Premetto che questa fic è sempli
Premetto che
questa fic è semplicemente un mio piccolo tentativo di indagare la psicologia di
Bookman Jr. e inoltre è il frutto di un mio periodo abbastanza nero, ma devo
dire che ne sono molto soddisfatta. Nella linea temporale del manga va collocata
idealmente dopo l'attacco del Livello 4, benché non abbia particolari agganci
con la trama. Spero possa piacere anche a voi.
Una piccola avvertenza: le
virgolette attorno ai nomi
«Lavi», «Jr.» e
«Dick», non sono messe a caso, ma hanno un senso che credo emerga dal complesso
della fic. In caso contrario fatemelo notare, così aggiungo una nota per
spiegarlo ^^"
Heart-Less?
Se ne stava
seduto al centro della stanza, ingombra di roba - libri soprattutto, ma anche
una collezione degli oggetti più disparati, provenienti dalle più disparate
parti del mondo, da molto lontano o anche da molto vicino.
Accanto a sé,
sul pavimento, solo un baule di legno, già pieno per metà di abiti. Abiti
dimessi, anonimi, così diversi dall’elegante divisa rossa e nera appesa
all’armadio di fronte a lui.
“Quella non ti
servirà. Non andiamo in missione per conto dell’Ordine, quindi non portarla.”
Le istruzioni
del suo mentore erano state precise e, come sempre, insindacabili. E la divisa
era rimasta lì.
Trasse un
sospiro profondo e si sdraiò sul tappeto, lasciando vagare gli occhi sullo
stucco neoclassico che decorava il soffitto della sua camera - distrattamente,
ma tuttavia memorizzandone per sempre ogni dettaglio. Perché lui era un bookman
e, come soleva ripetergli il suo maestro, chi veniva scelto per essere bookman
lo era per tutta la vita e come tale doveva comportarsi in qualunque occasione.
“Non dimenticare
mai che tu non sei «Lavi», né nessuno dei tuoi quarantotto precedenti alias, né
tantomeno puoi definirti «Dick». Tu sei semplicemente Jr., l’apprendista bookman,
e lo sarai fino alla mia morte.”
Ricordando le
parole del vecchio, il rosso sbuffò di nuovo, frustrato. Se fino a qualche tempo
prima non aveva mai trovato niente da obiettare a quel ragionamento, ultimamente
era diventato piuttosto insofferente a quella definizione di sé. Non voleva
certo abbandonare la sua identità di bookman, no di certo! (Anche perché,
ammesso e non concesso che gli fosse stato possibile… poi cosa gli sarebbe
rimasto?)
Il vero problema
era che continuare a guardare gli altri, soprattutto alcuni di loro, solo
attraverso il filtro necessariamente neutrale della storia, continuare a
considerarli per principio solo macchie di inchiostro sulla carta, per lui stava
cominciando a diventare limitativo… o meglio, impossibile. Perché sapeva fin
troppo bene che dietro quei nomi c’erano delle persone, delle vite e delle
storie (come del resto era per ognuno delle centinaia di milioni di nomi
raccolti nello sconfinato archivio dei bookman), e non era riuscito ad impedire
a quei nomi di insinuarsi oltre la corazza del trascrittore imparziale della
storia che aveva sempre indossato, fino a toccare la parte più profonda del suo
io… qualunque essa fosse.
Si coprì gli
occhi con la mano, concentrandosi su se stesso, e percepì distintamente dentro
di sé quel dualismo di cui Road aveva tentato di servirsi per distruggerlo
psicologicamente nell’Arca. In realtà il ragazzo non aveva bisogno
dell’intervento di quella maledetta bambina per riconoscere di aver cominciato a
tradire la sua missione di bookman: se n’era reso conto da solo già da qualche
tempo e comunque c’era sempre il vecchio Panda che non mancava ogni volta di
rimproverargli il suo eccessivo coinvolgimento.
