I Veglianti di Synt
ciao...
sono esageratamente eccitata per questo capitolo, anche se non so spiegare perchè.
non so, probabilmente è la rassicurante sensazione che tutto sta
trovando il suo posto nel mondo e sto riuscendo a trovare spazio per
tutte el cosine che voglio che ci siano... sono molte... e con molte
intendo pericolosamente troppe...
se ad un certo punto della storia - di tutta la storia, non
necessariamente di questo capitolo - vorrete dirmi "datti una calmata"
siete ufficialmente autorizzate.
CAPITOLO 3
Courtney aprì gli occhi e si voltò verso la finestra.
Il cielo era
grigio scuro, appena più chiaro della notte. Frugò sotto
il cuscino e prese la lettera del giorno prima.
Veniva
dall’ospedale. Il primario in persona la invitava ad un incontro,
le aveva lasciato un numero da chiamare per farsi venire a prendere. In
modo molto cortese e molto distaccato la invitava a confrontarsi,
elencava le loro reciproche colpe sulla questione Zach, come ultimo
suggerimento le lasciava una questione aperta: se avessero collaborato,
se si fossero aiutati, le cose sarebbero potute andare diversamente?
Courtney si
girò a pancia in su inquieta e recuperò il proprio
telefono, compose il numero di sua madre senza nemmeno pensarci.
«Secondo
te dovrei andare?», le chiese, senza presentarsi, senza darle il
buongiorno. Loro due non avevano un rapporto canonico, ma in qualche
modo questo le univa di più: stavano mesi senza sentirsi, senza
avere bisogno di parlarsi, però poi quando arrivava il giorno in
cui a Courtney serviva sua madre, sua madre era lì.
Non era mai servito spiegarle niente, lei sapeva sempre quali erano le necessità della propria figlia.
«Sì, credo di sì», rispose Vivian Williams
come se avesse letto quella lettera con lei. Courtney poteva
immaginarla nella sua vestaglia grigio chiaro, seduta su uno degli
sgabelli della cucina, mentre mescolava una tisana: era
un’immagine confortante.
«Ti hanno
invitava sarebbe sgarbato, infantile e improduttivo non andare. Credo
sia meglio che ti credano pronta ad un compromesso».
«Pensi che mi faranno del male?».
Lindsey era
stata trasferita, molto medici ed infermieri che lavoravano lì
la stimavano, ma non credeva che avrebbero corso rischi concreti per
lei: non aveva amici tra le mura di quell’ospedale.
Sua madre rise. «Penso che potrebbero provarci».
Courtney sorrise
nel buio silenzioso della propria camera, forse sua madre si era fatta
un’idea un po’ esagerata delle sue capacità.
«Non credo che ti manderebbe lì da sola», osservò Vivian ad un certo punto.
Non le chiese a chi si riferiva.
Interruppe la
comunicazione e guardò il letto di Becky, vuoto. Sospirando
considerò quanto avrebbe voluto saperla nel letto di Zach.
Qualcuno
scrollò Nate per una spalla, per tutta risposta lui si
infagottò meglio nelle coperte, lanciando quello che voleva
essere un mugugno di avvertimento. Probabilmente chi stava cercando di
svegliarlo non comprese la minaccia, perché lo scrollò
ancora.
Aprì gli occhi trovandosi davanti la faccia sfocata di Mr. Flicks.
«Che diavolo ci fa lei qui?», domandò in un lamento.
«Wood mi ha chiesto di svegliarti e farti una domanda».
Nate avrebbe
voluto contare quante volte le sue frasi iniziassero con “Wood mi
ha chiesto” o “Wood ha detto”. Allungò una
mano verso il comodino e recuperò gli occhiali, sapeva che
cercavano di sfinirlo per coglierlo in fallo, per questo gli
interrogatori interminabili e le alzatacce e…
«Becky è…», disse come ricordando qualcosa.
Si accorse che
c’era anche Jean, seduta sulla punta della sedia della sua
scrivania, composta ed attenta. Sembrava che fosse sul punto di
scappare via o… volare via.
«Già, riguarda proprio Becky», confermò Mr.
Flicks. «Wood vuole sapere se pensi che Zach Douquette
interverrebbe, se lei si trovasse in pericolo».
«Quando si è svegliato?», chiese.
«Circa mezz’ora fa».
«Certo, la sua sintassi non risente del sonno».
Il suo
interlocutore sbatté le palpebre un paio di volte confuso,
sempre irrimediabilmente confuso. Che strazio.
«Come?».
