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Come sopravvivere alla vita
Avevo fatto una cazzata.
Cioè, era da due mesi che ne facevo una di seguito all'altra e la sequenza sembrava essere destinata a non finire mai.
Oddio, non che fosse una novità.
Secondo i miei genitori ne facevo costantemente, praticamente ogni
volta in cui, anziché seguire la ferrea logica della scienza, mi
lasciavo trasportare dall'istinto: quando ho dipinto le pareti della
mia stanza come se fossero il circolo polare artico, per esempio, o
quando ho iniziato a bazzicare dalle parti dell'Asylum e a vendere
prevendite. Nulla di particolarmente grave, a mio parere, ma ai miei
genitori scienziati questa storia della discoteca non è mai
andata giù, come nemmeno la vena artistica e la passione per la
pittura, anche se non si sono mai lamentati né hanno mai cercato
di ostacolarmi. Anzi, hanno adottato il famoso metodo di Galileo: fatti
un'idea, fai l'esperienza e vedi se viene confermata.
Ecco, io non ho confermato loro l'esperienza negativa che si aspettavano, ma va bene lo stesso, capita anche questo.
Il disastro che avevo combinato risaliva però a esattamente
quattro mesi prima della presentazione e riconoscere dopo così tanto tempo di
essersi completamente sbagliati ti fa sentire molto, ma molto stupido.
Più di quanto credevo effettivamente di essere.
Proprio per rimediare a quello, ho iniziato a commettere
stupidaggini su stupidaggini, comportandomi come «un'idiota
innamorato», come mi ha gentilmente definito Giacomo, il mio
migliore amico, nonché ideatore dell'ultima avventura prima
della fine.
Sette mesi fa avevamo infatti appreso un'interessante novità:
la facoltà di Arte dell'università della nostra
città avrebbe donato un'enorme tela, realizzata dagli studenti,
al nostro liceo per festeggiare i cinquant'anni di gemellaggio dei due
istituti. Sfortunatamente noi del liceo non avremmo fatto nulla per ricambiare
il regalo, a meno che esporre fino alla fine dei tempi l'opera
nell'Aula Magna non potesse essere considerato come tale. Il preside
è passato classe per classe a dare l'annuncio, dicendosi molto
interessato, e comunicando che tutte le classi saranno presenti nello
stesso momento ad accogliere il dono. Giacomo ha annuito, ma nei suoi
occhi c'era già un brillio inquietante che avrei dovuto
riconoscere come foriero di un'idea geniale e, potenzialmente,
deleteria per le nostre carriere scolastiche. Poche sere dopo ci ha
radunati tutti a casa sua e, certo che i suoi genitori fossero usciti,
ci ha esposto il suo "atto per la scuola". A parte Michela, che si
è dichiarata contraria fin dalla prima parola, tutti abbiamo
deciso di partecipare.
Solo che ieri sera il mio cellulare ha preso a suonare e la voce
di Giacomo, agitato come non mai, mi ha detto che non sapeva se
riusciva a venire a scuola tanta fifa aveva. E come lui, anche gli
altri ragazzi erano un po' spaventati. Io, per qualche strano motivo
invece, non avevo nemmeno ancora pensato che ci sarebbero potute essere
delle conseguenze. Forse era meglio incominciare.
Ci pensai per i primi dieci minuti, disteso sul letto, poi il
sonno ebbe la meglio sulla mia coscienza e mi svegliai la mattina, al
suono della solita sveglia.
Il Sole non era ancora sorto ma il cielo faceva presagire una bella giornata.
Presi una maglia pulita, indossai un paio di jeans strappati e,
fatta colazione, uscii per prendere l'autobus. Fu solo alla fermata,
quando vidi Giacomo guardarsi attorno come se fosse circondato dai
poliziotti che mi venne un primo attacco d'ansia. E se, per qualche
motivo, qualcuno ci avesse visto mentre facevamo gli scambi? Se non
l'avessero detto per punirci dopo di fronte all'intera scuola? E,
più importante, cos'avrebbero detto i miei genitori, e mia zia,
se fossi stato espulso da scuola per quell'idea? Mi affiancai a Giacomo.
«Che facciamo se ci beccano?» mi chiese.
Mi tolsi gli auricolari e spensi la musica. Lo guardai.
«Diciamo la verità, ecco cosa facciamo. Ma non penso che
ci beccheranno: non sanno nemmeno che abbiamo delle passioni i nostri
insegnanti. Non saranno nati ieri, ma ci vuole abilità per fare
quel che abbiamo fatto.»
Mi rimisi gli
auricolari e salii sull’autobus, sedendomi nel primo posto
disponibile.