Ma allora, se
lui non era più un bookman, se non era «Dick» (perché Dick non avrebbe mai fatto
quell’errore), se non era «Lavi» (perché in fondo Lavi non esisteva nemmeno), se
lui non era nessuno di questi… allora cosa diavolo era? CHI era?!
Lasciò fluire
liberamente i pensieri, i ricordi di bookman e quelli di «Lavi», ricordi che in
teoria gli era tassativamente proibito mischiare (perché gli uni erano destinati
a restare in eterno, tramandati da un bookman all’altro, mentre gli altri
semplicemente sarebbero morti con l’alias che li aveva creati) e si rese conto,
tutto sommato senza neanche troppo stupore, che sulla serie di importantissimi
dati raccolti negli ultimi tempi riguardo l’Arca, i Noah e l’akuma di Livello 4,
prevalevano nettamente i volti delle persone che avevano combattuto e rischiato
la vita in quelle battaglie.
Si lasciò
scappare una risata leggera e si tirò seduto, allacciando le braccia attorno
alle ginocchia. Non c’era storia, come bookman era veramente un disastro…
Fuori la notte
era calata già da un po’ e la stanza era ormai avvolta da una penombra densa e
calda. Gli oggetti emergevano a tratti dalle diverse tonalità di buio, come se,
in alcuni punti, un pittore distratto avesse dimenticato di dare un’altra mano
di nero sulla tela.
Ma anche in
quelle condizioni non aveva problemi a vedere e, anzi, era quasi accecato da
quella sciabola di luce biancastra che entrava dalla finestra socchiusa e si
rifletteva debolmente sulla catenella dorata che decorava la sua uniforme da
esorcista.
Si alzò e si
avvicinò all’armadio cui era appesa la divisa, mentre decine di ricordi di una
precisione fotografica gli tornavano, non richiesti eppure piacevoli, alla
mente.
Sulla scrivania
lì a fianco erano posati un paio di orecchini rossi e una lunga sciarpa dello
stesso colore, entrambi regali di Linalee. La ragazza glieli aveva consegnati il
giorno dopo che Johnny aveva finito di confezionare la sua uniforme.
“La tua solita
sciarpa arancione stonerebbe con la nuova divisa… senza contare poi che si è
tutta rovinata…” gli aveva detto lei, sorridendogli dolcemente, mentre gli
avvolgeva al collo l’interminabile serpentone di stoffa.
Lui, colto alla
sprovvista dal gesto, aveva ringraziato con un sorriso imbarazzato e una battuta
delle sue (che aveva deciso di non ricordare, forse perché troppo stupida), poi
aveva accennato ad andarsene. La ragazza lo aveva fermato stringendogli con
delicatezza un polso, e gli aveva fatto scivolare in mano una scatolina. Gli era
anche sembrato che stesse per aggiungere qualcosa, ma lei si era limitata a
sussurrare soltanto “Spero ti piacciano” e poi era scappata via. E lui era
rimasto lì imbambolato a chiedersi cosa stesse succedendo finché, dopo un
istante, alle sue spalle non aveva sentito la voce minacciosa di Komui,
infuriato per aver scorto un uomo a meno di due metri di distanza dalla sua
adorata sorellina. A quel punto al giovane era bastato un secondo per ficcarsi
in tasca il piccolo cofanetto e mettere su la sua faccia più indifferente,
sperando di sfuggire al radar infallibile del Supervisore…
Ridacchiando, si
passò una mano tra i capelli: quella volta gli era andata fin troppo bene,
perché Komui non aveva visto tutta la scena, altrimenti si sarebbe trovato a
fronteggiare uno dei suoi terribili Komurin, altro che akuma…!
Anche se,
rifletté mentre impacchettava con cura la scatolina nella sciarpa e infilava il
tutto nel baule, in fondo lui era abituato a rischiare la vita anche fuori dai
campi di battaglia. Un sorriso scemo gli si disegnò sul viso pensando ad un
certo esorcista fin troppo permaloso.
