A
thousand times over;
(Part 2)
Stava
correndo verso il padre, un sorriso allegro a illuminargli il volto.
Doveva
mostrargli qualcosa che l’avrebbe reso orgoglioso, qualcosa che gli faceva
battere il cuore a grancassa per la felicità.
“Padre!”
esclamò, mostrandogli il braccio. Il falco se ne stava lì appollaiato, fiero e
fiducioso: tese la mano per accarezzarlo, e il rapace non si ritrasse. “Padre,
guarda: mi vuole bene!”
L’uomo,
però, non stava guardando il falco: la delusione nei suoi occhi era rivolta
solamente al bambino, all’euforia del suo sguardo, alla tenerezza con cui si
rivolgeva al suo nuovo amico.
Un
grido riempì l’aria, catturando l’attenzione di Jace: il falco volò via, ma per
la prima volta il ragazzino non ci fece nemmeno caso.
Suo
padre stava strattonando qualcuno per il braccio, qualcuno con lo stesso
sguardo fiducioso del falco: un ragazzino.
“Alec!”
Jace
aveva gli occhi sgranati per il terrore. Le manine ossute, da bambino di sei
anni, tremavano convulsamente.
“Ti
avevo detto di insegnargli ad obbedire” tuonò suo padre, afferrando Alec per i
capelli. “Tu invece gli hai insegnato ad amarti!”
Jace
si fiondò su di lui, ma l’uomo lo afferrò per la collottola e lo scaraventò a
terra.
“Lascialo
stare!” gridò Alec, divincolandosi dalla sua presa.
Michael
Wayland* rivolse al giovane Lightwood un’occhiata di puro disgusto.
“L’hai
rovinato” dichiarò con freddezza, voltandosi verso il figlio. “L’hai reso
inutile!”
Si
udì uno schiocco; il corpo di Alec si afflosciò, pallido ed inerme.
“Alec!”
Rovinò
a terra, accartocciato su se stesso come una foglia.
Jace
si lasciò cadere al suo fianco, il cuore a grancassa che gli martellava nel
petto con violenza e le lacrime che gli appannavano gli occhi
“Alec,
svegliati!”
In
vita sua non aveva mai gridato così forte, ma non servì a nulla: Alec rimase
immobile, gli occhi aperti ma privi di espressione.
Era
morto, morto per aver scelto di lasciarsi addomesticare.
Morto
per causa sua.
“Alec
svegliati, ti prego! Alec!”
“Jace...”
Una
mano lo scosse delicatamente per la spalla.
L’urlo
di Jace si ridusse a un sussurro sottile mentre il sogno sfumava, lasciando il
posto alla realtà.
Aprì
gli occhi, guardandosi attorno disorientato: era ancora buio, ma i riflessi
azzurrini di una stregaluce accarezzavano i contorni della persona china su di
lui.
Jace
riconobbe all’istante l’espressione apprensiva di Alec, il suo pigiama
sformato, i capelli neri ancor più arruffati del solito.
Il
sollievo s’irradiò in tutto il suo corpo, liberandolo dal terrore che ancora lo
braccava.
“Che
succede?” mormorò, mettendosi a sedere.
Alec
scosse la testa.
“Non
lo so: mi stavi chiamando” spiegò, appoggiando la stregaluce sul comodino.
“Probabilmente hai avuto un incubo.”
Jace
si mosse a disagio nel letto, sforzandosi di scacciare via l’immagine di suo
fratello morto.
Si
accorse che le sue mani tremavano, così si affrettò a nasconderle sotto il
lenzuolo.
“Sto
bene” dichiarò, con voce un po’ rauca. “Davvero, era un sogno proprio stupido:
volevi buttare il mio giubbotto preferito nel gabinetto per vendicarti
dell’incidente della trave.”
Sorrise
malandrino, ma Alec non ricambiò: non era stupido.
“Ti
spiace se resto qui per un po’?” mormorò poi il fratello, giocherellando con i
riflessi della stregaluce. “Non ho un granché sonno.”