Sbadigliò e scosse la testa. «Lasci stare, che voleva?».
«Zach Douquette interverrebbe se Rebecca Farrel fosse in pericolo?».
Nate non disse niente, ci pensò.
«Becky
è…», ripeté con voce impastata. Becky era in
una situazione che necessitava un intervento esterno, lui sarebbe
dovuto essere quell’intervento esterno.
Guardò Jean, lei lo stava già fissando.
«Non era
nella sua camera quando Courtney è uscita», lo
informò ed attese, sicura che quell’informazione gli
avrebbe dato l’aggancio giusto per inventarsi qualcosa.
Nate avrebbe
voluto con tutto il cuore mettersi a tavolino con Jean e farle le
domande giuste: c’era un’inspiegabile, placida sicurezza in
lei. Che non aveva senso.
Mr. Flicks rise. «Beh, spero che la domanda di Wood non sia arrivata troppo tardi».
Nate gli lanciò un’occhiataccia, prima di fissare Jean.
«Credo che
voglia fare sesso con Dean», sputò fuori. «Credo che
tu non le abbia dato il permesso».
Jean non
distolse lo sguardo dal suo, nemmeno quando Mr. Flicks si
sventolò accompagnando quel gesto con un: «Penso che di
certe cose debba occupartene tu», evidentemente imbarazzato.
Lei gli sorrise
con dolcezza. «D’altronde sono ragazzi»,
commentò prima di alzarsi. «Sarò di ritorno in
fretta», li salutò.
Nate la osservò allontanarsi, mentre pensava che non sapeva dov’era Courtney.
«Dunque, che ne dici di tornare alla mia domanda?», propose.
Non sapeva dov’era Courtney.
Lo guardò. «Dov’è Courtney?».
Mr. Flicks si strinse nelle spalle. «In ospedale, è stata convocata ieri».
Lanciò
un’occhiata al termometro sul suo comodino, si era fermato alla
temperatura di trentasei e due, non aveva la febbre, non ce
l’aveva mai. Era stato azzardato, e sciocco, e pericoloso, ed
adesso viveva con l’ansia tutte le volte che starnutiva.
«Sembri
pallido, ti assicuro che anche senza la supervisione di Jean, non mi
permetterei mai di farti del male», lo tranquillizzò.
Era quasi sicuro
che il suo non presentare sintomi – non ancora, almeno –
era facilmente estendibile a tutta la sua squadra, ma quel quasi
provocava morte e distruzione; dopotutto lui e Courtney erano diversi
in tutto: gruppo sanguigno, sesso, estrazione sociale, circostanze
ambientali pregresse. Courtney non era una persona azzarda, o sciocca,
sicuramente non avrebbe fatto cose pericolose. Non coscientemente
almeno.
«Sono preoccupato per Courtney», mormorò senza guardare il suo interlocutore.
«La mia
domanda», gli ricordò Mr. Flicks. «Wood tiene alla
tua opinione, conosci molto bene il soggetto, dovresti riuscire a
prevedere un pochino le sue mosse». Credeva
che quell’affermazione lo lusingasse, Nate riusciva a leggerlo
nei suoi occhietti ottusi. Cercò il drago di Jean, trovò
soltanto il cane di Wood.
«Ho detto che sono preoccupato per Courtney», ripeté irremovibile.
«Quando
avrai risposto alla mia domanda andrò a chiamare qualcuno per
rassicurarti, ad esso per favore…».
«Wood sta
cercando di provocarmi, ricordandomi che può fare quello che
crede con la mia squadra», lo interruppe. «Non vuole la mia
opinione, vuole solo essere sicuro che io non me ne dimentichi».
«Nate», lo rimproverò evidentemente deluso.
«Vuole che
gli dica che può mettere tutte le bombe che vuole addosso a
Becky, ma che tanto lui non permetterà che succeda
niente?», domandò. «Perché non gli riferisce
semplicemente quello che vuole sentirsi dire e la smettiamo con questa
messinscena?», continuò furioso.
«Calmati,
ragazzo!», esclamò nella sua espressione per un attimo
passò il barlume di qualcosa, sparì in fretta.
«Cos’hai oggi per essere così nervoso?».
Nate prese un
profondo respiro e si alzò. «Perché è stata
convocata in ospedale?».
«Chi?».
Nate fece un
verso impaziente. «Ma Courtney! È stato lei a dirmi che
è stata convocata in ospedale! È malata?».