Giacomo, al mio fianco, batteva ritmicamente il tallone, muovendo la
gamba:
possibile che fosse così agitato da non riuscire a stare fermo?
La musica era
muta e io guardavo la città scorrere fuori dal finestrino,
impaziente di
arrivare a scuola. Credevo che l’attimo di panico fosse passato
ma tornò più
forte di prima davanti all’entrata, quando salutai i miei amici,
vedendo
come loro si torturassero le mani guantate e i lembi delle giacche. Mi
chiesi se qualcuno sarebbe riuscito a collegare noi con
il sabotaggio. Certo, qualche insegnante particolarmente empatico
doveva aver notato come Enrico ed io ci fossimo avvicinati ed
allontanati nel giro dei quei sei mesi, ma non avevamo mai mostrato
nulla apertamente e, a meno che la squadra di calcio non fosse stata
presente, nessuno avrebbe potuto avere una reazione immediata. Eppure
avevo lo stesso il sospetto che sarei
stato sicuramente incolpato: c’era troppo di me in
quell’opera e troppo poco di Giacomo che l’aveva ideata e
costruita.
Oltrepassai i
miei compagni ed entrai in classe, notando Enrico, seduto in prima fila, che mi
guardava da sotto il ciuffo biondo che gli copriva quasi completamente l’occhio
destro. Gli sorrisi e lui si alzò.
«Spero
davvero che non ci scoprano…»
«Se ne
parli così ad alta voce è probabile che lo facciano.
Lascia perdere e non preoccuparti, nessuno ti
verrà a cercare, nemmeno quelli là: sei troppo onesto per
violare le regole della scuola. Penseranno che io ti abbia messo
lì solo perché sei un secchione.»
Quando entrò
l’insegnante andai al mio posto, togliendo il cappello a Giacomo che, sbadato
come al solito, lo aveva dimenticato in testa. Quando avrebbe imparato a vestirsi quel ragazzo?
Tutti danno
per scontato che siccome scherzo e rido su quasi tutto quello che
succede, a me
o agli altri, io sia una persona superficiale, insofferente alle
tristezze altrui, un incapace che non è in grado
di preoccuparsi di chi lo circonda, citando alla lettera le parole di
mia zia dette alla professoressa di religione durante le ultime
udienze. Sono tutto il contrario, invece, ma non mi interessa che mia
zia lo capisca, sia chiaro: faccio così solo
perché adoro vedere le reazioni delle persone, imprimerle nella
mia memoria per poi trasporle sulla tela. Il problema è
che se non stuzzichi le persone, queste mantengono sempre le stesse
facce
annoiate e serie, anche se ridono. Una delle tante pecche della mia
generazione: condividiamo i momenti più insignificanti della
nostra esistenza su tutti i social network possibili e immaginabili,
ma, al momento opportuno, quello di gioia vera, non sappiamo tirare
fuori null'altro che un sorriso di circostanza, falso come la neve ad
Agosto. Per uno che ama riprodurre i visi ovunque,
questo può essere un grave problema, soprattutto quando la tua
vita si divide
tra una casa di scienziati che non capiscono nulla di arte, una scuola
che se ne frega delle tue aspirazioni e un lavoro saltuario come
"venditore di prevendite che alla fine ci rimette sempre"
con cui non riesci nemmeno a pagarti un tubetto di colore, un pennello
e una tela, anche di scarsa qualità.
Eppure anche
io ero agitato e me ne accorgevo ogni secondo di più: fissavo la porta con
insistenza, come se mi aspettassi che un bidello sarebbe entrato chiamandomi
per cognome per mandarmi dal preside; avevo le palme delle mani sudate e la
penna continuava a scivolarmi dalle dita, lasciando una scia di inchiostro ogni
due o tre righe di scrittura; continuavo a contrarre i muscoli delle gambe
alternandoli, poi concentrandomi sulla destra, dopo sulla sinistra e poi
cominciavo di nuovo.
Giacomo mi
prese la mano destra lanciandomi un’occhiata furiosa. Non solo
stavo aumentando
l’agitazione di tutto il gruppo muovendomi a quel modo, ma stavo
anche
disturbando la lezione di ripasso di filosofia, di cui lui aveva un
disperato
bisogno altrimenti l’interrogazione sarebbe stata un disastro.
