À Demian
Capitolo primo
Attesa
Le note basse di
una chitarra elettrica picchiavano secche, rimbombando tra le pareti
del
corridoio vuoto. Poi, l’urlo euforico della voce distorta e
grezza esplose
distintamente mangiando ogni altro suono, e su quelle grida di sfogo
liberato
Demian si mosse appena, sprofondando di più nella sedia,
alla ricerca inconscia
di una posizione più comoda.
L’auricolare
sinistro sfuggì al suo orecchio e, con la musica
d’un tratto ovattata, sussultò
e si raddrizzò con un sobbalzo e uno sprazzo improvviso di
consapevolezza. In
un primo momento di confusione non riuscì a mettere a fuoco
dove si trovasse e
l’istinto lo portò a guardarsi intorno con
sospetto, solo per pochi istanti,
prima di riprendere il controllo e lasciarsi avvolgere da
un’inaspettata
sorpresa.
Si era
addormentato.
Semplicemente addormentato.
Non ci era mai
riuscito, non in ospedale, passava le ore d’attesa in uno
stato di torpore e
dormiveglia nel migliore dei casi, ma riposare veramente era
impensabile per
troppe ragioni, per la tensione, il nervoso.
La musica doveva
essere riuscita, chissà grazie a quale miracolo, a riempire il vuoto apatico di tutto quel bianco
e la solitudine
dell’attesa, permettendogli di trovare tregua persino su una
di quelle seggiole
da ospedale, di ferro e finta pelle anallergica con
un’inesistente imbottitura
di gommapiuma.
Eppure,
come sempre, bastava un breve frammento di silenzio per farlo ricadere
nel
disagio e in quei pensieri sui quali si riprometteva di non indugiare
troppo
a lungo, per non permettere all’angoscia di scivolare nella
costernazione.
Nemmeno la stanchezza delle ultime quarantotto ore prive di sonno
bastava a
sedare l’ansia.
Lentamente,
ancora intontito, sollevò il viso per scrutare il cielo
oltre il finestrone
dagli infissi bianchi, scrostati, che dal fondo del corridoio lasciava
penetrare
tenui raggi di luce tiepida.
Stava
albeggiando, dovevano essere quasi le sette del mattino, anche se non
poteva
esserne del tutto certo, il cellulare si era scaricato la sera prima e
naturalmente non gli era stato possibile in alcun modo tornare a casa.
Quasi
due giorni senza dormire e quasi senza mangiare, si sentiva a pezzi e
forse
avrebbe dovuto farsi una doccia, ma non voleva muoversi, se lo era
ripromesso.
Sarebbe rimasto seduto lì fino a quando lei non si fosse
svegliata, sarebbe
rimasto finché non l’avesse vista respirare
normalmente, e sorridergli magari.
Si
sistemò sulla sedia come un essere umano e non come
l’invertebrato che si
sentiva essere, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e
cercò di trattenere
l’ennesimo sbadiglio e il dolore alla spalla e al
fondoschiena. Il corpo era
intirizzito, la spalla decisamente anchilosata e il collo
irrigidito per la discutibile posizione con cui aveva trascorso la
nottata.
Tentò
di farlo scrocchiare per liberarsi di
quella fastidiosa sensazione di non potersi muovere liberamente e
imprecò
sottovoce quando lo sforzo andò a vuoto. Ai vari
indolenzimenti, contribuivano
in maniera dolorosa i crampi allo stomaco per il lungo digiuno,
così dopo aver
contemplato la parete disadorna di fronte a sé e la porta
chiusa della camera,
pensò che forse, almeno, poteva concedersi di allontanarsi
qualche istante,
giusto il tempo di recuperare qualcosa che gli desse le energie per non
crollare e finire ricoverato a sua volta.
Si tolse
le cuffiette e le arrotolò impaziente
intorno al lettore CD, poi l’infilò malamente
nella grande tasca della felpa,
insieme alle sue mani irrigidite e screpolate dal freddo, e di
malavoglia si
costrinse ad alzarsi e a ripercorre quel maledetto, familiare,
corridoio vuoto.