Mr. Flicks era
in difficoltà, non riusciva a seguire cambi di argomento tanto
repentini, soprattutto non riusciva a farlo se si sentiva sotto
pressione, si raddrizzò gli occhiali sul naso. «No,
insomma non credo», si corresse. «Credo che vogliano il suo
parere su qualcosa».
«L’influenza», mormorò Nate senza guardarlo.
«Non credo gli servano pareri esterni per curare l’influenza», sbottò.
«Non può essere già arrivata qui».
Rise. «Che
medici sono se non sanno curare l’influenza?»,
continuò, saldo su un discorso semplice.
Nate lo
fissò, ma non ebbe il coraggio di parlare, sospirò
osservandolo prendere appunti su uno dei suoi mille fogli stropicciati,
dispiaciuto per aver perso le staffe con lui.
«Sì, credo che Zach interverrebbe», concluse, non
aveva più tempo da perdere. «Sa se Matt è in
caserma?».
«Credo di averlo visto a mensa».
«Le spiace se vado a parlargli, voleva chiedermi qualcos’altro?».
«No». Una volta che ebbe scritto tutto, si alzò dal
suo letto e si diresse verso la porta per lasciarlo, perse un
cartoccetto nel farlo.
Nate voleva
aiutarlo, ma doveva aiutare anche Courtney, Becky, Matt e se gli veniva
bene sé stesso. Mica poteva pensare a tutti…
Becky
allungò una mano oltre le coperte ed i cuscini tastando il
comodino: lampada, pistola, accendino – di chi? –
cellulare. Fece scorrere il dito sullo schermo per rispondere, mentre
si portava il telefono all’orecchio.
«Pronto», mormorò in uno sbadiglio.
Dall’altra parte della cornetta sua madre le diede il buongiorno, allegra.
Due settimane
prima Wood si era preso la briga di accompagnarli a far visita ad
ognuna delle proprie famiglie per tranquillizzarle.
Becky era stata
presente al loro incontro, lo aveva ascoltato prestarsi ad ogni domanda
ed accusa: aveva giustificato Jean Roberts dichiarando di essere stato
lui stesso a spingerla a ricoprire un compito, per il quale
evidentemente non era pronta; aveva giurato che non avrebbe mai
più permesso che i Veggenti di Synt rapissero i loro figli, che
Zach era stato il loro ultimo, tragico errore. Li aveva aiutati a
trovare un punto di contatto, bilanciando il bisogno di Becky di non
sentirsi troppo sotto pressione, con il diritto dei suoi genitori di
avere sue notizie.
Aveva visto sua madre tirare un sospiro di sollievo.
Suo padre era rimasto in silenzio a guardarla, senza sapere cosa dire, come se volesse un suo suggerimento.
Avevano anche avuto un colloquio privato, Becky li aveva spiati accucciata sulle scale.
Sua madre aveva
chiesto a Wood se dovessero temere che Zach Douquette la venisse a
cercare, lui aveva dovuto confermarlo, con sommo rammarico. Aveva
spiegato che evidentemente aveva un debole per la loro figlia e che
temevano fortemente per quella possibilità; li aveva rassicurati
però, l’aveva osservata, stava facendo amicizia, la vedeva
spesso scherzare con un ragazzo della sua squadra così per bene.
Era difficile
che una mela marcia come Zach potesse in qualche modo farle del male,
se lei si circondava di brave persone e comunque stavano prendendo ogni
precauzione necessaria in quel senso.
Solo a quel punto suo padre aveva aperto bocca.
«Credo che
Zach sia un bravo ragazzo», aveva detto. «Lo hanno ferito
per difenderla, è quasi morto per farlo».
«Non sappiamo cosa gli hanno detto, né se gli abbia creduto».
Sua madre aveva chiesto altro, Wood aveva risposto.
Becky era rimasta concentrata sul silenzio di suo padre.
«Mi
dispiace, signor Wood, non può convincermi che qualcuno che
è quasi morto per mia figlia, possa tornare a farle del
male», aveva detto infine. «Anche se secondo lei non
è una ragazzo così per bene».
Ora sua madre la chiamava a giorni alterni e le raccontava cose stupide.
Si salutarono ed
appoggiò di nuovo il cellulare sul comodino. Per qualche secondo
rimase ferma sotto le coperte a guardare il fianco nudo di Dean, liscio
e scolpito da tutti gli allenamenti. Fissava un punto, a sinistra,
appena sotto le costole, dove la pelle pallida ed intatta non mostrava
nessun segno.
Avrebbe voluto
fingere di essere addormentata per sempre, ma Dean si girò e la
abbracciò. «Buongiorno», biascicò contro i
suoi capelli.
