Capitolo
4
Lo
svegliò la luce dell’alba, che filtrava ancora fioca all’interno
della grotta. Non aveva fatto la guardia, ma probabilmente in quel
luogo gelido e inospitale essa era la minore delle negligenze.
Il
fuoco era spento da tempo, ma la presenza dei tre cavalli aveva
comunque riscaldato il piccolo ambiente.
Wieland
era ancora contro di lui, il capo appoggiato al suo petto, i capelli
a coprirgli il volto. Lo toccò constatando con sollievo che era
tiepido.
Con
insospettata dolcezza gli scostò le morbide ciocche corvine dal viso
e gli accarezzò una guancia. Gli posò un delicato bacio sulla
fronte. A quel tocco il giovane principe aprì gli occhi. Sulle prime
parve piuttosto stupito di trovarsi nudo e abbracciato al corpo
parimenti nudo del suo capitano delle guardie, poi lentamente gli
tornarono in mente gli ultimi avvenimenti. “Il lago era
ghiacciato…” mormorò, “stavo annegando…”
“Perdonami,
ma saresti morto di freddo se non avessi fatto così.”
“Perdonarti?
Mi hai salvato la vita, Aldric.”
“L’avrei
fatto a prezzo della mia, se fosse stato necessario.”
L’altro
lo fissò colpito, poi appoggiò nuovamente il volto sul suo petto.
Evitando di guardarlo sospirò: “Ma poi chi avrebbe badato a me
fino al Palazzo dell’Eterno Dolore?”
“Sai
badare a te stesso.”
“Non
è vero. Senza di te non sarei nemmeno uscito vivo dal Cadwald. Non
saprei dove accamparmi, come preparare i giacigli per la notte, o
come sellare il cavallo senza fargli venire una fiaccatura sul
garrese.”
“Tu
sei un principe, non ti serve sapere queste cose.”
“Ecco
perché ho bisogno di te.”
La
frase fu seguita da un lungo silenzio, poi Wieland alzò gli occhi
dorati fino a fissarli in quelli celesti di Aldric. “Non
lasciarmi,” mormorò in un soffio.
L’altro
gli prese il volto fra le mani. Lo baciò di nuovo sulla fronte, però
non disse nulla. Il suo sguardo era appassionato ma carico di una
struggente amarezza.
Subito
dopo si sciolse dall’abbraccio e si alzò. “Sarà meglio che ci
prepariamo a partire,” disse con voce dura.
Nei
giorni successivi abbandonarono le nevi eterne dei Monti Vjelen per
addentrarsi nella desolazione del Morvynnet. La regione, quanto mai
selvaggia e inospitale, era essenzialmente una pianura che si perdeva
all’orizzonte, coperta di radi arbusti spinosi e disseminata di
pietre dai bordi taglienti. Ogni tanto vi erano degli avvallamenti,
lunghi e stretti come canali, nei quali si immaginava potessero
passare corsi d’acqua in un’ipotetica stagione delle piogge, ma
che comunque erano secchi e polverosi al pari del resto.
Gli
unici abitanti della zona, per quanto Aldric ne sapeva, erano i
Morvan, un popolo nomade dedito alla caccia e alla pastorizia, ma che
non disdegnava la razzia qualora se ne presentasse l’occasione.
Poiché normalmente attaccavano solo se in superiorità numerica di
almeno venti a uno, era di vitale importanza evitare ogni contatto.
Per
giorni comunque non incontrarono anima viva. Sembrava che neppure gli
animali vivessero nel Morvynnet, gli unici suoni che si udivano erano
il sibilo del vento e qualche raro grido di rapace.
All’inizio
vi era anche qualche sorgente d’acqua, ma procedendo verso la Valle
dei Lamenti esse si erano fatte sempre più rare, e l’acqua al loro
interno sempre più fetida e contaminata.