Dalla finestra
aperta sul silenzio buio del giardino, percepibile soltanto ai suoi sensi acuti
di bookman saliva il sibilo lieve e ritmico di una lama che fendeva l’aria e il
rumore cadenzato, attutito dall’erba, di falcate sempre ferme nello stesso
posto. Qualcuno si stava esercitando con la spada e il rosso conosceva una sola
persona capace di manovrarne una con tanta abilità (lo si deduceva dalla
frequenza dei passi che lo spadaccino stava eseguendo una serie di figure ad una
velocità impressionante) e abbastanza fanatica da allenarsi nel cuore della
notte.
Più per
curiosità che per bisogno di confermare la sua ipotesi si accostò al davanzale,
stando bene attento a non farsi notare. Come aveva immaginato, nello spiazzo
erboso proprio sotto la sua camera, al momento l’unica occupata ad avere una
finestra su quel lato dell’edificio, c’era Kanda, completamente immerso nel suo
allenamento. Era a torso nudo, nonostante facesse ancora un po’ fresco, come al
solito con gli occhi bendati, e si muoveva con una rapidità e un’eleganza
incredibili, la katana che scintillava sinistra nella luce fioca della luna.
Lo osservò per
qualche secondo, constatando istintivamente che, da quando lo conosceva, i suoi
movimenti erano diventati ancora più veloci e precisi e che il giapponese
eseguiva sempre la stessa serie di esercizi. Vedendolo così concentrato, con
quell’espressione terribilmente seria sul viso, non poté trattenersi oltre:
spalancò la finestra, subito notato dallo spadaccino, e si sbracciò dal
davanzale.
“Ehi,
Yu-chaaaaan! Come va l’allenamento?”
Gongolò nel
vedere Kanda irrigidirsi, togliersi di scatto la benda dagli occhi e voltarsi
rapidissimo verso di lui, con la spada puntata e un’espressione omicida sul
viso.
“Sparisci
immediatamente, stupido coniglio! E non chiamarmi per nome!”
“Ma Yu-chan, io
volevo solo essere gentile!” protestò, con voce fintamente piagnucolosa.
“Eclissati. O ti
faccio a fettine”
Sghignazzando
(ma non troppo, perché con Kanda non c’era mai da stare completamente
tranquilli), il rosso richiuse in fretta la finestra e ci si appoggiò contro.
Con Yu era sempre tutto così divertente… soprattutto perché con lui era sempre
tutto semplice, sapeva perfettamente cosa aspettarsi quando lo provocava. E
anche se quando esagerava a volte rischiava la pelle, avrebbe tanto voluto che
tutto fosse sempre come con Yu.
La sua
espressione si rabbuiò. La vita invece era sempre così dannatamente
imprevedibile e lui, specie in quel momento, era stanco di non sapere mai cosa
gli avrebbe riservato il domani. Di non sapere dove lo voleva portare il vecchio
Panda né perché, di non sapere se e quando sarebbero tornati, o se era giunto
per «Lavi» il momento di sparire per lasciar posto al suo 50esimo alias…
Prese un respiro
profondo e scosse la testa per cercare di allontanare almeno un po’ quei
pensieri cupi. Dopo qualche istante passato con gli occhi chiusi e la testa
rovesciata contro il vetro, si staccò dalla finestra: c’era un’altra cosa che
voleva portare con sé. L’aveva nascosta sul fondo del cassetto della scrivania,
là dove Bookman Sr. non l’avrebbe trovata (anche perché in quel caso era la
volta buona che lo diseredava sul serio). Frugò in mezzo ad un mucchio di fogli,
relazioni cominciate e mai finite, documenti più o meno preziosi, carte e
disegni e alla fine la vide: un cordino di nappa bianca intrecciata, con alle
estremità delle perline di legno blu intagliato. Era il nastro di cui si serviva
Kanda per stringere la lunga coda corvina, l’unico vezzo che si concedeva quel
ragazzo apparentemente così glaciale e indifferente. Il rosso sogghignò
ricordando quando gliel’aveva preso di nascosto, una sera che non aveva fatto
altro che tormentarlo giocando con i suoi capelli… aveva rischiato davvero
grosso quella volta!
