
casualmente».
«Non è necessario» rise leggermente.
Erase all the pain till it's gone
Christa
si abbracciò le ginocchia, accasciandosi con un sospiro sul
divano.
Così rannicchiata si sentiva stranamente al sicuro e, quando
sentì le
dita di Ymir, seduta accanto a lei, accarezzarle i capelli e scendere
sino alle guance, si rilassò ulteriormente, allungando le
gambe.
Un
brivido di piacere partì dalla schiena, irradiandosi lungo
il collo, al
tocco improvviso dell’altra sul suo bassoventre: le unghie di
Ymir la
solleticarono, facendole contrarre la pancia piatta.
Sollevò la
testa per incontrare le labbra dell’altra in un bacio che
aveva poco di
casto, mentre le spostava delle ciocche more dal viso.
Bellissima,
pensò.
Ymir interruppe improvvisamente il bacio e Christa, interdetta,
sentì il suo respiro sulla pelle.
«Ti ho comprato una cosa» le disse, per poi
catturare subito dopo le labbra umide dell’altra.
Senza
nemmeno rendersene conto, la bionda si ritrovò incastrata
tra il corpo
caldo di Ymir e il divano; una mano della più grande
già a cingerle la
schiena da sotto la maglietta.
«Adesso sono curiosa» sussurrò
contro il suo orecchio, mentre l’altra prendeva a baciarle
l’incavo del
collo. Quando la morse leggermente, le sfuggì un gemito.
Christa le carezzò una guancia, per poi sgusciare da sotto
di lei.
«Prima il regalo» ridacchiò.
Ymir sbuffò, rimpiangendo d’aver aperto bocca, e
una volta tornata a sedere recuperò dalla tasca dei jeans un
pacchetto.
«Tarocchi, – bisbigliò
all’orecchio di Christa che, sorridendo, le stava di fronte
– ho intenzione di leggerti il futuro».
L’altra
corrucciò le sopracciglia tra il divertito e il curioso come
a dire
“eh?”,
poi le prese con delicatezza le carte dalla mano. «In
realtà non
mi piace scherzare sul futuro» disse, cominciando a
sfogliarle e
soffermandosi sulle immagini.
Alcune erano davvero inquietanti.
«Direi
che non è il regalo più azzeccato che ti abbia
fatto» convenne Ymir con
espressione rammaricata. «Potresti portarlo in classe e
minacciare i
mocciosi che, se non fanno i bravi, predirai loro il futuro; un futuro
chiaramente catastrofico fatto di castighi, gelati mancati e
bulli»
continuò, con un luccichio divertito negli occhi.
Christa rise di
gusto, mettendo da parte le carte e sistemandosi tra le braccia
dell’altra. «Davvero vorresti trenta madri
infuriate che battono contro
la nostra porta?» domandò. «Promettimi
che non te ne andrai mai, Ymir»
bisbigliò poi, ripensando alla giornata appena trascorsa.
Tornare là era stato spossante, ma le aveva fatto bene.
Adesso stava meglio.
Non si aspettava una vera risposta, forse un bacio, ecco.
«Lo sai che ti amo in qualsiasi modo tu voglia farti
chiamare, vero?»
Christa sorrise. «Ma stai zitta, testona»
ribatté intimamente appagata.
«La
proposta per la cattedra è ancora valida, eh, anche se per
adesso il
letto è una perfetta alternativa». E Ymir la prese
in braccio a
sorpresa, con un sorriso languido, senza trovare nessuna resistenza da
parte dell’altra.
La porta della camera da letto si chiuse dietro di loro, mentre una
risata cristallina si spegneva nell’aria. |
Questa
fanfiction ha una storia
travagliata: è stato quasi parto, ahah. Nasce in un primo
momento dai
prompt di un contest indetto da Mokochan nell’estate del 2015
(dal
quale sono stata costretta a ritirarmi per mancanza di ispirazione),
viene poi rimaneggiata a distanza di qualche mese (per lo
più si è
trattato di piallare certi orrori/errori) e trova infine la sua
conclusione in occasione di questa data, cara a _Schwarz, alla quale
dedico questa one shot. (È tutta-tutta per te, riscritta e
terminata
only for you! ♥) Ammetto che è stata una vera
soddisfazione dare
finalmente una parola fine a questo file che non voleva saperne e di
concludersi e a tal proposito ringrazio di cuore _Branwen_
per la
consulenza sull’IC di Ymir e Historia. La canzone
è Somewhere
I Belong
dei Linkin Park.
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