Egoista, mi
dissi, io me la sarei cavata anche senza ascoltare, ma lui no e quindi
era mio
dovere permettergli di seguire per quanto possibile. Mi guardai intorno
e presi
un respiro profondo: avevo dormito così bene quella notte,
perché rovinarmi la
mattinata quando era ovvio che tutto sarebbe filato liscio? Sorrisi tra
me e
me, mi asciugai le mani sui jeans strappati, legai i capelli in una
coda e
presi il foglio di Giacomo, scrivendo di mio pugno gli appunti per lui,
aggiungendo quello che il professore non diceva ad alta voce ma avrebbe
chiesto all'orale.
Quando suonò
la campanella dell’intervallo tirammo tutti un sospiro di
sollievo: quella
lezione di ripasso era stata massacrante e sentii tutte le sinapsi del
mio
cervello immobilizzarsi all’improvviso, come se anche loro
avessero udito
direttamente quel suono salvifico. Rimasi qualche minuto con i ragazzi,
cercando di rasserenarli: diversamente da me loro avevano passato una
notte
insonne, preoccupati sia per il sabotaggio, sia per la possibile
interrogazione
di chimica. Poi uscii, controllando una volta a destra e a sinistra per
essere
sicuro di non incontrare il preside o, peggio ancora, il mio odioso
professore
di chimica. Quest’ultimo era appena entrato in una prima e fui
lesto a salire
le scale, allontanandomi dal potenziale pericolo di essere prenotato
per un nuovo pessimo voto, per la felicità dei miei genitori.
Salii i
gradini a due a due, raggiungendo in fretta l’atrio del secondo
piano e
imboccando poi la porta per la terrazza: lì nessun insegnante
sarebbe venuto a
disturbare, al massimo avrei trovato qualche secondino ribelle a fumare
senza
permesso scritto. Non che fosse un problema per me, ma i professori ci
riempivano talmente la testa di frasi fatte sul dare il buon esempio ai
più piccoli che ogni tanto mi chiedevo se loro ci credessero,
loro che fumavano non appena messo il piede fuori dal cortile della
scuola.
Mi appoggiai alla ringhiera, imbacuccato nella giacca e nella
sciarpa che avevo rubato a Giacomo e che mi avrebbero protetto meglio
dei miei vestiti: avevo calcolato male l'evoluzione del clima quel
giorno. Il vento non era molto forte, ma non avevo voglia di favorire
l’insorgere
del mal di gola, già di per sé imminente.
Guardai le ragazze della squadra di atletica allenarsi nelle
loro uniformi attillate e rabbrividii. Come diavolo facevano a stare a gambe
nude, solo con un maglione e i pantaloncini corti? Io sarei caduto a terra,
congelato come un ghiacciolo nel giro di qualche secondo, se fossi stato vestito
come loro. Eppure erano belle da vedere. Belle perché stavano insieme come un
gruppo; belle perché ridevano degli errori che facevano senza prendersi in
giro; belle perché, a differenza della maggior parte dei gruppi studenteschi,
desideravano davvero stare su quel campo esposto al freddo e al gelo. Nel loro
stare insieme non c’era un secondo fine, solo la voglia di divertirsi e il
rispetto reciproco.
Se fosse stato
così anche nel gruppo dei cosiddetti “creativi”,
dove si trovavano ragazzi che filmavano, disegnavano o dipingevano come
me, non lo avrei sicuramente mollato sei mesi dopo esserci entrato.
Ricordavo ancora bene il primo giorno in cui vi misi piede, trepidante
e pronto a mostrare il mio lavoro come un vero artista, uno di quelli
famosi che organizzano mostre in tutto il mondo e te li immagini in
giro per i saloni, mischiati tra i visitatori, a improvvisarsi guide
per le proprie opere, sondando le opinioni dei critici senza essere
scoperti perché nessuno li aveva mai visti in faccia.
Cavolo, che entrata avevo fatto, mostrando come opera di
presentazione il murales che avevo in camera mia, dietro la testata del
letto: un'immensa distesa di ghiaccio artico in via di scioglimento.
L'avevano apprezzato tutti, anche i ragazzi dell'ultimo anno che mi
avevano guardato dall'alto in basso, frettolosi di tornare ai propri
lavori.
Anche gli altri miei lavori erano piaciuti ai membri del club,
tutti si erano complimentati con me e mi avevano aiutato a crescere: in
fondo, che ne sa di pittura un primino che sta ancora studiando i
disegni nelle caverne? Tra lezioni improvvisate di pittura
impressionista, di cubismo e astrattismo avevo trascorso i sei mesi
migliori della mia vita.
Poi un ragazzino di prima aveva usato un mio dipinto, spacciandolo
per suo, a una mostra. Aveva vinto e l'avevano usato come quadro per il
volantino del club. L'avevo menato ed ero uscito dal club, mandando
tutti a quel paese.
