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Autore: fragolottina    05/05/2016    5 recensioni
«Ho messo il ragazzo dai capelli rossi nel mucchietto sbagliato», Helen sorrise. «Uccidere mio padre ha davvero riparato il mio errore?».
Questa volta lui fu costretto a rimanere zitto.
«Io. So. Tutto», ripeté lentamente. «Anche le conseguenze delle mie azioni».
Silenzio.
«E lei sa a cosa porteranno le sue azioni?».
Genere: Generale, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Synt'
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I Veglianti di Synt ciao...
sono esageratamente eccitata per questo capitolo, anche se non so spiegare perchè.
non so, probabilmente è la rassicurante sensazione che tutto sta trovando il suo posto nel mondo e sto riuscendo a trovare spazio per tutte el cosine che voglio che ci siano... sono molte... e con molte intendo pericolosamente troppe...
se ad un certo punto della storia - di tutta la storia, non necessariamente di questo capitolo - vorrete dirmi "datti una calmata" siete ufficialmente autorizzate.

CAPITOLO 3

    Courtney aprì gli occhi e si voltò verso la finestra.
    Il cielo era grigio scuro, appena più chiaro della notte. Frugò sotto il cuscino e prese la lettera del giorno prima.
    Veniva dall’ospedale. Il primario in persona la invitava ad un incontro, le aveva lasciato un numero da chiamare per farsi venire a prendere. In modo molto cortese e molto distaccato la invitava a confrontarsi, elencava le loro reciproche colpe sulla questione Zach, come ultimo suggerimento le lasciava una questione aperta: se avessero collaborato, se si fossero aiutati, le cose sarebbero potute andare diversamente?
    Courtney si girò a pancia in su inquieta e recuperò il proprio telefono, compose il numero di sua madre senza nemmeno pensarci.
    «Secondo te dovrei andare?», le chiese, senza presentarsi, senza darle il buongiorno. Loro due non avevano un rapporto canonico, ma in qualche modo questo le univa di più: stavano mesi senza sentirsi, senza avere bisogno di parlarsi, però poi quando arrivava il giorno in cui a Courtney serviva sua madre, sua madre era lì.
    Non era mai servito spiegarle niente, lei sapeva sempre quali erano le necessità della propria figlia.
    «Sì, credo di sì», rispose Vivian Williams come se avesse letto quella lettera con lei. Courtney poteva immaginarla nella sua vestaglia grigio chiaro, seduta su uno degli sgabelli della cucina, mentre mescolava una tisana: era un’immagine confortante.
    «Ti hanno invitava sarebbe sgarbato, infantile e improduttivo non andare. Credo sia meglio che ti credano pronta ad un compromesso».
    «Pensi che mi faranno del male?».
    Lindsey era stata trasferita, molto medici ed infermieri che lavoravano lì la stimavano, ma non credeva che avrebbero corso rischi concreti per lei: non aveva amici tra le mura di quell’ospedale.
    Sua madre rise. «Penso che potrebbero provarci».
    Courtney sorrise nel buio silenzioso della propria camera, forse sua madre si era fatta un’idea un po’ esagerata delle sue capacità.
    «Non credo che ti manderebbe lì da sola», osservò Vivian ad un certo punto.
    Non le chiese a chi si riferiva.
    Interruppe la comunicazione e guardò il letto di Becky, vuoto. Sospirando considerò quanto avrebbe voluto saperla nel letto di Zach.