Becky sbadigliò. «Dovrò dire a mia madre di non chiamare così presto».
«Non
sarebbe affatto una cattiva idea», rispose, allontanando la testa
da lei ed appoggiandola sul cuscino.
La guardò
sbucare oltre le coperte e continuò a fissarla anche quando
allungò la mano per scostargli i capelli dal viso.
«Dov’è Serena?», chiese in un sussurro.
Lui
scrollò le spalle. «È uscita presto, ha detto di
dover fare delle compre per Matt».
Il suo sesto
senso lanciò un “bip” d’avvertimento.
«Comprare cosa?», chiese preoccupata.
Dean sorrise e
le si avvicinò per baciarla, Becky sapeva che era un diversivo
per distrarla, ma che avrebbe potuto fare?
All’inizio
fu tenero, il bacio che si scambiarono fu dolce, poi però le
labbra di Dean si fecero più avide. Con delicatezza la spinse
sulla schiena fino a starle sopra con il busto, le mani di Dean le
percorsero il corpo come se gli appartenesse, fermandosi sul suo
fianco, lasciato scoperto dalla canottiera arrotolata.
Lampada, pistola, accendino – di Zach.
«Aspetta», lo fermò.
Dean si immobilizzò. «Mi pare un po’ sleale», osservò contrariato.
Becky rise fissandolo, arrossita.
«Perché dovrei?», le chiese allora Dean. «Tu
lo vuoi quanto me, sarebbe bello, starei attento».
«Non
voglio farlo», disse. «Non ancora», aggiustò,
davanti all’occhiata scettica di lui.
«Potrei
insistere», insinuò, lasciando che la sua mano si
arrampicasse sulla sua pelle, che le sue dita si avvicinassero al suo
seno.
Potrei spararti.
Fu la prima cosa
che le passò per la mente, ma non lo disse ed in fondo quella
che era sul suo comodino era solo una pistola a gommini.
Come se le
stesse leggendo nella mente, la mano di Dean perse interesse per il suo
corpo, le afferrò il polso in cambio. La baciò di nuovo,
ma stavolta sembrava talmente tanto un tentativo di tenerle la bocca
ben sigillata, mentre provava ad insinuarsi ed incastrarsi fra le sue
gambe.
Becky
cercò di allontanarsi, sollevarsi, ma il corpo di Dean la tirava
in basso come un masso. Le sembrava di annaspare, affogare, le mancava
l’aria ed il suo corpo reagiva in modo febbrile e scostante.
Sentiva il corpo di lui premere contro il proprio ed aveva la nausea,
la sua pelle ora sembrava orrenda e raccapricciante, troppo liscia,
troppo perfetta, toccarla la disgustava. Sentirsi toccare la disgustava.
Dean
trovò l’elastico dei suoi pantaloni e Becky
rabbrividì, quando ci si insinuò dentro.
«Ti
prego», supplicò in un sospiro e si maledisse per essere
caduta tanto in basso da dover elemosinare rispetto, mentre cercava di
scostarsi con molto più impegno di quanto avrebbe dovuto e
voluto usare.
Dean rimase
fermo e Becky realizzò quanto fosse più pesante e forte
di lei, le sembrò inamovibile come una statua di marmo.
Fisicamente non poteva fare niente per obbligarlo ad allontanarsi.
Qualcuno bussò alla porta.
«Becky, sono Jean, esci subito di lì».
Dean sorrise e la guardò, sembrava intrigato dalla sua aria spaventata.
«Arrivo», urlò Becky di rimandò, lo
fissò a sua volta sfidandolo a non ubbidire ad una Responsabile.
Con calma le
sfilò una mano dai pantaloni, accarezzandole la natica in un
gesto che voleva sembrare passionale, ma a Becky sembrò soltanto
volgare e crudele. Si puntellò su un braccio e le fece un cenno
con il capo, per incoraggiarla a sgusciare via, come se le sue proteste
fossero stato uno scherzo, come se stessero giocando.
Si tirò
su e si abbassò la maglietta, recuperò la sua pistola, il
suo cellulare e l’accendino di Zach, senza lanciare nemmeno
un’occhiata a Dean, rimasto scomposto sul letto. Bello, ma solo
da vedere.
«Becky», la chiamò lui.
Lei non si voltò, si alzò ed a piedi nudi si diresse verso la porta.
«Becky,
aspetta, non volevo…», non c’era anima in quelle
parole, erano solo una serie di lettere e suoni messi in fila.