Peccato che la
scuola non abbia un club di fumetto, pensai: lì ci sarebbero solo persone interessate
all’argomento. Invece per quello dovevo accontentarmi di qualche gruppo online
e delle amicizie trovate sui forum... Sempre più sincere di quelle serpi creative.
Sentii dei passi
alle spalle e mi voltai, trovandomi faccia a faccia con Michela.
Era una
vecchia amica d’infanzia, che per uno sbaglio delle segretarie era capitata in un’altra sezione durante
lo smistamento. Successivamente non aveva più voluto cambiare ed era rimasta
là, lontano da me, con i suoi nuovi, fantastici amici. Non che mi fosse dispiaciuto
così tanto: era giusto che conoscesse altre persone oltre a me, ma non avevo
mai smesso di preoccuparmi per lei, aiutandola sempre quando le serviva una
mano. Anche per lei tutti davano per scontate alcune caratteristiche, come
quella che essendo solare e aperta con tutti avesse molti amici; anche per lei
era tutto falso, era l’esatto opposto di quello che si credeva.
«Allora,
cosa farai se ti attribuiscono il sabotaggio?»
Mi tornò
l’agitazione. Michela era stata contraria all’idea dal primo momento in cui
l’aveva sentita esporre da Giacomo e infatti non aveva partecipato.
«Non lo
faranno.»
«Se lo
facessero? Non negare, so che te la stai facendo sotto: i ragazzi
potrebbero scoppiare a
piangere alla prima occhiataccia di un professore tanto sono sulle
spine e tu
cerchi di ostentare tanta di quella sicurezza che si vede lontano un
chilometro
che nascondi qualcosa… L’unico normale tra tutti è
Enrico che, tra l'altro, è quello che rischia più di
tutti.»
Aveva
dannatamente ragione. Perché quella ragazza doveva sempre essere nel giusto?
Ah, già, perché è una donna e papà lo dice sempre che le donne hanno sempre ragione.
«Se lo
facessero almeno capirebbero cosa succede davvero in questa scuola, avrebbero
una bella testimonianza dello schifo che circola in questo istituto. Guarda
là!» dissi indicando l’angolo più remoto del campo «Bello lo
spettacolo vero? Nessuno ha il coraggio di parlare e se lo faccio io lo
prendono per uno scherzo, come al solito.»
Michela si
sporse dal parapetto e sospirò pesantemente, riconoscendo i
corti capelli ossigenati di Enrico e le divise della squadra di calcio.
Ancora doveva capire come aveva fatto un secchione del genere a
decidere di ossigenarsi i capelli come un teppista, ma probabilmente
doveva rivedere i suoi pregiudizi su teppisti e secchioni.
«Forse
se facessi meno scherzi ti prenderebbero sul serio…»
«O
direbbero che gioco a fare l’eroe perché Enrico non
ammetterà mai nulla di
quello che succede di fronte a un professore o al preside. Ha troppa
paura, e se
non sono riuscito fargli cambiare idea quando stavamo insieme, non vedo
come
potrei farlo adesso… È già tanto che abbia
accettato di collaborare aprendoci l'Aula Magna. Se qualcuno lo avesse
visto...»
«Ma fammi capire, lo
fai per lui, per te o per la scuola? Perché la cosa è ambigua.»
Giacomo lo
aveva proposto come “atto per la scuola” ma se avessi
dovuto dire la verità, la
motivazione che mi aveva spinto accettare quella folle idea, non avrei
sicuramente nominato la scuola o me stesso, avrei parlato solo di
Enrico e di
quanto mi fossi sentito impotente il giorno della finale del torneo
delle
scuole, quando lo avevo visto con i giocatori di calcio e non ero stato
in
grado di aiutarlo mentre quelli lo buttavano a terra, tirandogli calci
nello
stomaco, urlando insulti omofobi che per loro fortuna erano stati
coperti dalle
grida della folla. Non dissi però a Michela tutto questo.
Avrebbe capito che ero ancora innamorato di Enrico e, sapendo che non
avrei mai usato un sotterfugio del genere solo per riconquistarlo, che
volevo farmi perdonare la cazzata che avevo fatto al "The Hatter".
«Dovevo
fare qualcosa per lui: non sarei qui, adesso, senza di lui e non potevo più
aspettare che quelli crescessero. Sono molto più egoisti e superficiali di me,
e se farmi espellere dalla scuola servirà ad aiutare Enrico, allora tanto
meglio: per una volta sarò davvero l’eroe dei fumetti che salva chi è in
difficoltà.»
La campanella
suonò ancora, la pausa era finita.