    Qualcuno scrollò Nate per una spalla, per tutta risposta lui si infagottò meglio nelle coperte, lanciando quello che voleva essere un mugugno di avvertimento. Probabilmente chi stava cercando di svegliarlo non comprese la minaccia, perché lo scrollò ancora.
    Aprì gli occhi trovandosi davanti la faccia sfocata di Mr. Flicks.
    «Che diavolo ci fa lei qui?», domandò in un lamento.
    «Wood mi ha chiesto di svegliarti e farti una domanda».
    Nate avrebbe voluto contare quante volte le sue frasi iniziassero con “Wood mi ha chiesto” o “Wood ha detto”. Allungò una mano verso il comodino e recuperò gli occhiali, sapeva che cercavano di sfinirlo per coglierlo in fallo, per questo gli interrogatori interminabili e le alzatacce e…
    «Becky è…», disse come ricordando qualcosa.
    Si accorse che c’era anche Jean, seduta sulla punta della sedia della sua scrivania, composta ed attenta. Sembrava che fosse sul punto di scappare via o… volare via.
    «Già, riguarda proprio Becky», confermò Mr. Flicks. «Wood vuole sapere se pensi che Zach Douquette interverrebbe, se lei si trovasse in pericolo».
    «Quando si è svegliato?», chiese.
    «Circa mezz’ora fa».
    «Certo, la sua sintassi non risente del sonno».
    Il suo interlocutore sbatté le palpebre un paio di volte confuso, sempre irrimediabilmente confuso. Che strazio.
    «Come?».
    Sbadigliò e scosse la testa. «Lasci stare, che voleva?».
    «Zach Douquette interverrebbe se Rebecca Farrel fosse in pericolo?».
    Nate non disse niente, ci pensò.
    «Becky è…», ripeté con voce impastata. Becky era in una situazione che necessitava un intervento esterno, lui sarebbe dovuto essere quell’intervento esterno.
    Guardò Jean, lei lo stava già fissando.
    «Non era nella sua camera quando Courtney è uscita», lo informò ed attese, sicura che quell’informazione gli avrebbe dato l’aggancio giusto per inventarsi qualcosa.
    Nate avrebbe voluto con tutto il cuore mettersi a tavolino con Jean e farle le domande giuste: c’era un’inspiegabile, placida sicurezza in lei. Che non aveva senso.
    Mr. Flicks rise. «Beh, spero che la domanda di Wood non sia arrivata troppo tardi».
    Nate gli lanciò un’occhiataccia, prima di fissare Jean.
    «Credo che voglia fare sesso con Dean», sputò fuori. «Credo che tu non le abbia dato il permesso».
    Jean non distolse lo sguardo dal suo, nemmeno quando Mr. Flicks si sventolò accompagnando quel gesto con un: «Penso che di certe cose debba occupartene tu», evidentemente imbarazzato.
    Lei gli sorrise con dolcezza. «D’altronde sono ragazzi», commentò prima di alzarsi. «Sarò di ritorno in fretta», li salutò.
    Nate la osservò allontanarsi, mentre pensava che non sapeva dov’era Courtney.
    «Dunque, che ne dici di tornare alla mia domanda?», propose.
    Non sapeva dov’era Courtney.
    Lo guardò. «Dov’è Courtney?».
    Mr. Flicks si strinse nelle spalle. «In ospedale, è stata convocata ieri».
    Lanciò un’occhiata al termometro sul suo comodino, si era fermato alla temperatura di trentasei e due, non aveva la febbre, non ce l’aveva mai. Era stato azzardato, e sciocco, e pericoloso, ed adesso viveva con l’ansia tutte le volte che starnutiva.
    «Sembri pallido, ti assicuro che anche senza la supervisione di Jean, non mi permetterei mai di farti del male», lo tranquillizzò.
    Era quasi sicuro che il suo non presentare sintomi – non ancora, almeno – era facilmente estendibile a tutta la sua squadra, ma quel quasi provocava morte e distruzione; dopotutto lui e Courtney erano diversi in tutto: gruppo sanguigno, sesso, estrazione sociale, circostanze ambientali pregresse. Courtney non era una persona azzarda, o sciocca, sicuramente non avrebbe fatto cose pericolose. Non coscientemente almeno.
    «Sono preoccupato per Courtney», mormorò senza guardare il suo interlocutore.
    «La mia domanda», gli ricordò Mr. Flicks. «Wood tiene alla tua opinione, conosci molto bene il soggetto, dovresti riuscire a prevedere un pochino le sue mosse».     Credeva che quell’affermazione lo lusingasse, Nate riusciva a leggerlo nei suoi occhietti ottusi. Cercò il drago di Jean, trovò soltanto il cane di Wood.
    «Ho detto che sono preoccupato per Courtney», ripeté irremovibile.
    «Quando avrai risposto alla mia domanda andrò a chiamare qualcuno per rassicurarti, ad esso per favore…».
    «Wood sta cercando di provocarmi, ricordandomi che può fare quello che crede con la mia squadra», lo interruppe. «Non vuole la mia opinione, vuole solo essere sicuro che io non me ne dimentichi».
    «Nate», lo rimproverò evidentemente deluso.
    «Vuole che gli dica che può mettere tutte le bombe che vuole addosso a Becky, ma che tanto lui non permetterà che succeda niente?», domandò. «Perché non gli riferisce semplicemente quello che vuole sentirsi dire e la smettiamo con questa messinscena?», continuò furioso.
    «Calmati, ragazzo!», esclamò nella sua espressione per un attimo passò il barlume di qualcosa, sparì in fretta. «Cos’hai oggi per essere così nervoso?».
    Nate prese un profondo respiro e si alzò. «Perché è stata convocata in ospedale?».
    «Chi?».
    Nate fece un verso impaziente. «Ma Courtney! È stato lei a dirmi che è stata convocata in ospedale! È malata?».
    Mr. Flicks era in difficoltà, non riusciva a seguire cambi di argomento tanto repentini, soprattutto non riusciva a farlo se si sentiva sotto pressione, si raddrizzò gli occhiali sul naso. «No, insomma non credo», si corresse. «Credo che vogliano il suo parere su qualcosa».
    «L’influenza», mormorò Nate senza guardarlo.
    «Non credo gli servano pareri esterni per curare l’influenza», sbottò.
    «Non può essere già arrivata qui».
    Rise. «Che medici sono se non sanno curare l’influenza?», continuò, saldo su un discorso semplice.
    Nate lo fissò, ma non ebbe il coraggio di parlare, sospirò osservandolo prendere appunti su uno dei suoi mille fogli stropicciati, dispiaciuto per aver perso le staffe con lui.
    «Sì, credo che Zach interverrebbe», concluse, non aveva più tempo da perdere. «Sa se Matt è in caserma?».
    «Credo di averlo visto a mensa».
    «Le spiace se vado a parlargli, voleva chiedermi qualcos’altro?».
    «No». Una volta che ebbe scritto tutto, si alzò dal suo letto e si diresse verso la porta per lasciarlo, perse un cartoccetto nel farlo.
    Nate voleva aiutarlo, ma doveva aiutare anche Courtney, Becky, Matt e se gli veniva bene sé stesso. Mica poteva pensare a tutti…