La cordicella
teneva insieme un eterogeneo pacchettino, composto da tutti oggetti che, fatta
eccezione per un malandato pamphlet, in teoria non avrebbero dovuto trovare
posto tra le memorie di un bookman: una carta da gioco stropicciata, un
pennarello e uno strano fiore essiccato. Con un sorriso, il giovane estrasse
l’involto e sciolse il nodo, mentre i visi delle persone cui quegli oggetti
erano appartenuti o erano legati si disegnavano vividi davanti ai suoi occhi.
Lasciò libera la mente di spaziare tra tutti i ricordi collegati a quei tre,
Allen, Kanda e Crowley, mentre percepiva vivamente il cuore di «Lavi» (perché il
suo 49esimo alias si era macchiato dell’eresia di averne uno) lottare per
affermare il suo diritto ad esistere, contro la ragione di «Jr.» che invece
voleva soltanto fare tabula rasa, per prepararsi ad indossare la prossima
maschera e continuare la sua missione assieme al vecchio. E lui, il vero se
stesso cui non sapeva dare un nome, che non era più Dick e non era ancora
Bookman, assisteva impotente e si illudeva, con piena coscienza di farlo, che
forse «Lavi» non era certamente destinato a soccombere.
“Non voglio
rassegnarmi a sparire così…” disse a mezza voce «Lavi», rigirandosi tra le dita
la carta da gioco, macchiata di sangue. Quello era il sangue di Allen e
quell’asso di picche il rosso l’aveva raccolto dove il giovane esorcista aveva
quasi trovato la morte per mano di un Noah.
Subito la sua
mente allenata gli fornì ogni dettaglio di quell’evento, da quando lui e Linalee
erano giunti sul posto e non avevano rinvenuto il corpo dell’inglese, fino alla
rivelazione sconvolgente, avuta sulla cima della torre centrale dell’Arca, che
Walker era vivo solo grazie alla sua Innocence. «Lavi», al pensiero di quanto
l’amico avesse rischiato in quell’occasione, si sentì dapprima rabbrividire poi
invadere dalla rabbia nei confronti di Tyki Mikk, ma nello stesso tempo
rimproverava al suo stesso cuore quei sentimenti… perché sapeva di non doversi
far coinvolgere troppo, e sentiva «Jr.» biasimarlo, e vedeva sullo sfondo un
ragazzo con i capelli ramati e gli occhi smeraldini sempre più confuso e
spaventato.
“Se Allen è vivo
grazie ad un evento mai visto prima, quasi un miracolo, perché non dovrebbe
poter essere lo stesso per me?” sussurrò «Lavi», mentre «Jr.» gli ripeteva che
lui non poteva pensare di poter sopravvivere, perché in fondo nemmeno esisteva,
ma era solo una proiezione verbale, un nome, una facciata.
“Perché non si è
mai sentito di un alias che è stato mantenuto anche dopo il termine della
missione per cui è stato creato. Non essere ingenuo, «Lavi»…” si ammoniva da
solo “…quando «Dick» divenne l’apprendista del vecchio Panda venne avvertito di
cosa avrebbe comportato essere un bookman e lui accettò tutte le condizioni.
Adesso non puoi pretendere di cambiare le regole del gioco.”
«Lavi» corrucciò
il viso in una smorfia di disappunto, mentre riponeva l’asso di picche tra le
pagine del vecchio pamphlet. L’occhio gli cadde sul titolo del libretto e un
sorriso sghembo gli passò sulle labbra: era un’opera che parlava dei metodi
empirici per individuare i compatibili con l’Innocence. L’aveva cercata nella
biblioteca dell’Ordine dopo aver scoperto le vicende quantomeno particolari che
avevano fatto del barone Aleister Crowley III un esorcista.