«Il
momento della verità a quanto pare è giunto…»
Scendemmo le
scale in un silenzio confortevole e prima di entrare in classe Michela mi
augurò «Buona fortuna» e per la prima volta mi resi conti di
averne un immenso bisogno.
Il professore
di chimica non mi interrogò, né chiamò uno dei
miei compagni. Potrei quasi dire che
fu quasi clemente, lo stronzo, accontentandosi di ignorare
elegantemente il proposito di
interrogare per andare avanti con il programma, lasciandomi a fine ora
una mano
dolorante e un senso di ansia e tensione mai provato prima. Adesso
iniziavo a sentire la paura e i ragazzi condividevano la sensazione di
terrore misto ad
aspettativa: forse sarebbe andata bene; forse non si sarebbero accorti
che lo
stile era inconfondibilmente mio; forse ci sarebbero passati sopra,
prestando
più attenzione all’oggetto e non a individuare i
colpevoli.
L’Aula Magna
della scuola era enorme e gremita di studenti, la maggior parte dei quali
seduti sulle sedie, chiacchierando del più e del meno, o in piedi che passavano
da un punto all’altro pubblicizzando le attività del proprio club con solerzia.
I ragazzi
del gruppo dei “creativi” distribuivano quegli stessi
volantini per cui ero uscito dal club e uno di loro ebbe la faccia
tosta di darmene un paio, dicendo che ero il benvenuto se avessi voluto
ritornare… Come se bastassero un sorriso e un invito per farmi
dimenticare il trattamento riservatomi anni prima.
Mi sedetti vicino
a Enrico, i miei amici intorno a noi: forse avevano capito da soli perché
avessi partecipato a quella folle iniziativa.
Vidi Michela vicino al professore, con in mano le forbici per
tagliare i nastri che legavano gli enormi lenzuoli che coprivano la
tela appesa al soffitto e, per la prima volta da quando la
conoscevo, si fece un segno della croce e annuì con la testa. Lo
interpretai
come una preghiera per la mia salvezza… Sperai anche che
qualcuno l’ascoltasse, ma non avrei scommesso un soldo su un
eventuale intervento divino.
«Ragazzi,
sedetevi per favore… Grazie mille. Allora, buon giorno a tutti.
Alcuni di voi mi
conoscono perché sono il loro professore, altri mi avranno visto
qualche volta
in corridoio. Sono Antonio Deraudi, professore di matematica, e oggi vi
mostriamo l'enorme tela che gli studenti della facoltà di Arte
dell'università hanno realizzato per la nostra scuola in
occasione dei cinquant'anni del gemellaggio tra i due istituti.
Spero che vi piaccia e che, partendo dagli spunti delle immagini, possa
nascere una discussione costruttiva. Detto ciò mi faccio da
parte, lasciando le delucidazioni del caso alla professoressa Marani,
che saprà spiegarvi i dettagli artistici molto meglio di
me.»
Ecco, la prof. Marani era una di quelle che mi piacevano, anche se
insisteva a darmi insufficienze nel disegno tecnico per errori
immaginari che commettevo continuamente, foglio sporco a parte: quello
esisteva veramente. Eppure era una brava, sapeva catturare l'attenzione
con quella che era una vera e propria venerazione per la storia
dell'arte. Il giorno in cui ci aveva descritto il "Ratto di Proserpina"
era letteralmente scoppiata in lacrime, ammettendo candidamente di
considerare quella statua una delle più incredibili mai create.
Metà classe era scoppiata a ridere, mentre io aveva capito
perfettamente cosa intendesse. Io mi ero commosso di fronte alle vene
della mano del "David" e mi ero asciugato le lacrime di fronte alla
"Primavera" quando l'anno prima la scuola ci aveva portato in visita
agli Uffizi. Forse era stato quello il giorno in cui Enrico aveva
deciso che non ero uno stronzo superficiale e insensibile.
Sì, beh, quella donna mi obbligava a ricordare un sacco di cose, anche se non tutte lusinghiere.
«Grazie, Antonio. Mi piacerebbe farvi una dettagliata
descrizione dei mille stili e delle mille tecniche che gli studenti
hanno utilizzato, mostrando che non studiano alla facoltà di
Arte per niente, ma ci sono tele che vengono uccise dalle spiegazioni e
che devono solo essere guardate per capire tutto quello che hanno da
raccontare. Non mi dilungherò ulteriormente. Signorina Adelli,
tagli pure i nastri.»
Chiusi gli
occhi e strinsi la mano di Enrico, che mi rispose con una stretta ancora più
salda della mia.
