With you, I've got nothing to fear

di Kore Flavia
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Wendy/Doranbolt
- a volte questo corpo sembra non appartenerle


Ricordi mancanti e rimpianti

 
Wendy a volte si ritrovava ad odiare quel corpo, quel corpo che per sette anni era rimasto lo stesso. E Wendy si ritrovava ad odiarlo la notte quando, accoccolata vicino a Carla, ripensava all’esame per divenire mago di classe S, quello in cui aveva aiutato Mest.
Chissà che fine avesse fatto Mest, chissà se si fosse salvato, le avrebbe fatto piacere rivederlo, anche solo per vedere come fosse cambiato. Lui era sicuramente cambiato, ora doveva esser diventato un adulto, chissà se avesse superata quell’insana ossessione nello scoprire cose nuove. Era sicuramente cambiato e quella certezza la distruggeva e la rendeva felice. Almeno lui, almeno lui non aveva perso quei sette anni, almeno lui aveva vissuto. Chissà che ora non si fosse sposato, chissà che ora non fosse diventato un uomo autorevole. Chissà se ora non si fosse dimenticato di lei.
Eppure lui l’aveva salvata, certo l’avevano fatto anche Natsu e gli altri, ma lui la conosceva appena e faceva parte del Concilio, non era nei suoi dover proteggerla eppure l’aveva fatto e se ne sentiva lusingata. E se ne sentiva triste, perché se quella volta non l’avesse salvata probabilmente ora lei non rimuginerebbe così tanto su di lui, probabilmente ora lei non ci sarebbe neanche più stata. E non avrebbe più pensato a quella cicatrice che tanto gli donava a quegli occhi chiari che sembravano così sinceri quando parlava con lei, che la guardavano con fare paterno. Peccato avessero parlato poco, troppo poco per i suoi gusti.
Si rannicchiò ancora più vicino a Carla, con lei non ne poteva parlare, le avrebbe detto che “quel tipo era strano, non c’era da fidarsi. Sei troppo ingenua, Wendy” e lei non voleva sentirsi dire questo, no. Lei aveva bisogno di sentirselo vicino e di rendersi conto come il tempo avesse distrutto tutto, a come quel corpo non le appartenesse.
A come avrebbe voluto vivere quei sette anni, a come fosse più simile ad una maledizione quel periodo della sua “non vita”. A quanto rivolesse indietro quel tempo, a quanto lo desiderasse con tutto il cuore. A quanto, pur di vivere quei sette anni, avrebbe abbandonato i suoi amici sull’isola Tenruojima e lo sapeva, sapeva quanto fosse egoistico e se ne doleva. Odiava quella parte di sé pentita, egoista, egocentrica, come odiava quella parte che talvolta riaffiorava ancora ora: di quando era solo una debole bambinetta, che non avrebbe mai combattuto.
Una lacrima solitaria le rigò il viso fino a raggiungere le labbra, inghiottì silenziosamente la goccia salata, assaporandone l’amaro.




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