    Becky allungò una mano oltre le coperte ed i cuscini tastando il comodino: lampada, pistola, accendino – di chi? – cellulare. Fece scorrere il dito sullo schermo per rispondere, mentre si portava il telefono all’orecchio.
    «Pronto», mormorò in uno sbadiglio.
    Dall’altra parte della cornetta sua madre le diede il buongiorno, allegra.
    Due settimane prima Wood si era preso la briga di accompagnarli a far visita ad ognuna delle proprie famiglie per tranquillizzarle.
    Becky era stata presente al loro incontro, lo aveva ascoltato prestarsi ad ogni domanda ed accusa: aveva giustificato Jean Roberts dichiarando di essere stato lui stesso a spingerla a ricoprire un compito, per il quale evidentemente non era pronta; aveva giurato che non avrebbe mai più permesso che i Veggenti di Synt rapissero i loro figli, che Zach era stato il loro ultimo, tragico errore. Li aveva aiutati a trovare un punto di contatto, bilanciando il bisogno di Becky di non sentirsi troppo sotto pressione, con il diritto dei suoi genitori di avere sue notizie.
    Aveva visto sua madre tirare un sospiro di sollievo.
    Suo padre era rimasto in silenzio a guardarla, senza sapere cosa dire, come se volesse un suo suggerimento.
    Avevano anche avuto un colloquio privato, Becky li aveva spiati accucciata sulle scale.
    Sua madre aveva chiesto a Wood se dovessero temere che Zach Douquette la venisse a cercare, lui aveva dovuto confermarlo, con sommo rammarico. Aveva spiegato che evidentemente aveva un debole per la loro figlia e che temevano fortemente per quella possibilità; li aveva rassicurati però, l’aveva osservata, stava facendo amicizia, la vedeva spesso scherzare con un ragazzo della sua squadra così per bene.
    Era difficile che una mela marcia come Zach potesse in qualche modo farle del male, se lei si circondava di brave persone e comunque stavano prendendo ogni precauzione necessaria in quel senso.
    Solo a quel punto suo padre aveva aperto bocca.
    «Credo che Zach sia un bravo ragazzo», aveva detto. «Lo hanno ferito per difenderla, è quasi morto per farlo».
    «Non sappiamo cosa gli hanno detto, né se gli abbia creduto».
    Sua madre aveva chiesto altro, Wood aveva risposto.
    Becky era rimasta concentrata sul silenzio di suo padre.
    «Mi dispiace, signor Wood, non può convincermi che qualcuno che è quasi morto per mia figlia, possa tornare a farle del male», aveva detto infine. «Anche se secondo lei non è una ragazzo così per bene».
    Ora sua madre la chiamava a giorni alterni e le raccontava cose stupide.
    Si salutarono ed appoggiò di nuovo il cellulare sul comodino. Per qualche secondo rimase ferma sotto le coperte a guardare il fianco nudo di Dean, liscio e scolpito da tutti gli allenamenti. Fissava un punto, a sinistra, appena sotto le costole, dove la pelle pallida ed intatta non mostrava nessun segno.
    Avrebbe voluto fingere di essere addormentata per sempre, ma Dean si girò e la abbracciò. «Buongiorno», biascicò contro i suoi capelli.
    Becky sbadigliò. «Dovrò dire a mia madre di non chiamare così presto».
    «Non sarebbe affatto una cattiva idea», rispose, allontanando la testa da lei ed appoggiandola sul cuscino.
    La guardò sbucare oltre le coperte e continuò a fissarla anche quando allungò la mano per scostargli i capelli dal viso.
    «Dov’è Serena?», chiese in un sussurro.
    Lui scrollò le spalle. «È uscita presto, ha detto di dover fare delle compre per Matt».
    Il suo sesto senso lanciò un “bip” d’avvertimento. «Comprare cosa?», chiese preoccupata.
    Dean sorrise e le si avvicinò per baciarla, Becky sapeva che era un diversivo per distrarla, ma che avrebbe potuto fare?
    All’inizio fu tenero, il bacio che si scambiarono fu dolce, poi però le labbra di Dean si fecero più avide. Con delicatezza la spinse sulla schiena fino a starle sopra con il busto, le mani di Dean le percorsero il corpo come se gli appartenesse, fermandosi sul suo fianco, lasciato scoperto dalla canottiera arrotolata.
    Lampada, pistola, accendino – di Zach.
    «Aspetta», lo fermò.
    Dean si immobilizzò. «Mi pare un po’ sleale», osservò contrariato.
    Becky rise fissandolo, arrossita.
    «Perché dovrei?», le chiese allora Dean. «Tu lo vuoi quanto me, sarebbe bello, starei attento».
    «Non voglio farlo», disse. «Non ancora», aggiustò, davanti all’occhiata scettica di lui.
    «Potrei insistere», insinuò, lasciando che la sua mano si arrampicasse sulla sua pelle, che le sue dita si avvicinassero al suo seno.
    Potrei spararti.
    Fu la prima cosa che le passò per la mente, ma non lo disse ed in fondo quella che era sul suo comodino era solo una pistola a gommini.
    Come se le stesse leggendo nella mente, la mano di Dean perse interesse per il suo corpo, le afferrò il polso in cambio. La baciò di nuovo, ma stavolta sembrava talmente tanto un tentativo di tenerle la bocca ben sigillata, mentre provava ad insinuarsi ed incastrarsi fra le sue gambe.
    Becky cercò di allontanarsi, sollevarsi, ma il corpo di Dean la tirava in basso come un masso. Le sembrava di annaspare, affogare, le mancava l’aria ed il suo corpo reagiva in modo febbrile e scostante. Sentiva il corpo di lui premere contro il proprio ed aveva la nausea, la sua pelle ora sembrava orrenda e raccapricciante, troppo liscia, troppo perfetta, toccarla la disgustava. Sentirsi toccare la disgustava.
    Dean trovò l’elastico dei suoi pantaloni e Becky rabbrividì, quando ci si insinuò dentro.
    «Ti prego», supplicò in un sospiro e si maledisse per essere caduta tanto in basso da dover elemosinare rispetto, mentre cercava di scostarsi con molto più impegno di quanto avrebbe dovuto e voluto usare.
    Dean rimase fermo e Becky realizzò quanto fosse più pesante e forte di lei, le sembrò inamovibile come una statua di marmo. Fisicamente non poteva fare niente per obbligarlo ad allontanarsi.
    Qualcuno bussò alla porta.
    «Becky, sono Jean, esci subito di lì».
    Dean sorrise e la guardò, sembrava intrigato dalla sua aria spaventata.
    «Arrivo», urlò Becky di rimandò, lo fissò a sua volta sfidandolo a non ubbidire ad una Responsabile.
    Con calma le sfilò una mano dai pantaloni, accarezzandole la natica in un gesto che voleva sembrare passionale, ma a Becky sembrò soltanto volgare e crudele. Si puntellò su un braccio e le fece un cenno con il capo, per incoraggiarla a sgusciare via, come se le sue proteste fossero stato uno scherzo, come se stessero giocando.
    Si tirò su e si abbassò la maglietta, recuperò la sua pistola, il suo cellulare e l’accendino di Zach, senza lanciare nemmeno un’occhiata a Dean, rimasto scomposto sul letto. Bello, ma solo da vedere.
    «Becky», la chiamò lui.
    Lei non si voltò, si alzò ed a piedi nudi si diresse verso la porta.
    «Becky, aspetta, non volevo…», non c’era anima in quelle parole, erano solo una serie di lettere e suoni messi in fila.
    Si voltò e gli puntò la pistola contro, con tutta la calma di cui era capace caricò il colpo in canna, poi spostò la mira fino ad inquadrargli il cavallo dei pantaloni. Si chiese quanto male potesse fare un giocattolo.
    Voleva sparargli e piangere, ma sapeva di non poter fare nessun dei due.
    «Non permetterti mai più a comportarti così da prepotente», si obbligò a dire.
    «Scusa, ma io…».
    «Ne riparleremo in un altro momento».
    Spalancò e sbatté la porta nell’uscire. Poi però rimase ferma, mentre Jean la guardava tutta con calma.
    «Stai bene?», le chiese.
    Annuì ed abbandonò il braccio lungo il fianco, la mano, ancora aggrappata al feticcio di un’arma, pesantissima.
    Jean la osservò per alcuni secondi, poi fissò la porta davanti a lei.
    «Se vuoi entro», le offrì fissando la porta con determinazione, ma non con la ferma sicurezza con la quale si muoveva in una caserma assediata; era come se volesse sfidarsi a farlo, come se dovesse dimostrare qualcosa. Come se volesse mettersi alla prova.
    Becky si fidava ciecamente di Jean, sapeva che l’avrebbe difesa, ma Dean e Serena erano diversi: dietro l’andare al tappeto di Dean così facilmente, dietro l’ostentata scarsa preparazione di Serena, si nascondeva molto altro. Non voleva che Jean si mettesse in pericolo inutilmente. Se la teoria di Nate e Romeo era giusta, aveva preso abbastanza Mitronio da essere completamente ordinaria, non poteva fare più niente. Toccava a loro a quel punto prendersi cura di lei.
    «Sto bene, non preoccuparti».
    «Okay».
    «Non ti stavo disobbedendo».
    Jean le sorrise. «Lo so».