Michela tagliò i nastri con una sola sforbiciata, un colpo secco e spavaldo, e i lenzuoli caddero a terra.
Definirla tela dava un senso di uniformità che l'opera non
possedeva a dire il vero: sarebbe stato meglio dire che fosse una serie
di tele più o meno grandi unite insieme per formare un'enorme
rettangolo, una specie di collage di quadri che sfociavano l'uno
nell'altro. C'erano immagini dipinte secondo lo stile impressionista,
piene di luce e dai tratti sottili; alcune vorticose e ricche di colore
come le opere di Van Gogh; in un angolo, a destra, lo stile era una
palese ricopiatura della geometria di Picasso, mentre un'altra parte
era un mosaico di conchiglie, dipinte una ad una dal sottoscritto nel
cuore della notte sotto la luce di una lampada da lettura. Poi, sparse
sulle giunture tra le tele, avevo appiccato le fotografie scattate da
Giacomo ai cari amici del club di calcio, con le loro facce belle in
mostra.
Enrico abbassò la testa, cercando di nascondersi dietro le
schiene dei miei amici, tirandosi su il cappuccio e lasciando che i
capelli gli coprissero il viso.
Si era offerto lui stesso per essere il soggetto del quadro e,
nonostante io per primo dipingendo non fossi stato convinto dell'idea,
dovetti ammettere che era venuto davvero bene. Il ragazzo dipinto era
effettivamente bello da mozzare il fiato, di quella bellezza pallida e
divina di cui secondo me riluceva Enrico, e anche se avevo
cambiato il colore dei capelli, la pettinatura e l'avevo rappresentato
con la tecnica cubista, si vedeva lontano un miglio che fosse lui.
Forse fu quello a zittire per qualche minuto gli studenti
nell'Aula Magna, mentre i professori si guardavano tra loro con gli
occhi spalancati, un po' per la sorpresa, un po' perché,
probabilmente, proprio rimbecilliti non lo erano.
Il problema venne dopo, quando mi accorsi che i cari amici del club di calcio
erano seduti due file dietro di noi e stavano provando a perforarmi la
testa con il loro sguardo; quando si alzarono in piedi come un solo
enorme gigante, degno rivale dei Titani della mitologia greca, per
staccarmela dal collo, la testa. O, più probabile, per staccarla
a tutto il gruppo, tenendosi Enrico per ultimo come se fosse il dolce
della casa offerto loro su un piatto d'argento.
La cosa carina fu che gli studenti seduti dietro di noi si
alzarono anch'essi. Pensai per darci una mano e tirai un sospiro di
sollievo.
Maledetto me e il mio cazzo di ottimismo.
Si alzarono e si spostarono per far spazio agli altri.
Altra pecca della mia generazione: quando si tratta di prenderle,
mai uno che provi a calmare le acque. Trovarsi con un occhio nero
sarebbe stato troppo sforzo, poi chi la sente la mammina delusa che ti
fa la predica perché «Nelle situazioni pericolose non ti
ci devi ficcare!».
Uno di loro mi prese per la maglietta, tirandomi su come se fossi
una ragazzina di dodici anni, chiedendo cosa fosse quello. Ero nei
casini, anche se credevo che li avrebbero fatti i professori e non
loro, e mi venne quasi da ridere perché non capivo se la domanda
fosse rivolta all'aver sostituito con un'altra opera il dono degli
studenti di Arte o alle foto che testimoniavano la loro condotta.
In quel momento, come per magia, i professori si risvegliarono dal
torpore e l'allenatore torreggiò su calciatori, fischiando come
un indemoniato. Per un momento credetti che avrebbe tirato fuori il
cartellino rosso: in quel caso sarei davvero scoppiato a ridere.
I due professori, Deraudi e Marani, nel frattempo dovevano essersi
alzati e il primo era vicino all'allenatore, mentre la seconda da
Enrico, a chiedergli cosa stesse accadendo; gli altri insegnanti
stavano facendo uscire gli alunni sbigottiti in file ordinate e
silenziose, con velocità. I piccoli studenti di prima e seconda
non dovevano assistere a quella che poteva rivelarsi una rissa in piena
regola, giusta decisione.
Sotto lo sguardo dell'allenatore, fui mollato e ricaddi sulla
sedia, fissando il professore con uno sguardo grato. Non ero ancora
così stupido da pensare di essermela già cavata, ma forse
non sarebbe andata così male.
Forse.