Ridacchiò al
ricordo di lui e Allen intenti a fare dichiarazioni d’amore alle piante
carnivore del castello per blandirle e non farsi divorare e il pensiero
contribuì a rilassarlo leggermente.
Quando poi
rivide le espressioni di Bookman mentre gli faceva rapporto sulla missione, la
sua risata divenne più aperta. Sfilò delicatamente il fiore essiccato dal libro
e se lo sollevò davanti agli occhi.
“Aishiteru!”
esclamò con aria ispirata, imitando il se stesso di quel giorno. Si rendeva
conto da solo di quanto fosse ridicolo, ma non gliene importava nulla. Fin da
quando «Dick» era diventato «Jr.» (ma forse anche da prima), non aveva più riso
così tanto come dal giorno in cui la sua missione gli aveva imposto di
cominciare a farsi chiamare «Lavi».
«Lavi»: quel
nome, quella proiezione di persona cui lui e il maestro avevano deciso di dare
un carattere allegro e gioviale, sempre pronto alla battuta e allo scherzo.
«Lavi»: quella maschera che per il ragazzo dai capelli ramati e gli occhi
smeraldini era stata fin da subito così semplice da indossare, molto più delle
altre quarantotto (forse perché era simile alla sua reale natura?), e che col
tempo si era fatta sempre più concreta…
In fondo, ora
cosa aveva «Lavi» di diverso da una persona vera? Si spostò di un paio di passi,
fino a mettersi davanti allo specchio. Come tutte le persone di questo mondo,
«Lavi» aveva un corpo, una mente, un’anima… e un cuore, come li aveva il se
stesso di un tempo, prima che «Dick» diventasse «Jr.»… come doveva averli anche
il vecchio Panda: perché nessuno poteva venirgli a raccontare che si era
sbagliato nel leggere il sollievo sul volto del suo mentore quando l’aveva visto
uscire praticamente incolume dall’Arca. Eppure il vecchio Panda era un bookman.
Dietro quel trucco pesante che lo trasformava da fragile anziano a custode delle
memorie del mondo, c’era una persona con un cuore, ne era certo… allora perché
lui, «Lavi», doveva scomparire, tornare ad essere soltanto «Jr.»?
Perché «Jr.» non
poteva diventare per sempre «Lavi» e «Lavi» un giorno diventare Bookman? In
fondo, dipendeva tutto da quel trucco pesante… era solo una maschera,
l’ennesima.
Senza smettere
di guardarsi negli occhi, cercò a tastoni sulla scrivania il pennarello con cui
tante volte aveva pasticciato il viso di Allen e Kanda (quanto aveva riso «Lavi»
in quelle occasioni!). Quando disegnava iridi rotonde sugli occhi allungati del
giapponese o grossi baffi neri sul volto glabro dell’inglese, i suoi compagni
assumevano sì un aspetto diverso, ma erano sempre loro…
Allora perché
non poteva essere così anche per lui? Stappò il pennarello e si tracciò un ampio
cerchio attorno all’occhio libero dalla benda; esitò un istante, poi lo colorò
di nero all’interno. Completata l’opera, rimase a fissare per qualche istante il
suo riflesso nello specchio, quindi abbozzò un sorriso.
“Ora sono Lavi e
sono un bookman.”
“Cosa stai
facendo conciato così, idiota d’un apprendista?” Una domanda secca, posta con
tono indefinibile.
Si voltò di
scatto verso la porta e vide il maestro osservarlo severo, le mani infilate
nelle ampie maniche della casacca di foggia orientale che indossava. Nonostante
la piccola statura e l’apparente fragilità, in quel momento per il rosso quel
vecchietto era più temibile di un esercito di akuma, perché sapeva benissimo che
una sua sola parola poteva distruggerlo. Decise di servirsi ancora una volta
della sua maschera (pur senza sapere quanto ancora potesse chiamarla così) e
nascose ogni reazione dietro un ampio sorriso.
“Ehi, vecchio!