    Courtney, autorizzazione alla mano e pistola nella borsa, guardò i numeri dell’ascensore illuminarsi uno ad uno mentre scendeva.
    Il colloquio con il primario era stato insospettabilmente gradevole, un bel confronto. Lui si era scusato per aver sottovalutato le sue qualità, ma aveva rinnovato le sue convinzioni: non condivideva quel voto al segreto che sembrava avere, avrebbe dovuto condividere le sue scoperte, avrebbe dovuto confrontare le sue idee, se avesse continuato ad agire senza pensare avrebbe finito per commettere uno sbaglio enorme.
    Secondo lui quello che teneva insieme la loro civiltà era la condivisione di buone idee.
    Secondo Courtney, d’altronde, erano una serie di bugie ben progettate a farlo; quindi concordò ed espresse il proprio impegno a socializzare con il centro medico di Synt.
    Il senso di tutto quell’enorme, inutile, uso di forme cortesi era invitarla a non sprecare il suo talento.
    Avevano un nuovo caso di influenza piuttosto resistente, avevano allestito un piccolo punto di recupero nei piani inferiori. Quelle persone malate avevano bisogno soprattutto di riposo, non del caos in superficie di un ospedale che operava in una città assediata dai Veggenti.
    Voleva che se ne occupasse lei, erano casi semplice, un buon banco di prova.
    Avrebbe osservato come si evolveva la situazione, eventualmente avrebbe pensato al suo prossimo incarico e, soprattutto, ad una lettera di raccomandazioni per farla studiare.
    Decisamente troppo generoso, aveva pensato Courtney.
    Il cellulare le squillò nella borsa, lo prese e se lo portò all’orecchio.
    «Ciao, Nate», disse senza nemmeno guardare lo schermo.
    «Dove sei?», le chiese agitato.
    «In ospedale».
    «Perché ci sei andata senza dirmi niente?».
    Per un attimo Courtney rimase quasi scioccata, si rifiutò categoricamente di prendere in considerazione la possibilità di avvertirlo ogni volta che usciva. «Scusa?».
    «Non toccare…».
    La linea cadde, non si stupì, era sotto terra, prevedibile che non ci fosse rete. Una parte di lei era contenta, non era piacevole parlare con Nate quando aveva un attacco di paranoia acuta.
    Il reparto di cui le aveva parlato il primario era una stanza con sei letti, una sedia ed un tavolo. Sul tavolo c’erano una pila di cartelle cliniche, appoggiato alla sedia una camicie con il suo nome.
    Courtney osservò i suoi pazienti addormentati e guardò l’orologio, strano che dormissero così tanto, si chiese se non dessero loro medicine specifiche.
    Senza un motivo apparente le venne in mente il termometro con cui giocherellava sempre Nate.
    Si sedette ed aprì la prima cartella.