Non appena tutti gli studenti furono usciti dall'Aula Magna,
alcuni professori rientrarono, circondandoci. L'allenatore fece sedere
i suoi calciatori in disparte e iniziò a chiedere
giustificazioni plausibili per quelle foto, annunciando che non sarebbe
usciti fino a che non avessero vuotato il sacco. I miei amici si
girarono verso di noi, mentre Michela ci raggiungeva, rimanendo
però in piedi al mio fianco.
Non avevo idea di cosa sarebbe successo. Ci avrebbero punito,
ci avrebbero chiesto spiegazioni per poi decidere se mandarci dal
preside? Ci avrebbero ascoltati?
Deraudi fissò Enrico per un po', ma alla fine si rivolse verso Giacomo, ignorandomi completamente.
«Giacomo... Che diavolo hai combinato?»
Quell'uomo doveva avere un radar interno per aver puntato subito a
Giacomo senza passare prima da me, ma doveva essere solo questione di
tempo e poi lo avrebbe chiesto anche a me, usando magari il plurale per
enfatizzare la cosa.
Vidi Giacomo mordersi l'interno della guancia con quella lentezza
tipica che assumeva quando cercava un modo per spiegare bene i concetti
durante le verifiche o le interrogazioni e passarsi una scarpa sul
polpaccio, un po' a disagio. Non avevamo concordato una versione da
dire ai professori, se non la verità, anche perché non
sapevamo cosa ci avrebbero chiesto. E diciamo che quella domanda
spiazzava un po'.
Giacomo si ostinava a non rispondere, il professore continuava a
spostare lo sguardo su tutti noi, sperando che qualcuno parlasse. Stavo
per dire qualcosa quando Michela mi precedette: «Facciamo gli
eroi, prof. Non le pare una meravigliosa tela quella appesa?»
E poi lei era quella che non voleva immischiarsi e rischiare l'espulsione.
Se fossimo usciti da lì sani e salvi, le avremmo offerto da bere al "The Hatter" per il resto della vita.
«Molto bella, immensamente dal punto di vista artistico, e
si capisce anche molto bene cosa voglia rappresentare. Al che la
domanda, cos'avete combinato?»
Ah, eccolo! Il plurale che deve
sottolineare la gravità della situazione, che deve farti sentire
piccolo e indifeso. Stavolta però parlo io.
Cavolo, l'ho dipinto io, vorrei almeno avere il privilegio di spiegare la mia arte.
«È opera mia, professore. La tela originale era
meravigliosa, sul serio eh!, e non è stata danneggiata, solo
spostata in un altro posto. Questa è... Questa è una
denuncia, poco ortodossa, ma sempre tale. Le foto sono vere,
staccabili. Senza diventa una tela qualsiasi sul dilemma esistenziale
di un adolescente con l'idea della prigionia, della tristezza e dei
problemi che ci sotterrano mille miglia sotto il fondo del mare, dove
non respiriamo né preghiamo né parliamo; con diventa una
tela su quello che accade negli angoli bui del campo di calcio, tra gli
spalti, quando nessuno guarda.»
Vidi Enrico fissarmi a bocca aperta e seppi che in questo momento
mi aveva perdonato la cazzata del "The Hatter", quando avevo
banalizzato i suoi problemi con la squadra di calcio, dicendo che lui
li provocava e che avrebbe dovuto fare più il duro invece del
gay carino e delicato. Lo seppi perché disse al professore di
essere disposto a raccontargli e spiegargli una per una le foto, se
necessario di fronte al preside. Ma, soprattutto, ero che l'avesse
fatto perché quando si alzò per seguire Deraudi mi
pizzicò il fianco, e questo lo aveva fatto solo quando stavamo
insieme, era il nostro per sempre.
Sì, ma meglio non illudersi: non potevo bilanciare l'effetto
esplosivo di una lettera d'espulsione con l'effetto, altrettanto
esplosivo, di una confessione sull'essere gay ed essermi,
probabilmente, riappacificato con il mio ex che poteva non essere
più tanto ex. Le due notizie non si sarebbero mitigate l'una con
l'altra e non volevo ancora immaginare la faccia di mia madre quando
avrebbe saputo che il suo unico figlio non le avrebbe dato tanti
nipotini cui insegnare le bellezze della fisica.
Enrico uscì dall'Aula Magna e noi rimanemmo con la Marani,
che ci squadrò come una banda di spostati ma fece sbocciare sul
suo viso un sorriso un po' complice e un po' curioso. I ragazzi le
rivelarono dove avessero nascosto i vari quadri della tela, ognuno
avvolto in un lenzuolo perché non si rovinasse, e lei li
ringraziò, dicendo che per punizione avremmo dovuto rimontare
l'opera il pomeriggio dopo.