Si voltò
e gli puntò la pistola contro, con tutta la calma di cui era
capace caricò il colpo in canna, poi spostò la mira fino
ad inquadrargli il cavallo dei pantaloni. Si chiese quanto male potesse
fare un giocattolo.
Voleva sparargli e piangere, ma sapeva di non poter fare nessun dei due.
«Non
permetterti mai più a comportarti così da
prepotente», si obbligò a dire.
«Scusa, ma io…».
«Ne riparleremo in un altro momento».
Spalancò
e sbatté la porta nell’uscire. Poi però rimase
ferma, mentre Jean la guardava tutta con calma.
«Stai bene?», le chiese.
Annuì ed
abbandonò il braccio lungo il fianco, la mano, ancora aggrappata
al feticcio di un’arma, pesantissima.
Jean la osservò per alcuni secondi, poi fissò la porta davanti a lei.
«Se vuoi
entro», le offrì fissando la porta con determinazione, ma
non con la ferma sicurezza con la quale si muoveva in una caserma
assediata; era come se volesse sfidarsi a farlo, come se dovesse
dimostrare qualcosa. Come se volesse mettersi alla prova.
Becky si fidava
ciecamente di Jean, sapeva che l’avrebbe difesa, ma Dean e Serena
erano diversi: dietro l’andare al tappeto di Dean così
facilmente, dietro l’ostentata scarsa preparazione di Serena, si
nascondeva molto altro. Non voleva che Jean si mettesse in pericolo
inutilmente. Se la teoria di Nate e Romeo era giusta, aveva preso
abbastanza Mitronio da essere completamente ordinaria, non poteva fare
più niente. Toccava a loro a quel punto prendersi cura di lei.
«Sto bene, non preoccuparti».
«Okay».
«Non ti stavo disobbedendo».
Jean le sorrise. «Lo so».
Courtney,
autorizzazione alla mano e pistola nella borsa, guardò i numeri
dell’ascensore illuminarsi uno ad uno mentre scendeva.
Il colloquio con
il primario era stato insospettabilmente gradevole, un bel confronto.
Lui si era scusato per aver sottovalutato le sue qualità, ma
aveva rinnovato le sue convinzioni: non condivideva quel voto al
segreto che sembrava avere, avrebbe dovuto condividere le sue scoperte,
avrebbe dovuto confrontare le sue idee, se avesse continuato ad agire
senza pensare avrebbe finito per commettere uno sbaglio enorme.
Secondo lui quello che teneva insieme la loro civiltà era la condivisione di buone idee.
Secondo
Courtney, d’altronde, erano una serie di bugie ben progettate a
farlo; quindi concordò ed espresse il proprio impegno a
socializzare con il centro medico di Synt.
Il senso di
tutto quell’enorme, inutile, uso di forme cortesi era invitarla a
non sprecare il suo talento.
Avevano un nuovo
caso di influenza piuttosto resistente, avevano allestito un piccolo
punto di recupero nei piani inferiori. Quelle persone malate avevano
bisogno soprattutto di riposo, non del caos in superficie di un
ospedale che operava in una città assediata dai Veggenti.
Voleva che se ne occupasse lei, erano casi semplice, un buon banco di prova.
Avrebbe
osservato come si evolveva la situazione, eventualmente avrebbe pensato
al suo prossimo incarico e, soprattutto, ad una lettera di
raccomandazioni per farla studiare.
Decisamente troppo generoso, aveva pensato Courtney.
Il cellulare le squillò nella borsa, lo prese e se lo portò all’orecchio.
«Ciao, Nate», disse senza nemmeno guardare lo schermo.
«Dove sei?», le chiese agitato.
«In ospedale».
«Perché ci sei andata senza dirmi niente?».
Per un attimo
Courtney rimase quasi scioccata, si rifiutò categoricamente di
prendere in considerazione la possibilità di avvertirlo ogni
volta che usciva. «Scusa?».
«Non toccare…».
La linea cadde,
non si stupì, era sotto terra, prevedibile che non ci fosse
rete. Una parte di lei era contenta, non era piacevole parlare con Nate
quando aveva un attacco di paranoia acuta.
Il reparto di
cui le aveva parlato il primario era una stanza con sei letti, una
sedia ed un tavolo. Sul tavolo c’erano una pila di cartelle
cliniche, appoggiato alla sedia una camicie con il suo nome.
Courtney
osservò i suoi pazienti addormentati e guardò
l’orologio, strano che dormissero così tanto, si chiese se
non dessero loro medicine specifiche.