Il
tumulto nel cuore di Jace cessò. Così, all’improvviso.
Guardò
suo fratello, studiò quegli occhi azzurri troppo grandi, che parlavano con la stessa
sincerità del popolo fatato.
Era
il suo Alec, quello: Alec che si fingeva debole per stargli accanto, anche
quando quello da rassicurare era Jace. Alec che gli leggeva dentro con la
stessa facilità con cui Jace leggeva lui. Alec che gli ricordava in
continuazione di essere suo fratello, che gli medicava ogni ferita, che cadeva
da una trave per proteggerlo.
Le
dita di Jace scivolarono fuori dalle coperte, per aggrapparsi al suo polso.
“Nemmeno
io ho sonno” ammise, affidandosi al fratello con lo sguardo.
Alec
sembrò accorgersene, perché sorrise appena e si fece un po’ di spazio sul
materasso, ben attento a non pestare il fratello.
“Posso
andare un po’ avanti con questo” propose poi, prendendo Il Cacciatore di
Aquiloni dal comodino. “La parte che hai letto oggi mi è piaciuta.”
Jace
annuì, incapace di aggiungere anche solo mezza frase; si sentiva svuotato, come
se avesse corso per delle ore. Come se avesse pianto – lui che non aveva più
versato una lacrima dalla volta del falco.
Alec
tolse il segnalibro dalle pagine e incominciò a leggere, la voce un sussurro
timido: non era abituato a leggere ad alta voce – di solito era Jace a farlo –
ma con il trascorrere dei minuti incominciò ad acquisire scioltezza.
A letto, nel buio, la
sera della telefonata di Rahim Khan, seguivo con gli occhi le linee parallele
di luce d’argento che filtravano attraverso le persiane.
“Alec?”
La
voce di Jace era insolitamente esitante.
Alec
interruppe la lettura per rivolgergli un’occhiata interrogativa.
Jace
si strinse nelle spalle.
“Tu
lo vorresti un parabatai?” chiese, prendendo in mano la stregaluce.
Alec
gli rivolse un’occhiata sorpresa. Per un attimo restò in silenzio, come se
stesse riflettendo.
“Chi
non lo vorrebbe?” mormorò infine, una luce insolita ad accendergli gli occhi azzurri.
Jace
non riusciva a decifrarla: sembrava speranzoso, ma anche preoccupato.
O
forse era lui a sentirsi così. Diventare il parabatai di qualcuno non
era una cosa da niente. Era l’impegno più grande che uno Shadowhunter potesse
prendere, un legame inscindibile che vincolava due guerrieri fino alla morte.
Il
loro era un tipo di affetto che non indeboliva. I parabatai traevano
forza dal legame che li univa e non si danneggiavano a vicenda, a differenza di
quello che era successo a lui e al suo falco.
Se
Alec fosse diventato il suo parabatai, se la loro amicizia fosse stata
protetta da quel vincolo, allora non avrebbe più dovuto temere per lui.
Sarebbero
stati entrambi al sicuro: più forti quando erano insieme.
Avrebbe
potuto volergli bene senza riguardi, mettendo a tacere la paura.
Sorrise
appena, lasciandosi ricadere sul cuscino.
Alec aveva ricominciato a leggere e la
sua voce soffice spense ogni punta di inquietudine che ancora gli ronzava
dentro, spingendolo a chiudere gli occhi.
Mi addormentai che era
quasi l'alba. E sognai Hassan che correva nella neve, l'orlo del suo chapan
verde che strisciava dietro di lui, la neve che scricchiolava sotto i suoi
stivali di gomma.
L’ultima
cosa che la sua mente registrò prima di addormentarsi fu il tocco un po’
impacciato di una carezza sulla fronte e il sussurro rassicurante di Alec.
Rivolto verso di me
gridava: per te questo e altro.
Ripeté
quelle parole nel dormiveglia, affidandosi alle premure di suo fratello.
E
seppe che erano vere.
«Ma adesso ce l’ho, Piccolo, nessuno me lo
porta via. Nessuno.»
Io e il Falco. Cristina Bellemo