«Cosa? Non ci espelle? Nemmeno una sospensione piccola piccola?»
Qualche volta Giacomo lo strozzerei, ma è il mio migliore
amico e dovevo tenermelo buono, anche come ringraziamento per tutte le
volte che mi aveva fatto da spalla su cui piangere negli ultimi mesi.
«Avete agito contro il regolamento, ma io sono ancora la
vicepreside. Certo, vorrei darvi una punizione esemplare, ma avete
creato una tela meravigliosa e, come Romeo sa molto bene, io mi
commuovo di fronte all'arte se meravigliosa. Inoltre, ci vuole coraggio
per denunciare di fronte a tutti gli studenti una cosa del genere,
soprattutto quando si è così addentro la situazione,
come il qui presente Romeo. Ora, però, lasciate fare a noi
professori e vedete di non fare ulteriori idiozie. Alla prossima vi
espello tutti, anche lei signorina Adelli, che se la sta ridendo sotto
i baffi come una vecchia volpe.» La professoressa mi sorrise,
come se avesse sempre saputo del mio rapporto con Enrico, come se
stesse cercando di rimproverarmi in silenzio per non averle chiesto
aiuto.
I miei amici emisero un urletto di soddisfazione e ci
abbracciammo, trascinando Michela al centro, cosicché non
scappasse via come suo solito e uscimmo sotto lo sguardo benevolo della
prof.
Nell'atrio, seduto sulle scale, c'era Enrico. Si era tolto la
felpa ed era rimasto con una maglietta bianca; si era messo il ciuffo
dietro l'orecchio destro e aveva tirato su gli occhiali. Nelle
mani si rigirava un pezzo di gomma pane, abitudine che mostra quando
è in imbarazzo.
Lo fa anche con la mollica del pane, con la pasta di sale e con il chewing gum. L'ho sempre trovato tenero.
Gli tesi la mano e lui la fissò, un po' indeciso se
lasciarsi tirare su o no. Alla fine la prese e me lo tirai addosso,
abbracciandolo. Avevo anche una mezza voglia di prenderlo in braccio,
ma mi trova a scuola e c'erano minorenni che sarebbero corsi dalla
Marani e non potevo farmi mettere in punizione dopo averne appena
scampata una. Mi accontentai di baciarlo su una guancia, certo che lui
avrebbe capito quanto ero contento che tutto si fosse risolto per il
meglio. Poi ci disse che non avrebbe dovuto parlare con il preside,
sarebbero stati i ragazzi della squadra di calcio a doversi spiegare e,
a meno che la sua presenza non fosse necessaria, sarebbe potuto
starsene per conto suo.
Giacomo, a quel punto, propose di andare a pranzo fuori non appena finite le lezioni, promettendo che avrebbe offerto il gelato.
Sono passati quattro mesi da quel giorno. Mesi in cui Enrico ed io
ci siamo messi d'impegno per rimettere insieme i pezzi della nostra
relazione, fregandocene, per una volta, delle voci maligne che le
pettegole ci tiravano dietro. Aveva raccontato tutto ai miei genitori
che, per qualche motivo, avevano accolto Enrico come se fosse sempre
stato uno della famiglia. Solo la zia ci aveva messo un po', ma era
bastato farle vedere la pagella del mio ragazzo e subito lei l'aveva
adorato. Fortunatamente non aveva visto la mia.
Sì, sono passati quattro mesi e, a onor del vero, ritengo
opportuno dire che Enrico, io e tutta la compagnia stiamo ancora
aspettando i gelati di Giacomo.
Coro dell'autrice
Intanto
ciao a tutti, se siete arrivati a leggere fino alla fine spero che
questo piccolo racconto vi sia piaciuto. Credo sia la prima volta che
in un solo capitolo riesco a inserire così tante parole e la
cosa mi esalta al quanto.
Parlando brevemente del racconto... Oserei definirlo un po'
avvolto nella nebbia, in quanto i personaggi sono descritti poco o
nulla e la storia nasce per raccontare del sabotaggio di una
presentazione ma poi approda su lidi completamente diversi. Una parte
di essa deriva da un testo che scrissi dato un incipit, ma, lungi dal
ricordarmi cosa dicesse a parte un sabotaggio, ho creato di mio un
nuovo inizio, provando a dare qualche dettaglio in più sul mio
protagonista, il mio Romeo.
Unica magia, c'è la ripetizione di un particolare che collega un'altra mia storia, Letter of Regret, a questa.
Detto ciò, un indizio molto nebuloso, spero che abbiate voglia di lasciarmi una recensione, anche piccina piccina.
Un saluto,
izumi
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