Nessuno
dei due aveva più fatto allusioni a quello che era successo nella
grotta. Per la verità, non avevano praticamente più parlato. Col
passare dei giorni Aldric si era fatto sempre più cupo e capitava
spesso che cavalcasse qualche lunghezza avanti a Wieland, come per
fargli capire che non desiderava essere interpellato.
Questo
naturalmente dispiaceva al principe per più di una ragione, non
ultima quella che avrebbe voluto sfruttare le conoscenze del capitano
della guardia sulla Valle dei Lamenti. Aveva sentito dire molte cose
su quella morta contrada e nessuna di esse rassicurante.
Si
narrava per esempio che quel luogo maledetto fosse popolato di mostri
che non erano né vivi né morti e che il Palazzo dell’Eterno
Dolore potesse essere trovato solo spargendo il sangue di qualcuno
che fosse nobile e intrepido, ma soprattutto disposto a morire per
amore. La leggenda non specificava però come dovesse essere
utilizzato tale prezioso fluido per trovare la dimora del Signore dei
Morti.
La
verità era che nessuno era mai stato nella Valle dei Lamenti ed era
tornato per raccontare ciò che aveva visto, quindi Wieland non
sapeva neppure se augurarsi di essere sufficientemente nobile e
intrepido per riuscire nell’impresa.
La
Valle dei Lamenti fu infine raggiunta. Aldric e Wieland si fermarono
prima di discendervi, fissandola con sgomento. Per quanto il
Morvynnet fosse desolato e inospitale, esso sembrava un giardino al
paragone del luogo che i due giovani stavano con orrore contemplando.
L’aria era resa opaca da esalazioni fetide e tutt’intorno vi era
uno sterile ribollire di fanghi. Dove era più solido, il terreno era
solo una crosta screpolata e polverosa, nella quale non avrebbe
attecchito neppure la più disperata delle piante.
Erano
ancora fermi sul ciglio della discesa che menava a quella desolata
miseria quando Aldric notò dei movimenti all’orizzonte. Subito li
indicò a Wieland, che li scrutò a sua volta preoccupato.
“Arriva
qualcuno,” disse poi il principe.
“Lo
vedo,” ringhiò l’altro, “e non è una buona cosa.” Valutò
rapidamente il da farsi. Quelli in avvicinamento erano senza dubbio
Morvan, il che significava che entro breve si sarebbero trovati
addosso una torma di guerrieri urlanti armati di archi e lance. Non
che quel popolo fosse composto da combattenti di valore, anzi
tendevano piuttosto alla viltà, ma una sproporzione di venti a uno
aveva comunque il suo peso.
“Abbiamo
un’unica possibilità,” disse infine, “li dobbiamo attaccare
noi per primi e fare più morti possibile, sperando che si spaventino
e preferiscano rinunciare alla cattura di due prede troppo ostiche.”
“Non
credi sia meglio andare subito nella Valle dei Lamenti? Secondo me
non oseranno seguirci lì dentro.”
“Vuoi
trovarteli addosso quando uscirai con Lady Amilda al seguito?”
“No,
certo che no,” rispose il principe senza esitazione.
“Allora
tira fuori la spada e seguimi.”
Ora
i Morvan erano più vicini. Erano un’accozzaglia disordinata di
uomini scuri su piccoli cavalli dal pelo ispido. Non sembrava neppure
esserci un capo, davano piuttosto l’impressione di un branco di
belve che si sarebbero azzuffate anche fra di loro una volta
abbattuta la preda, per accaparrarsi i pezzi migliori.
Aldric
spronò il grande destriero da battaglia, che subito balzò in avanti
con un nitrito. Sapeva che Wieland era alle sue spalle, ma sperava di
distanziarlo almeno di qualche lunghezza, in tal modo sarebbe stato
lui il primo ad impegnare i Morvan in combattimento.