Cosa ci fai qui? Non ti ho sentito arrivare…”
“L’avevo
notato.” replicò impassibile l’altro. Poi dopo una brevissima pausa soggiunse:
“E ti ripeto la domanda, Jr.: cosa stai facendo conciato così? Hai già
dimenticato che dobbiamo partire?”
Era un
interrogativo assolutamente retorico (un bookman non dimentica mai nulla) ma il
rosso non si prese la briga di farlo notare al maestro, come invece avrebbe
fatto in un’altra occasione, troppo concentrato sull’appellativo che questi gli
aveva rivolto: l’aveva chiamato «Jr.». Non «Lavi», né «allievo»… e questo non
gli piaceva per niente.
Il sorriso
scomparve e sul suo volto si disegnò un’espressione mortalmente seria,
accentuata dalla macchia nera che gli circondava l’iride.
“Da quanto tempo
sei qui, vecchio?”
“Abbastanza per
rendermi conto con rammarico che, dopo tutti questi anni, non hai capito nulla
di cosa significa essere un bookman. Credi davvero che per diventare il mio
erede basti dipingersi la faccia?”
Il giovane
abbassò il capo, ferito dall’asprezza di quel rimprovero ma consapevole della
stupidità di quel che aveva fatto, pur senza essere disposto a rinnegarlo. Non
sapeva se il maestro si aspettasse delle risposte al quesito che gli aveva posto
e comunque lui non era intenzionato a dargliene una. Sempre sotto lo sguardo
indagatore del vecchio, iniziò a riannodare la cordicella di nappa attorno al
libretto, senza dire una parola.
“Dimmi Jr.,
quale ti ho sempre insegnato essere la condizione fondamentale per diventare un
buon bookman?”
Al sentirsi di
nuovo chiamare «Jr.», il rosso scattò. “Il mio nome è «Lavi»! Io sono Lavi, non
«Jr.»!”
Bookman Sr.
sembrò non sentire nemmeno l’obiezione. “Rispondimi!”
Davanti a quella
voce autorevole, il più giovane decise di arrendersi. Si girò verso il maestro e
lo fissò dritto negli occhi, stringendo i pugni per imporsi di mantenere la
calma. “Un bookman non deve avere sentimenti, perché questi potrebbero
influenzare la sua opera di trascrittore imparziale della storia.” Vide l’altro
annuire gravemente e, dopo qualche istante, riprese con foga crescente “Vecchio,
io lo so di aver sbagliato facendomi coinv-…”
“Non è di questo
che dobbiamo discutere, Jr.”
Il ragazzo si
bloccò. L’affermazione del maestro l’aveva sorpreso così tanto da sorvolare
persino sul fatto che per l’ennesima volta l’avesse chiamato «Jr.». Lo osservò
chiudersi lentamente la porta della stanza alle spalle, avvicinarsi a lui e
quindi superarlo, lanciando solo un’occhiata distratta al pacchetto chiuso con
il cordino di Kanda. Quando fu accanto alla finestra, Bookman voltò appena il
capo verso di lui.
“C’è una cosa
che è giunto il momento che tu sappia, anche se avrei preferito che la capissi
da solo, stupido allievo. Non è vero che ai bookman è proibito avere dei
sentimenti. Semplicemente chi si fregia di questo nome deve avere sufficiente
padronanza di sé da impedire ad essi di interferire con il proprio lavoro ed
essere sempre pronto a cancellarli o metterli da parte nel caso in cui la
situazione lo richieda.”
Quando Bookman
tacque, il rosso impiegò qualche istante per capire tutta la portata di quelle
parole. Ma appena se ne rese conto, esplose. “Maledetto vecchiaccio, perché non
me l’hai mai detto?! Mi volevi costringere a rinunciare a tutto quando sarebbe
bastato che tu mi dicessi le cose come stavano! Perché mi hai raccontato questa
balla per anni?”