Senza un motivo apparente le venne in mente il termometro con cui giocherellava sempre Nate.
Si sedette ed aprì la prima cartella.
Nate
trovò Matt a tavola con Jared: scherzava e mangiava una
cucchiaiata dopo l’altra di latte e cereali.
Lì per lì gli venne voglia di ucciderlo.
Si
avvicinò e sollevò il piede sulla panca per mostrargli la
bomba. «Devi togliermi questo affare», gli disse.
Matt, improvvisamente pallido, gli lanciò appena un’occhiata. «No, non devo».
«Ascoltami
bene: ho aspettato, ho lasciato che la tua paura facesse il suo corso e
tu ritrovassi la via della ragione», spiegò sottovoce
mettendogli una mano sulla spalla. «Ma adesso devo uscire ed
andare ad aiutare Courtney e tu devi togliermi questa cosa
maledetta», ringhiò.
Jared iniziò a fissarli entrambi, guardingo.
Vide Matt sforzarsi di mantenere la calma. «Chiamala», gli propose.
«Ci ho provato, ma il suo cellulare non prende».
Lo vide
allungare le orecchie, annusare anche lui che qualcosa non andava, lo
vide anche ignorare ogni singolo avvertimento che gli mandava la
propria mente.
Sospirò. «Se fossi
comprensivo la metà di quanto credi di essere, non me lo
staresti chiedendo», gli disse. «Sai qual è la posta
in gioco».
Tornò ai
suoi cereali, finché Nate non gli diede una spinta che gli fece
rovesciare la cucchiaiata sul tavolo.
Se le cose fossero state diverse, si sarebbe soltanto rovesciato del latte.
Matt
sbatté il cucchiaio sul tavolo, si pulì la mano e si
alzò in piedi. «Cos’è, vuoi fare a
botte?», gli domandò incredulo. «Sei diventato quel
tipo di persona?».
«Ragazzi, sedetevi e calmatevi», ordinò Jared mettendosi in piedi, pronto ad intervenire.
«Io?», domandò Nate ridendo. «Stiamo parlando
di me? Non sono io ad aver messo una bomba alla caviglia di un
amico».
«Non
esplode, Nate, devi solo stare qui in caserma», gli
ricordò. «Anche quando c’era Zach ti faceva stare
dentro, è tutto esattamente come prima».
«No, non è vero!», urlò, non avrebbe voluto, non riuscì a farne a meno.
Stavano
attirando l’attenzione, non gli piaceva avere tutte quelle facce
sconosciute intorno. Riconobbe gli occhi preoccupati di Becky, ferma
dietro la folla con un vassoio in mano. Scosse la testa
impercettibilmente, invitandola a non intervenire.
Matt lo fissava
con un misto di comprensione, rammarico e fermezza. Per un attimo si
vide andargli sotto, prenderlo per il colletto della maglia…
avrebbe dato corpo a quella visione, se non avesse anche visto Matt
colpirlo.
Lui allargò le braccia e sorrise: «Accomodati», lo sfidò.
Già, sfortunatamente non era l’unico.
Jared si mise
tra loro. «Okay, piantatela», disse a tutti e due.
«Non puoi prendertela con lui perché ha obbedito ad un
ordine di Wood», gli ricordò. «Se ti ha messo quella
bomba un motivo ce l’avrà avuto, anche se adesso non lo
capisci».
Perché Jared era diventato così stupido?
Cercò di
nuovo Becky – lei non era stupida – senza trovarla, vide il
suo vassoio però, appoggiato su uno dei tavoli; sapeva dove
stava andando e cosa avrebbe cercato.
«Dove sono le pistole di Becky?», gli chiese di punto in bianco.
Anche Matt stava fissando il punto dov’era sparita.
«Ce le ho io», fece Jared. «Wood le ha consegnate a me».
«Devi dargliele», ordinò.
Lui non lo
ascoltò, fece un cenno alle sue spalle per richiamare un pugno
di Veglianti di Wood. «Stai avendo un episodio paranoico,
Nate», spiegò mentre i Veglianti lo afferravano per le
braccia. «Ti portiamo in isolamento finché non ti
calmi».
Nate oppose
resistenza, debolmente, quattro contro uno era uno scontro
dall’esito prevedibile anche per Mr. Flicks.
«Sei un traditore, Matt, e lo sai», urlò comunque, prima che lo portassero via.
Non appena uno di loro si era svegliato, Courtney aveva chiesto di poterlo visitare.