Arrivò
sui nemici al galoppo sfrenato, incurante delle frecce, che
rimbalzavano sulla sua cotta di maglia e sulla corazzatura pettorale
del cavallo. Travolse quelli che gli si erano fatti incontro per
fermarlo ed entrò direttamente in mezzo alla torma di cavalieri. Il
primo che osò opporglisi cadde a terra decapitato di netto, un altro
fu abbattuto con un fendente, il terzo perì passato da parte a
parte, ma già l’orda che al suo arrivo si era dispersa urlando si
stava stringendo inesorabile intorno a lui.
Wieland,
che era rimasto più indietro, si era accorto della cosa. Per quanto
possibile cercò di impedirlo, in modo che l’altro avesse comunque
una via aperta per la ritirata.
Si
scatenò una battaglia violentissima. Furiosi per non riuscire a
prevalere su due soli avversari, i Morvan li attaccavano con impeto
suicida, finendo talvolta per essere abbattuti per troppa brama di
colpire i più forti antagonisti.
Come
Aldric aveva previsto, però, dopo un po’ si videro i primi
cavalieri spostarsi ai margini della mischia abbandonando la contesa.
Alcuni addirittura misero gli animali al piccolo galoppo e tornarono
da dove erano venuti, ritenendo evidentemente il valore della preda
sproporzionato allo sforzo effuso per conseguirla.
In
breve non restarono che pochi Morvan a combattere, sfortunatamente i
più forti e i più esperti.
Ve
n’era uno particolarmente robusto. Aveva il volto coperto di
tatuaggi, un segno di valore presso la sua gente, e portava una rozza
lorica di cuoio decorata con punte di freccia e artigli d’animale.
Stringeva in pugno un giavellotto dalla lucida punta di metallo.
Avanzò
al piccolo trotto, Aldric s’accorse con orrore che stava puntando
verso Wieland. Il principe non poteva vederlo, e anche se l’avesse
visto aveva altri due nemici che lo stavano impegnando in
combattimento. Sarebbe stato trafitto.
In
un attimo si liberò dei suoi antagonisti, quindi spronò il cavallo
per raggiungere Wieland. In quello stesso momento il Morvan tirò il
giavellotto. C’era solo una cosa che Aldric potesse fare, e la
fece: si parò davanti al principe.
Lanciata
con forza terribile, l’arma gli penetrò nel petto per almeno
quattro dita, squarciando la cotta di maglia e l’imbottita come
fossero state di carta.
Il
capitano delle guardie riuscì a strapparsi via la lancia e ad
abbattere con un fendente colui che l’aveva colpito, poi continuò
a combattere apparentemente come se niente fosse.
In
breve i due rimasero padroni del campo. I Morvan superstiti avevano
preferito fuggire abbandonando i loro morti sul terreno, e di certo
non sarebbero tornati tanto presto a recuperarli, se mai l’avrebbero
fatto.
Wieland
li seguì brevemente con lo sguardo mentre si allontanavano al
galoppo, poi si voltò soddisfatto verso Aldric. Questi, che aveva
ancora la spada in pugno, fece per riporla, ma mancò il fodero e
l’arma incrostata di sangue cadde a terra.
Mentre
il principe osservava stupito l’insolito fenomeno, il capitano
delle guardie crollò giù da cavallo e rimase al suolo immobile.
“Aldric!”
esclamò Wieland angosciato. Si precipitò accanto a lui e lo fissò
ansioso. Egli giaceva privo di sensi dov’era caduto, aveva il petto
coperto di sangue e il volto mortalmente pallido. Dall’angolo della
bocca un rivolo scarlatto gli scendeva lungo il mento.
“Aldric!”
chiamò ancora, sempre più disperato, “Aldric, non lasciarmi, ti
prego!” Sentì le lacrime scendergli copiose lungo le guance. Era
sgomento all’idea che lui morisse. No, era più che sgomento: era
annientato.