    Nate trovò Matt a tavola con Jared: scherzava e mangiava una cucchiaiata dopo l’altra di latte e cereali.
    Lì per lì gli venne voglia di ucciderlo.
    Si avvicinò e sollevò il piede sulla panca per mostrargli la bomba. «Devi togliermi questo affare», gli disse.
    Matt, improvvisamente pallido, gli lanciò appena un’occhiata. «No, non devo».
    «Ascoltami bene: ho aspettato, ho lasciato che la tua paura facesse il suo corso e tu ritrovassi la via della ragione», spiegò sottovoce mettendogli una mano sulla spalla. «Ma adesso devo uscire ed andare ad aiutare Courtney e tu devi togliermi questa cosa maledetta», ringhiò.
Jared iniziò a fissarli entrambi, guardingo.
    Vide Matt sforzarsi di mantenere la calma. «Chiamala», gli propose.
    «Ci ho provato, ma il suo cellulare non prende».
    Lo vide allungare le orecchie, annusare anche lui che qualcosa non andava, lo vide anche ignorare ogni singolo avvertimento che gli mandava la propria mente.
Sospirò. «Se fossi comprensivo la metà di quanto credi di essere, non me lo staresti chiedendo», gli disse. «Sai qual è la posta in gioco».
    Tornò ai suoi cereali, finché Nate non gli diede una spinta che gli fece rovesciare la cucchiaiata sul tavolo.
    Se le cose fossero state diverse, si sarebbe soltanto rovesciato del latte.
    Matt sbatté il cucchiaio sul tavolo, si pulì la mano e si alzò in piedi. «Cos’è, vuoi fare a botte?», gli domandò incredulo. «Sei diventato quel tipo di persona?».
    «Ragazzi, sedetevi e calmatevi», ordinò Jared mettendosi in piedi, pronto ad intervenire.
    «Io?», domandò Nate ridendo. «Stiamo parlando di me? Non sono io ad aver messo una bomba alla caviglia di un amico».
    «Non esplode, Nate, devi solo stare qui in caserma», gli ricordò. «Anche quando c’era Zach ti faceva stare dentro, è tutto esattamente come prima».
    «No, non è vero!», urlò, non avrebbe voluto, non riuscì a farne a meno.
    Stavano attirando l’attenzione, non gli piaceva avere tutte quelle facce sconosciute intorno. Riconobbe gli occhi preoccupati di Becky, ferma dietro la folla con un vassoio in mano. Scosse la testa impercettibilmente, invitandola a non intervenire.
    Matt lo fissava con un misto di comprensione, rammarico e fermezza. Per un attimo si vide andargli sotto, prenderlo per il colletto della maglia… avrebbe dato corpo a quella visione, se non avesse anche visto Matt colpirlo.
    Lui allargò le braccia e sorrise: «Accomodati», lo sfidò.
    Già, sfortunatamente non era l’unico.
    Jared si mise tra loro. «Okay, piantatela», disse a tutti e due. «Non puoi prendertela con lui perché ha obbedito ad un ordine di Wood», gli ricordò. «Se ti ha messo quella bomba un motivo ce l’avrà avuto, anche se adesso non lo capisci».
    Perché Jared era diventato così stupido?
    Cercò di nuovo Becky – lei non era stupida – senza trovarla, vide il suo vassoio però, appoggiato su uno dei tavoli; sapeva dove stava andando e cosa avrebbe cercato.
    «Dove sono le pistole di Becky?», gli chiese di punto in bianco.
    Anche Matt stava fissando il punto dov’era sparita.
    «Ce le ho io», fece Jared. «Wood le ha consegnate a me».
    «Devi dargliele», ordinò.
    Lui non lo ascoltò, fece un cenno alle sue spalle per richiamare un pugno di Veglianti di Wood. «Stai avendo un episodio paranoico, Nate», spiegò mentre i Veglianti lo afferravano per le braccia. «Ti portiamo in isolamento finché non ti calmi».
    Nate oppose resistenza, debolmente, quattro contro uno era uno scontro dall’esito prevedibile anche per Mr. Flicks.
    «Sei un traditore, Matt, e lo sai», urlò comunque, prima che lo portassero via.