La sua paziente,
una donna di trentasette anni di costituzione robusta, la fissava con
uno strano senso di confusione; era normale, non la conosceva,
riconosceva solo il verde della sua giacca e di solito i Veglianti non
erano considerati rassicuranti.
Armata di stetoscopio prese ad auscultarle le vie respiratorie.
«Che ci fa
lei qui?», le chiese una voce allarmata e strana, sembrava quasi
che rimbombasse, ma forse era lo stetoscopio.
«Shhh», la zittì senza voltarsi, infastidita
dall’interruzione. Sentiva qualcosa di strano, come se i polmoni
della donna gorgogliassero.
«Deve
uscire, l’accesso a questo reparto è autorizzato soltanto
al personale…», continuò l’infermiera oppure
il medico che l’aveva sorpresa.
«Sono stata autorizzata dal primario».
Sollevò
di più la maglia della donna e studiò i segni scuri che
aveva sulla pelle, sembrava che ci fosse un versamento di sangue,
superficiale e limitato se la donna era ancora viva, ma quale influenza
provocava emorragie interne?
Non capiva cosa le stava sfuggendo.
«E l’ha fatta scendere così?».
Courtney sospirò e la fissò. «Io non capi…», si interruppe.
«Si allontani immediatamente!», questa volta era la voce di un uomo.
Gli occhi dei due, dietro la maschera, sembravano in preda al panico.
Courtney sollevò le mani e fece un passo indietro, capì subito che era troppo tardi.
La voce le era strana perché veniva dall’interno di una tuta.
Una tuta per evitare il contagio biologico.
Fece un passo
indietro, mentre l’infermiera le diceva cose inutili come
“non tocchi niente”. Aveva già toccato tutto,
respirato. Non si era mai ammalata, ma quella cosa era diversa.
Era diversa perché lì c’erano sei letti, ma Courtney ne vide mille.
Vide piani e piani di ospedali convertiti in quarantene forzate.
Vide pazienti morire tra le mani dei propri medici e vide medici diventare pazienti.
Vide un mondo malato e morente.
Si portò
una mano alla bocca sconvolta: era un’epidemia che sembrava e si
diffondeva come l’influenza.
E non sapevano curarla.
Ripensò alle cartelle, ai sintomi e la sua mente girava, vorticava e…
Era troppo tardi.
Becky si era
data un ultimatum: se Courtney non fosse tornata prima della sei di
quella stessa sera, sarebbe andata a cercarla.
Non appena aveva
visto quanto Nate fosse preoccupato per lei era tornata in camera, le
aveva chiesto scusa con il pensiero ed aveva iniziato a frugare tra le
sue cose. Aveva trovato una miriade di cianfrusaglie inutili: una sacca
di sangue vuota, la scatola dei cioccolatini, una coppetta da gelato
vuota, ma appiccicosa.
Aveva trovato la giacca di Zach.
Courtney
l’aveva lavata, non era più sporca di sangue, ma non
l’aveva ricucita. Sfiorò il taglio causato dal coltello di
Romeo e le mancò la possibilità che sotto ci fosse la
pelle di Zach.
Era diventata
bravissima a non guardare in quell’angolo della sua mente, ma le
mancavano mole cose di lui. Le mancavano le sue mani, i suoi capelli,
come la guardava quando era arrabbiato con lei; le mancava la sua voce
la notte, le mancava dormire nella brandina della sua camera ed
ascoltarlo raccontare cose, avventure, storie spaventose che erano la
loro favola della buonanotte.
Si portò la giacca al viso.
Le mancava il suo odore, quella giacca sapeva del bucato sterilizzato e batteriologicamente puro di Courtney.
Courtney.
Posò la giacca e recuperò una lettera con l’intestazione dell’ospedale.
Becky la lesse
di riga in riga più infastidita. Trovava folle, leggero,
testardo e tipicamente da Courtney, che fosse andata in ospedale da
sola, consapevole di non avere né amici né alleati.
Certo, che era nei guai, era stata così stupida da infilarsi nella tana del lupo da sola.
Sussultò, quando aprendo la porta si trovò davanti Matt.
«Cavolo, mi hai spaventata», sbottò, mentre lui la scostava per entrare.
«Ti ho portato una cosa», le disse.
«Senti, se
sono le scarpe, dovranno aspettare», lo ammonì.
«Hanno rinchiuso Nate, tu hai Rose e Jared è uno
stupido», elencò. «Sono rimasta solo io».
Lui gli porse due pistole. «Ho pensato che potrebbero servirti», sorrise.