Con
mosse febbrili gli scoprì il petto, mettendo a nudo la ferita
sanguinante. Essa era vicino al cuore, ma per qualche miracolo non
l’aveva ucciso. “Grande Aunus, ti ringrazio,” mormorò. Corse a
prendere la sua scorta di sostanze medicamentose, le applicò sulla
piaga affinché fermassero il sangue, poi le coprì con le bende.
Quando ebbe fatto tutto ciò che poteva dal punto di vista pratico,
giunse le mani ed invocò piangendo il Sommo Edgewen, Padre delle
Battaglie, affinché risparmiasse la vita di Aldric.
Terminata
che ebbe la preghiera, si voltò a guardare il ferito e non poté
trattenere un’esclamazione di stupore. Ecco cos’aveva al collo,
ora lo vedeva bene.
E
ricordò.
Era
l’ultimo giorno che lui e Aldric passavano insieme. L’indomani
infatti l’amico sarebbe partito per Ermyn Goter, dove sarebbe
divenuto un guerriero seguendo la Via dell’Acciaio.
Aldric
aveva un ciondolo al collo, un oggetto particolarmente caro dal quale
non si separava mai. Era una misera medaglietta di metallo, niente di
prezioso, ma aveva il valore inestimabile della conquista. Egli
infatti l’aveva strappata dalle corna di un toro da combattimento
con una prodezza che gli era quasi costata la vita.
In
quell’ultimo giorno insieme se l’era tolto e gliel’aveva
solennemente consegnato. “Tieni questo,” gli aveva detto con
espressione grave, “così ti ricorderai di me.”
Non
potendo fargli dono di un oggetto altrettanto prezioso, lui gli aveva
dato in cambio una catena d’oro con un ciondolo che rappresentava
un cavaliere, dono di suo padre per aver fatto non ricordava neanche
più cosa.
E
comunque da quel giorno non s’era più tolto dal collo il ciondolo
di Aldric, non abbandonandolo neppure nelle occasioni ufficiali, dove
esso aveva fatto bella mostra di sé, sopra i gioielli che per rango
e nascita gli spettava portare.
Poi
era arrivata Lady Amilda. Aveva voluto conoscere la storia di quel
modesto ornamento dal quale il suo promesso sposo non si separava
mai, e saputala aveva decretato che l’oggetto fosse troppo prezioso
per rischiare di perderlo. “Potrebbe slacciarsi,” aveva detto,
“potrebbe cadere senza che tu te ne accorga. Dallo a me, amore mio,
te lo conserverò gelosamente.”
Lui
aveva rifiutato. Quello era un regalo che il suo amico Aldric aveva
fatto a lui.
Voleva essere lui a custodirlo.
Lady
Amilda aveva pianto, come solo lei sapeva fare. “Io lo faccio per
te” aveva detto fra le lacrime “voglio solo che tu sia felice con
me. Restituisci quel brutto ciondolo, dimentica ciò che è stato.
Ora ci sono io, e ti donerò mille ornamenti più belli di quello.”
E
lui aveva ceduto. L’aveva restituito ad Aldric. L’aveva chiamato
mio bravo capitano
mentre lo faceva, e aveva evitato di guardarlo in faccia. Poi non si
erano più parlati. Forse non ce n’era più stata l’occasione. Un
principe non parla col capitano delle guardie, sono cose che
competono al Re.
E
adesso quel ciondolo era lì, al collo di Aldric, infilato in un
laccio di cuoio assieme al ciondolo d’oro a forma di cavaliere.
Aldric
riprese i sensi poco dopo. Aprì gli occhi e vide Wieland chino su di
lui, che lo fissava con espressione preoccupata. “Come stai?”
chiese subito il principe.
“Sarà
meglio che andiamo,” disse il capitano per tutta risposta.
“Ma
sei ferito!”
“Appunto,
non c’è tempo.”
“Che
significa? Non possiamo entrare nella Valle dei Lamenti con te in
queste condizioni. Devi riposare, devi riprenderti.”
“Dobbiamo
andare,” replicò l’altro caparbio, “dammi solo una mano a
salire a cavallo.”
