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Autore: Kary91    30/07/2016    5 recensioni
[Pre-Saga|child!Alec&Jace| 2 Capitoli | Introspettivo, Slice of Life]
Era la prima volta che Alec lo guardava così; la prima volta che gli sorrideva in quel modo – l’affetto incondizionato di un fratello a illuminargli gli occhi. Era lo sguardo di chi sceglieva di riporre la propria fiducia in qualcun altro, lo sguardo di chi aveva scelto di lasciarsi addomesticare.
È proprio come il mio falco, si disse, ricordando la prima volta che il rapace si era posato sul suo braccio.
“Non voglio che tu ti faccia male per colpa mia” ribatté Jace, squadrandolo con durezza. “Ne abbiamo già parlato.”
“Infatti, ne abbiamo già parlato” replicò Alec. E nel suo volto, Jace si scontrò con una determinazione nuova, non diversa da quella che cerchiava i suoi occhi. “Sono tuo fratello maggiore. Tuo, di Izzy e di Max. Tenervi d’occhio è il mio compito, che lo vogliate o meno.”
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alec Lightwood, Jace Lightwood
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'A thousand times over;'
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A thousand times over;

(Part 2)

 

 

Stava correndo verso il padre, un sorriso allegro a illuminargli il volto.

Doveva mostrargli qualcosa che l’avrebbe reso orgoglioso, qualcosa che gli faceva battere il cuore a grancassa per la felicità.

“Padre!” esclamò, mostrandogli il braccio. Il falco se ne stava lì appollaiato, fiero e fiducioso: tese la mano per accarezzarlo, e il rapace non si ritrasse. “Padre, guarda: mi vuole bene!”

L’uomo, però, non stava guardando il falco: la delusione nei suoi occhi era rivolta solamente al bambino, all’euforia del suo sguardo, alla tenerezza con cui si rivolgeva al suo nuovo amico.

Un grido riempì l’aria, catturando l’attenzione di Jace: il falco volò via, ma per la prima volta il ragazzino non ci fece nemmeno caso.

Suo padre stava strattonando qualcuno per il braccio, qualcuno con lo stesso sguardo fiducioso del falco: un ragazzino.

 

“Alec!”

Jace aveva gli occhi sgranati per il terrore. Le manine ossute, da bambino di sei anni, tremavano convulsamente.

“Ti avevo detto di insegnargli ad obbedire” tuonò suo padre, afferrando Alec per i capelli. “Tu invece gli hai insegnato ad amarti!”

Jace si fiondò su di lui, ma l’uomo lo afferrò per la collottola e lo scaraventò a terra.

“Lascialo stare!” gridò Alec, divincolandosi dalla sua presa.

Michael Wayland* rivolse al giovane Lightwood un’occhiata di puro disgusto.

“L’hai rovinato” dichiarò con freddezza, voltandosi verso il figlio. “L’hai reso inutile!”

Si udì uno schiocco; il corpo di Alec si afflosciò, pallido ed inerme.

“Alec!”

Rovinò a terra, accartocciato su se stesso come una foglia.

Jace si lasciò cadere al suo fianco, il cuore a grancassa che gli martellava nel petto con violenza e le lacrime che gli appannavano gli occhi

“Alec, svegliati!”

In vita sua non aveva mai gridato così forte, ma non servì a nulla: Alec rimase immobile, gli occhi aperti ma privi di espressione.

Era morto, morto per aver scelto di lasciarsi addomesticare.

Morto per causa sua.

“Alec svegliati, ti prego! Alec!”

 

 

“Jace...”

Una mano lo scosse delicatamente per la spalla.

L’urlo di Jace si ridusse a un sussurro sottile mentre il sogno sfumava, lasciando il posto alla realtà.

Aprì gli occhi, guardandosi attorno disorientato: era ancora buio, ma i riflessi azzurrini di una stregaluce accarezzavano i contorni della persona china su di lui.

Jace riconobbe all’istante l’espressione apprensiva di Alec, il suo pigiama sformato, i capelli neri ancor più arruffati del solito.

Il sollievo s’irradiò in tutto il suo corpo, liberandolo dal terrore che ancora lo braccava.

“Che succede?” mormorò, mettendosi a sedere.

Alec scosse la testa.

“Non lo so: mi stavi chiamando” spiegò, appoggiando la stregaluce sul comodino. “Probabilmente hai avuto un incubo.”

Jace si mosse a disagio nel letto, sforzandosi di scacciare via l’immagine di suo fratello morto.