    Non appena uno di loro si era svegliato, Courtney aveva chiesto di poterlo visitare.
    La sua paziente, una donna di trentasette anni di costituzione robusta, la fissava con uno strano senso di confusione; era normale, non la conosceva, riconosceva solo il verde della sua giacca e di solito i Veglianti non erano considerati rassicuranti.
    Armata di stetoscopio prese ad auscultarle le vie respiratorie.
    «Che ci fa lei qui?», le chiese una voce allarmata e strana, sembrava quasi che rimbombasse, ma forse era lo stetoscopio.
    «Shhh», la zittì senza voltarsi, infastidita dall’interruzione. Sentiva qualcosa di strano, come se i polmoni della donna gorgogliassero.
    «Deve uscire, l’accesso a questo reparto è autorizzato soltanto al personale…», continuò l’infermiera oppure il medico che l’aveva sorpresa.
    «Sono stata autorizzata dal primario».
    Sollevò di più la maglia della donna e studiò i segni scuri che aveva sulla pelle, sembrava che ci fosse un versamento di sangue, superficiale e limitato se la donna era ancora viva, ma quale influenza provocava emorragie interne?
    Non capiva cosa le stava sfuggendo.
    «E l’ha fatta scendere così?».
    Courtney sospirò e la fissò. «Io non capi…», si interruppe.
    «Si allontani immediatamente!», questa volta era la voce di un uomo.
    Gli occhi dei due, dietro la maschera, sembravano in preda al panico.
    Courtney sollevò le mani e fece un passo indietro, capì subito che era troppo tardi.
    La voce le era strana perché veniva dall’interno di una tuta.
    Una tuta per evitare il contagio biologico.
    Fece un passo indietro, mentre l’infermiera le diceva cose inutili come “non tocchi niente”. Aveva già toccato tutto, respirato. Non si era mai ammalata, ma quella cosa era diversa.
    Era diversa perché lì c’erano sei letti, ma Courtney ne vide mille.
    Vide piani e piani di ospedali convertiti in quarantene forzate.
    Vide pazienti morire tra le mani dei propri medici e vide medici diventare pazienti.
    Vide un mondo malato e morente.
    Si portò una mano alla bocca sconvolta: era un’epidemia che sembrava e si diffondeva come l’influenza.
    E non sapevano curarla.
    Ripensò alle cartelle, ai sintomi e la sua mente girava, vorticava e…
    Era troppo tardi.