“Ma
Aldric…”
“Non
discutere!”
Wieland
andò a prendere i destrieri senza aggiungere altro. Aiutò Aldric a
montare in sella, quindi si diressero verso la Valle dei Lamenti.
Visto
da vicino, il luogo che si trovarono ad attraversare era al di là di
ogni descrizione: non vi era altro che miasmi venefici, fango
ribollente ed incrostazioni che tingevano la terra screpolata di un
innaturale colore biancastro. Schermata dai fumi, la luce del sole
non giungeva fino al fondo della Valle, che quindi era sempre gravato
di una densa caligine grigiastra. L’aria era piena degli sfiati dei
geyser e del rumore sordo delle bolle di fango che scoppiavano
liberando nuvole di gas velenoso.
Per
quanto poterono, i due avanzarono a cavallo. Poi, quando il terreno
si fece troppo accidentato, essi abbandonarono gli animali e si
mossero faticosamente a piedi.
D’un
tratto emersero dalla nebbia delle forme scure. Sembravano tozzi
pilastri approssimativamente disposti in cerchio. Wieland avanzò
lentamente in quella direzione sostenendo Aldric, che ormai camminava
con fatica appoggiato alla sua spalla.
“Vuoi
riposarti?” gli chiese preoccupato, fissando il suo volto pallido e
teso.
“No,
andiamo avanti.”
I
pilastri si rivelarono essere statue di pietra nera dalla forma
vagamente umana. Dovevano essere molto antiche, perché la loro
superficie era ruvida e corrosa. In alcuni punti erano talmente
consunte che era rimasto solo un abbozzo dei tratti che un tempo
dovevano averle caratterizzate.
Nello
spiazzo che esse delimitavano vi era un pavimento sempre di pietra
nera coperto di simboli sconosciuti.
Wieland
lo fissò perplesso, chiedendosi in quale direzione si trovasse il
Palazzo dell’Eterno Dolore. Senza un’indicazione avrebbero potuto
trascorrere giorni ad aggirarsi inutilmente in quella caligine
malsana.
Aiutò
Aldric ad appoggiarsi ad una delle statue, poi fece qualche passo lì
intorno alla ricerca di qualche indizio. Ad un trattò percepì una
possente vibrazione sotto i piedi, poi udì un lento raschiare di
pietra su pietra. Si voltò e vide che nel pavimento era comparsa
un’apertura rettangolare. Da lì partivano delle scale che si
perdevano nel buio verso il basso.
“Com’è
possibile?” chiese stupito.
“Non
ne ho idea.” Ripose l’altro esausto.
“Non
importa, credo che il Palazzo sia qui sotto.”
“Allora
non perdiamo tempo.”
“La
tua ferita ha ricominciato a sanguinare.”
“Lo
so.”
La
scala era larga, con ampi gradini di pietra nera, ed era meno buia di
quanto i due si sarebbero aspettati. Vi erano infatti strane
fiammelle verdastre che tremolavano lungo gli scalini muovendosi come
dotate di vita propria. La luce che emettevano era fioca, ma
sufficiente ad illuminare il cammino.
I
due discesero molte rampe, poi si trovarono su una superficie
pianeggiante all’interno di quello che a giudicare dagli echi e
dalla temperatura dell’aria doveva essere un locale ampio e dal
soffitto alto.
Tutt’intorno
a loro vi era un inquietante tramestio denso di sussurri.
“Che
cos’è?” chiese Wieland cercando di penetrare con lo sguardo
l’oscurità picea che li circondava. La sua voce echeggiò come
riverberata da volte gigantesche.
“Sono
i morti. Vengono a vedere chi siamo.”
“Come
fai a saperlo?”
“Guarda
tu stesso.”
Il
principe osservò con attenzione ed in effetti appena i suoi occhi si
furono abituati al buio vide centinaia di piccoli globi che emanavano
una lattiginosa fosforescenza. Essi brillavano nel cavo di orbite
vuote, in volti di cui ormai rimanevano solo le ossa.