Si accorse che le sue mani tremavano, così si affrettò a nasconderle sotto il lenzuolo.

“Sto bene” dichiarò, con voce un po’ rauca. “Davvero, era un sogno proprio stupido: volevi buttare il mio giubbotto preferito nel gabinetto per vendicarti dell’incidente della trave.”

Sorrise malandrino, ma Alec non ricambiò: non era stupido.

“Ti spiace se resto qui per un po’?” mormorò poi il fratello, giocherellando con i riflessi della stregaluce. “Non ho un granché sonno.”

Il tumulto nel cuore di Jace cessò. Così, all’improvviso.

Guardò suo fratello, studiò quegli occhi azzurri troppo grandi, che parlavano con la stessa sincerità del popolo fatato.

Era il suo Alec, quello: Alec che si fingeva debole per stargli accanto, anche quando quello da rassicurare era Jace. Alec che gli leggeva dentro con la stessa facilità con cui Jace leggeva lui. Alec che gli ricordava in continuazione di essere suo fratello, che gli medicava ogni ferita, che cadeva da una trave per proteggerlo.

Le dita di Jace scivolarono fuori dalle coperte, per aggrapparsi al suo polso.

“Nemmeno io ho sonno” ammise, affidandosi al fratello con lo sguardo.

Alec sembrò accorgersene, perché sorrise appena e si fece un po’ di spazio sul materasso, ben attento a non pestare il fratello.

“Posso andare un po’ avanti con questo” propose poi, prendendo Il Cacciatore di Aquiloni dal comodino. “La parte che hai letto oggi mi è piaciuta.”

Jace annuì, incapace di aggiungere anche solo mezza frase; si sentiva svuotato, come se avesse corso per delle ore. Come se avesse pianto – lui che non aveva più versato una lacrima dalla volta del falco.

Alec tolse il segnalibro dalle pagine e incominciò a leggere, la voce un sussurro timido: non era abituato a leggere ad alta voce – di solito era Jace a farlo – ma con il trascorrere dei minuti incominciò ad acquisire scioltezza.

 

A letto, nel buio, la sera della telefonata di Rahim Khan, seguivo con gli occhi le linee parallele di luce d’argento che filtravano attraverso le persiane.

 

“Alec?”

La voce di Jace era insolitamente esitante.

Alec interruppe la lettura per rivolgergli un’occhiata interrogativa.

Jace si strinse nelle spalle.

“Tu lo vorresti un parabatai?” chiese, prendendo in mano la stregaluce.

Alec gli rivolse un’occhiata sorpresa. Per un attimo restò in silenzio, come se stesse riflettendo.

“Chi non lo vorrebbe?” mormorò infine, una luce insolita ad accendergli gli occhi azzurri.

Jace non riusciva a decifrarla: sembrava speranzoso, ma anche preoccupato.

O forse era lui a sentirsi così. Diventare il parabatai di qualcuno non era una cosa da niente. Era l’impegno più grande che uno Shadowhunter potesse prendere, un legame inscindibile che vincolava due guerrieri fino alla morte.

Il loro era un tipo di affetto che non indeboliva. I parabatai traevano forza dal legame che li univa e non si danneggiavano a vicenda, a differenza di quello che era successo a lui e al suo falco.

Se Alec fosse diventato il suo parabatai, se la loro amicizia fosse stata protetta da quel vincolo, allora non avrebbe più dovuto temere per lui.

Sarebbero stati entrambi al sicuro: più forti quando erano insieme.

Avrebbe potuto volergli bene senza riguardi, mettendo a tacere la paura.

Sorrise appena, lasciandosi ricadere sul cuscino.

Alec aveva ricominciato a leggere e la sua voce soffice spense ogni punta di inquietudine che ancora gli ronzava dentro, spingendolo a chiudere gli occhi.

 

Mi addormentai che era quasi l'alba. E sognai Hassan che correva nella neve, l'orlo del suo chapan verde che strisciava dietro di lui, la neve che scricchiolava sotto i suoi stivali di gomma.

 

L’ultima cosa che la sua mente registrò prima di addormentarsi fu il tocco un po’ impacciato di una carezza sulla fronte e il sussurro rassicurante di Alec.

 

Rivolto verso di me gridava: per te questo e altro.

 

Ripeté quelle parole nel dormiveglia, affidandosi alle premure di suo fratello.

E seppe che erano vere.

 

 

 

«Ma adesso ce l’ho, Piccolo, nessuno me lo porta via. Nessuno.»

Io e il Falco. Cristina Bellemo

 

   
 
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