    Becky si era data un ultimatum: se Courtney non fosse tornata prima della sei di quella stessa sera, sarebbe andata a cercarla.
    Non appena aveva visto quanto Nate fosse preoccupato per lei era tornata in camera, le aveva chiesto scusa con il pensiero ed aveva iniziato a frugare tra le sue cose. Aveva trovato una miriade di cianfrusaglie inutili: una sacca di sangue vuota, la scatola dei cioccolatini, una coppetta da gelato vuota, ma appiccicosa.
    Aveva trovato la giacca di Zach.
    Courtney l’aveva lavata, non era più sporca di sangue, ma non l’aveva ricucita. Sfiorò il taglio causato dal coltello di Romeo e le mancò la possibilità che sotto ci fosse la pelle di Zach.
    Era diventata bravissima a non guardare in quell’angolo della sua mente, ma le mancavano mole cose di lui. Le mancavano le sue mani, i suoi capelli, come la guardava quando era arrabbiato con lei; le mancava la sua voce la notte, le mancava dormire nella brandina della sua camera ed ascoltarlo raccontare cose, avventure, storie spaventose che erano la loro favola della buonanotte.
    Si portò la giacca al viso.
    Le mancava il suo odore, quella giacca sapeva del bucato sterilizzato e batteriologicamente puro di Courtney.
    Courtney.
    Posò la giacca e recuperò una lettera con l’intestazione dell’ospedale.
    Becky la lesse di riga in riga più infastidita. Trovava folle, leggero, testardo e tipicamente da Courtney, che fosse andata in ospedale da sola, consapevole di non avere né amici né alleati.
    Certo, che era nei guai, era stata così stupida da infilarsi nella tana del lupo da sola.
    Sussultò, quando aprendo la porta si trovò davanti Matt.
    «Cavolo, mi hai spaventata», sbottò, mentre lui la scostava per entrare.
    «Ti ho portato una cosa», le disse.
    «Senti, se sono le scarpe, dovranno aspettare», lo ammonì. «Hanno rinchiuso Nate, tu hai Rose e Jared è uno stupido», elencò. «Sono rimasta solo io».
    Lui gli porse due pistole. «Ho pensato che potrebbero servirti», sorrise.
    Becky le guardò, poi spostò gli occhi sul suo viso. «Matt», disse senza sapere come proseguire.
    «Le scarpe saranno pronte domani», continuò. «Domani dovrò dartele e tu dovrai metterle, perché hanno un GPS e lo sapranno se non lo fai».
    Becky prese le pistole. Quando i suoi palmi si strinsero intorno al calcio, la prima cosa che pensò di fare fu andare nella stanza di Dean e vedere come reagiva davanti ad un’arma vera. Si impose di non farlo, c’erano cose più importanti.
    «Tu lo sai che devo farlo, vero?», le chiese. «Che ti voglio bene, che sei buona e che non lo meriti, lo sai?».
    C’era una strana urgenza negli occhi di Matt, qualcosa che li rendeva sinistri. Stavano impazzendo tutti.
    «Lo so», disse. «Matt, Nate è solo preoccupato e frustrato». Allungò una mano per sfiorargli il braccio, quasi una carezza, mentre apriva la porta per uscire. «Ci pensiamo domani, d’accordo?».
    Si guardò intorno assicurandosi che il corridoio fosse deserto, prima di dirigersi verso l’ingresso.
    «Non dire a nessuno che mi hai vista».