“Sarà
meglio muoversi,” disse cercando di evitare quegli sguardi vuoti ma
carichi di avidità e rimpianto.
A
quelle parole i morti sembrarono disporsi in modo da lasciare libero
solo un corridoio, così che Aldric e Wieland si trovarono a muoversi
fra due file di occhi fosforescenti, accompagnati da sussurri e
scricchiolii d’ossa.
Avanzarono
in questo modo per parecchio tempo, sempre scortati dalla torma
silenziosa attraverso freddi saloni dalle immani volte di pietra.
Giunsero
infine ad una stanza più grande delle altre. Essa era anche più
illuminata, perché nugoli di fuochi fatui vagavano senza posa sul
suo pavimento, che era nero e lucido come giaietto.
Al
centro della grande sala vi era un trono, nero al pari del resto e
pesantemente scolpito. Dinnanzi al trono vi erano due splendidi
sarcofagi riccamente ornati: uno era di marmo bianco e sul coperchio
vi era una magnifica scultura che rappresentava una fanciulla
dormiente, l’altro era di pietra grigia e il suo coperchio era
piatto e liscio.
I
due fecero qualche passo nella sala guardandosi intorno perplessi.
Gli scheletri non li seguirono. Diedero loro un’ultima occhiata
dalla soglia poi si dissolsero in una lieve nebbia azzurrina. Calò
un silenzio perfetto, rotto solo dal rumore dei passi del due giovani
e dal respiro di Aldric, che si faceva sempre più ansante e
faticoso.
Wieland
osservò preoccupato il capitano delle guardie. “Come stai?” gli
chiese per l’ennesima volta, passandogli una mano sul viso madido
di sudore.
“Non
preoccuparti.”
“Come
puoi dirmi che non devo preoccuparmi? Guarda in che condizioni sei.
Hai bisogno di cure e riposo.”
“Presto
non avrà più importanza. Aiutami piuttosto ad appoggiarmi lì.”
Indicò il sarcofago grigio.
L’altro
fece quanto gli era stato chiesto e quando fu accanto al sarcofago
bianco si accorse che la fanciulla scolpita altri non era che Lady
Amilda. Soffocò un’esclamazione: pareva impossibile che una statua
di marmo – perché il materiale era
marmo, il più puro ed il più bianco che si fosse mai visto –
potesse riprodurre con quella fedeltà le fattezze di un volto umano:
ogni capello, ogni pelo delle sopracciglia, il turgore delle guance,
la piega morbida delle labbra, tutto sembrava perfetto e vibrante di
vita. Se il tatto non l’avesse rivelata come fredda pietra, la
fanciulla si sarebbe detta addormentata e pronta a risvegliarsi da un
momento all’altro.
“Amilda…”
mormorò rapito.
In
quel momento i due udirono una spettrale risata.
Sul
trono era comparsa una figura completamente ricoperta di un sudario
che emanava una sinistra luminescenza biancastra.
Wieland
si girò fulmineo sfoderando la spada, ma la figura non fece che
ridere nuovamente, con ancora maggiore scherno.
“Chi
sei tu che osi brandire un’arma contro il Signore dei Morti?”
provenne da sotto il sudario.
“Io
sono Wieland di Theoburg e sono qui per reclamare la vita della mia
promessa sposa, Lady Amilda Lethianna di Glensnaeven!”
La
figura ghignò. “Un’anima per un’anima,” proferì
solennemente.
“Che
significa?” chiese Wieland dopo un lungo silenzio.
“Se
tu vuoi che io renda l’anima alla tua diletta, devi darmi la tua.
Un’anima per un’anima.”
Il
principe deglutì. Era quello dunque il significato della profezia?