“È il tuo stesso
comportamento a darti la risposta, Jr.” rispose pacatamente l’altro,
indifferente alla sfuriata dell’allievo “Da quando siamo arrivati qui e più
ancora questa sera, «Lavi» mi ha dimostrato che non saresti stato in grado di
gestire le responsabilità derivanti dalla consapevolezza di poter avere dei
sentimenti, quindi ho ritenuto fosse meglio non mettertene al corrente.”
Di nuovo, le
parole calme ma taglienti dell’anziano ebbero il potere di gelare il giovane sul
posto. “E allora perché dirmelo adesso?”
“Vedi Jr., i
bookman sono come il vento: sono ovunque in questo vasto mondo, toccano tutto
senza essere toccati, vedono senza essere visti e non possono essere
imprigionati da nessuno. Il vento è libero, scivola sulle cose e non si ferma
mai, né porta qualcosa con sé per sempre.” Il vecchio si avvicinò alla
scrivania, raccolse il pamphlet legato dalla cordicella e lo mostrò all’allievo.
“Il fatto che tu abbia deciso di portare con te questi oggetti, mi ha convinto a
dirti la verità, prima che tu ti allontanassi irrimediabilmente dal cammino che
ogni apprendista bookman deve percorrere.”
Il ragazzo lo
fissò, incerto su come interpretare le parole del maestro. Prese dalla sua mano
il libro, non trovando però la forza né di deporlo nuovamente nel cassetto della
scrivania né di metterlo assieme ai suoi bagagli. “Vecchio, io voglio continuare
ad essere «Jr.», il tuo allievo, ma non voglio essere costretto a cancellare i
ricordi di «Lavi»…”
“Allora fa’ in
modo che «Jr.» diventi «Lavi» e che quei ricordi non interferiscano con il tuo
dovere di testimone della storia.”
A quelle parole,
un sorriso iniziò ad allargarsi sul volto di Lavi mentre riponeva con cura il
libretto nel baule, avvolgendolo nella sciarpa.
Il vecchio
maestro lo guardava con un’espressione indefinibile negli occhi, cerchiati dal
pesante trucco nero, e un accenno di sorriso sulle labbra. Ad un tratto
corrucciò il viso, come se si fosse ricordato all’improvviso di qualcosa di
importante.
“Ah un’altra
cosa, Lavi…”
L’interpellato
tirò fuori la testa dal baule e inarcò le sopracciglia “Che c’è, Panda?”
“Portami
rispetto, stupido apprendista! E soprattutto togliti quella schifezza dalla
faccia!”
Bookman Sr. se
ne andò scocciato, borbottando qualcosa sulla stupidità del suo allievo, ma un
occhio attento avrebbe notato che, sotto quel fare scorbutico, l’anziano
esorcista sorrideva.
Rimasto solo,
Lavi tornò a guardarsi nello specchio, considerando tra sé che in effetti, più
che un bookman sembrava la vittima di un pestaggio, con quella chiazza scura
attorno all’occhio. Ma, nonostante tutto, non aveva nessuna voglia di ripulirsi.
“Dovrai imparare
a truccarti un po’ meglio in vista di quando diventerai Bookman, eh Lavi?” disse
al suo riflesso sorridente nello specchio, ravvivandosi i capelli e legandosi la
bandana nera sulla fronte. “Beh Jr., tutto sommato ho ancora parecchi anni
davanti per farlo… il vecchio Panda è decisamente coriaceo, lo sappiamo
entrambi!”
Sogghignando
diede un’ultima occhiata alle sue cose raccolte nel baule, poi lo chiuse e se lo
caricò sulle spalle, affrettandosi a raggiungere il maestro che di sicuro già lo
stava aspettando per partire. Adesso non gli interessava più sapere dove il
vecchio lo volesse portare né perché, né era un problema non sapere quando
sarebbero tornati. Perché adesso era sicuro che «Lavi» non era destinato a
sparire con tutti i suoi preziosi ricordi e che avrebbe avuto per sempre una
Casa cui fare ritorno.
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