    Ammanettata ad un termosifone, Courtney fissava il muro bianco davanti a lei.

    Milioni di letti.

    Mamma.

    Milioni di bare.

    Mamma.

    «La terremo sotto osservazione finché non saremo sicuri che non sia stata infettata».
    «Miss Williams, vuole che avvisiamo qualcuno?».
    «Mia madre. Vivian Williams».

    «Courtney».

    Non si poteva contenere l’influenza.
    Ogni anno milioni di persone si ammalavano, soffrivano il mal di pancia, si soffiavano il naso, tenevano sotto controllo la febbre e lo superavano.
    Non si curava l’influenza.
    Si cercava di prevenirla con vaccini, cure per rinforzare le difese immunitarie e rendere il corpo in grado di combatterla.

    «Courtney».

    Il primario voleva che venisse infettata.

    «Courtney, non sei stata contagiata».

    Zach.

    «Come?».
    La fissava, gli occhi verdi tra filze di capelli biondo chiarissimo.
    «Non sei stata contagiata», ripeté.


sì, Zach è diventato biondo...
è diventato super sayan...
no, ma sarebbe una figata.
ad ogni modo...
non voglio dirvi cose che potrebbero spoilerarvi altre cose in modi che non riesco a prevedere, perciò mi limiterò ad un commento random: da qualche parte avevo letto/ascoltato un servizio in cui dicevano che potenzialmente l'influenza era la malattia più resistente al mondo, perchè ci veniva ripropinata ogni autunno da sempre e per sempre. si contagia che è un amore in milioni di modi e prima o poi tutti finiamo a letto... poi mentre ci pensavo c'era il rischio ebola, che era un'altro virus... certo, l'ebola già si diffondeva in modo più complicato... però ho pensato che se l'ebola si fosse diffusa come l'influenza saremmo stati spacciati. e da lì ho creato il mio fantastico, tenero ed adorabile virus.
se ve lo state chiedendo, no, non ho iniziato a studiare medicina strada facendo... quindi, boh... potrei aver scritto e pensato una marea di stupidaggini...
ma beh...
se non posso far diventare Zach super sayan qualche libertà dovrete pure lasciarmela!

poi...
ieri la Fragolottina corp. ha affrontato il problema wattpad - chi mi segue un po' dappertutto lo sa - perchè riscontro molte richieste di pubblicazione delle mie storie sotto altri nomi, di tanto in tanto mi tocca sventare un plagio e qualche volta le persone hanno la bizzarra sensazione che quando dico "no" in realtà intenda "sì". strano vero?
dopo aver detto a Lamponella che non me la sento, al mio fidanzato che sono troppo vecchia per ricominciare su un nuovo sito, a fallsofarc che ho l'ansia, ho deciso senza alcun senso logico di sì.
quindi prossimamente le mie storie, o almeno alcune, verranno postate un po' per volta sul mio profilo lì...
EFP continuerà sempre e comunque ad essere il sito prevalente, ma penso che sia giusto marcare il territorio... oh, di fragolottina una c'è!
quindi presto troverete il link sulla mia pagina autore.
se siete anche lì, statemi vicine perchè ho l'anisa, non me la sento e sono troppo vecchia, non lasciatemi sola!

affezionatamente vostra
Fragolottina
   
 
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