Becky le
guardò, poi spostò gli occhi sul suo viso.
«Matt», disse senza sapere come proseguire.
«Le scarpe
saranno pronte domani», continuò. «Domani
dovrò dartele e tu dovrai metterle, perché hanno un GPS e
lo sapranno se non lo fai».
Becky prese le
pistole. Quando i suoi palmi si strinsero intorno al calcio, la prima
cosa che pensò di fare fu andare nella stanza di Dean e vedere
come reagiva davanti ad un’arma vera. Si impose di non farlo,
c’erano cose più importanti.
«Tu lo sai
che devo farlo, vero?», le chiese. «Che ti voglio bene, che
sei buona e che non lo meriti, lo sai?».
C’era una
strana urgenza negli occhi di Matt, qualcosa che li rendeva sinistri.
Stavano impazzendo tutti.
«Lo
so», disse. «Matt, Nate è solo preoccupato e
frustrato». Allungò una mano per sfiorargli il braccio,
quasi una carezza, mentre apriva la porta per uscire. «Ci
pensiamo domani, d’accordo?».
Si guardò
intorno assicurandosi che il corridoio fosse deserto, prima di
dirigersi verso l’ingresso.
«Non dire a nessuno che mi hai vista».
Ammanettata ad un termosifone, Courtney fissava il muro bianco davanti a lei.
Milioni di letti.
Mamma.
Milioni di bare.
Mamma.
«La terremo sotto osservazione finché non saremo sicuri che non sia stata infettata».
«Miss Williams, vuole che avvisiamo qualcuno?».
«Mia madre. Vivian Williams».
«Courtney».
Non si poteva contenere l’influenza.
Ogni anno
milioni di persone si ammalavano, soffrivano il mal di pancia, si
soffiavano il naso, tenevano sotto controllo la febbre e lo superavano.
Non si curava l’influenza.
Si cercava di
prevenirla con vaccini, cure per rinforzare le difese immunitarie e
rendere il corpo in grado di combatterla.
«Courtney».
Il primario voleva che venisse infettata.
«Courtney, non sei stata contagiata».
Zach.
«Come?».
La fissava, gli occhi verdi tra filze di capelli biondo chiarissimo.
«Non sei stata contagiata», ripeté.
sì, Zach è diventato biondo...
è diventato super sayan...
no, ma sarebbe una figata.
ad ogni modo...
non voglio dirvi cose che potrebbero spoilerarvi altre cose in modi che
non riesco a prevedere, perciò mi limiterò ad un commento
random: da qualche parte avevo letto/ascoltato un servizio in cui
dicevano che potenzialmente l'influenza era la malattia più
resistente al mondo, perchè ci veniva ripropinata ogni autunno
da sempre e per sempre. si contagia che è un amore in milioni di
modi e prima o poi tutti finiamo a letto... poi mentre ci pensavo c'era
il rischio ebola, che era un'altro virus... certo, l'ebola già
si diffondeva in modo più complicato... però ho pensato
che se l'ebola si fosse diffusa come l'influenza saremmo stati
spacciati. e da lì ho creato il mio fantastico, tenero ed
adorabile virus.
se ve lo state chiedendo, no, non ho iniziato a studiare medicina
strada facendo... quindi, boh... potrei aver scritto e pensato una
marea di stupidaggini...
ma beh...
se non posso far diventare Zach super sayan qualche libertà dovrete pure lasciarmela!
poi...
ieri la Fragolottina corp. ha affrontato il problema wattpad - chi mi
segue un po' dappertutto lo sa - perchè riscontro molte
richieste di pubblicazione delle mie storie sotto altri nomi, di tanto
in tanto mi tocca sventare un plagio e qualche volta le persone hanno
la bizzarra sensazione che quando dico "no" in realtà intenda
"sì". strano vero?
dopo aver detto a Lamponella che non me la sento, al mio fidanzato che
sono troppo vecchia per ricominciare su un nuovo sito, a fallsofarc che
ho l'ansia, ho deciso senza alcun senso logico di sì.
quindi prossimamente le mie storie, o almeno alcune, verranno postate un po' per volta sul mio profilo lì...
EFP continuerà sempre e comunque ad essere il sito prevalente,
ma penso che sia giusto marcare il territorio... oh, di fragolottina
una c'è!
quindi presto troverete il link sulla mia pagina autore.
se siete anche lì, statemi vicine perchè ho l'anisa, non me la sento e sono troppo vecchia, non lasciatemi sola!
affezionatamente vostra
Fragolottina
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