La persona che amava di più era forse se stesso? Ricordò le parole
di suo padre: un principe ha dei doveri verso la sua gente, prima che
verso di sé. Per chi aveva intrapreso quel viaggio che ora lo stava
portando alla rovina? Non certo per il popolo di Theoburg.
Stava
per rispondere al Signore dei Morti quando Aldric gli si parò
davanti. “Se devi prendere qualcuno, ebbene prendi me!” esclamò
il giovane guerriero.
“Aldric,
ma cosa dici?” chiese il principe angosciato, “la tua ferita
guarirà, non può essere così grave, non puoi sacrificarti al posto
mio!”
Ma
l’altro lo zittì con un gesto. “Ricordi la notte del temporale?
Il giorno dopo tuo padre il Re mi chiese di accompagnarti fino a
qui.”
“Lo
ricordo, sì.”
“Ebbene,
quella notte ricevetti la visita di un Mago Veggente di Rhias. Egli
mi disse che avrei affrontato un viaggio, al termine del quale avrei
dato la vita per salvare la persona che più amo al mondo.”
A
quelle parole Wieland rimase raggelato. “Ma… ma non può essere…”
balbettò incerto. Ecco che tante cose assumevano di colpo
significato.
“È
così, Wieland. Io ti amo, ti ho sempre amato. Avrei voluto rimanere
ancora accanto a te, ma se il mio destino è quello di dare la mia
vita per salvare la tua, ebbene lo accetto di buon grado.”
Il
principe lo abbracciò con impeto. “Aldric, non lasciarmi,”
gemette, mentre le lacrime ricominciavano a sgorgare dai suoi occhi
bagnando il volto dell’altro, “ti prego, resta con me.”
“Non
è possibile. L’hai sentito anche tu, un’anima per un’anima.”
Prese
il volto di Wieland fra le mani, lo baciò prima sulla fronte e poi
gli posò un delicato bacio sulle labbra. “Addio, e sii felice,”
gli sussurrò.
“Wieland!
Wieland!” Era una voce femminile che lo chiamava, la più splendida
e melodiosa che si potesse immaginare.
Il
principe si rialzò faticosamente guardandosi intorno. Doveva essere
svenuto. Era ancora nella grande sala, ma il trono era vuoto. Sul
sarcofago bianco non c’era più la statua.
“Wieland!
Sei sveglio per fortuna!”
Il
giovane alzò gli occhi: c’era Lady Amilda in piedi di fronte a
lui, più bella che mai, con indosso un abito bianco. Sui capelli
biondi e serici aveva una semplice coroncina d’oro. “Sei viva…”
mormorò felice, ma subito dopo gli tornò in mente Aldric. Si girò
e vide che sul sarcofago grigio era comparsa una statua. Era un
magnifico giovane guerriero in armi, il volto dall’espressione
severa ma tranquilla. La statua era così realistica che si sarebbe
detto appena addormentato, pronto in un attimo a balzare in piedi
brandendo la spada che teneva sul petto.
Sulla
pietra c’era qualcosa che brillava debolmente. Wieland lo raccolse:
era il laccio di cuoio con i due ciondoli, il luccichio proveniva dal
cavaliere d’oro.
“Aldric…”
mormorò sfiorando con dita cariche di rimpianto il volto gelido
della statua. Ora gli era tutto chiaro. Perderai
la persona che ami di più.
Il
regno di Re Wieland fu lungo e prospero. Egli compì grandi imprese e
donò pace e giustizia al suo popolo. La sua legittima sposa, la
Regina Amilda, la più soave e leggiadra fra le donne, gli diede
molti eredi, e tutti crebbero sani e forti.
Nonostante
sembrasse benedetto dalla fortuna, però, il Re aveva smarrito il
sorriso. Non lo rallegravano le feste, non andava a caccia. Nulla
sembrava lenire il suo tormento. Solo un menestrello aveva il potere
di allietarlo: era Devel il Bardo. Accompagnandosi con l’arpa, egli
cantava la leggenda di Aldric l’intrepido.
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