Era
tutto tremendamente bianco lì dentro.
Erano
bianche le pareti.
Era
bianco il pavimento.
Persino le finestre malandate e piene di spifferi erano bianche e
l’unica nota
di colore erano le piccole e scomode seggiole beige stinto che
punteggiavano il
muro.
La
fissazione degli ospedali per il bianco
Demian non l’aveva mai compresa. Ci aveva provato, ma quello
restava ai suoi
occhi il colore più estraniante e triste, sapeva di ricordo
sbiadito e si
ritrovava spesso a pensare che lo odiava, con ogni fibra del suo essere.
Era
meravigliosamente paradossale che fosse
generalmente riconosciuto come la sfumatura della purezza, come
sinonimo di
salvezza. Tutto ciò che era candido era bianco, il bianco
rilassava le persone
normali.
Ma non
lui.
Demian
se ne sentiva sconfitto, risucchiato in
un nulla annichilente ogni volta che si ritrovava a camminare in tutta
quell’assenza
di colore. Il bianco accentuava solamente il senso di rovina che
permeava
l’ospedale e sapeva di resa, come una bandiera sventolata
tristemente a
ricordare che non tutti lì dentro potevano farcela.
Quella
verità nessuno la conosceva meglio di
lui.
Se fosse
uscito avrebbe trovato suoni, rumori,
vita.
Distrazioni.
Gli
bastava oltrepassare il perimetro
dell’ospedale però, per ritrovarsi in una
dimensione sospesa e senza tempo, fatta
di inquietanti silenzi e facciate in stile dopoguerra, con le camere
rigorosamente bianche dai soffitti alti quattro o cinque metri ma non
altrettanto larghe. Gli davano un malsano senso di claustrofobia e
instillavano
in lui un desiderio istintivo di fuga.
A
quell’ora poi non c’era nemmeno un’anima
nei
dintorni, solo lui, che neanche avrebbe dovuto poter stare
lì, ma, ogni volta
che accadevano quegli imprevisti, Marisa e il Primario del reparto gli
permettevano di aspettare fuori dalla camera fino all’orario
delle visite.
Chiudevano
un occhio perché Demian in ospedale,
davanti a quella stanza, ci aveva passato più giornate che
non seduto in un
banco di scuola, e la televisione con le sue stupide serie con medici
fantocci
tanto brillanti da curare ogni malattia non lo aveva mai illuso o
ingannato.
Lui la
verità la conosceva fin troppo bene,
sapeva che era tutto troppo grande e vuoto e che quel vuoto lasciava
dentro
solo una profonda tristezza che lo annientava ogni giorno di
più.
Aprì
una porta a due battenti e scese le scale
per raggiungere il piano terra, dove sapeva di poter trovare delle
macchinette.
Sperava di resistere un altro paio d’ore almeno,
però nonostante i crampi
l’idea di una qualunque forma di sostentamento lo nauseava,
per questo aveva un
allucinante bisogno di caffè.
La
macchinetta delle bevande era vicino alla
porta d’ingresso.
Un
capannello di persone aveva assediato
l’infermiera di turno al banco informazioni e stava facendo
un discreto
schiamazzo che acuì solamente di più il suo
già grande mal di testa.
Avrebbe
voluto parlare con Marisa, giusto
l’indispensabile per farsi un’idea un po’
più chiara della situazione e magari
ricevere una qualche forma di rassicurazione, non che ci avrebbe
creduto o
avrebbe apprezzato, ma non si sentiva abbastanza coerente in quello
stato per avere
certezza di cosa desiderasse veramente sentirsi dire.
Forse,
solo parole sterili da una persona
familiare, la solita storia ripetuta con affettuosa e sconcertante
ipocrisia.
La
povera infermiera non sembrava essere in
condizione di dedicargli qualche minuto in quel momento,
perciò si rassegnò a
recuperare dalla tasca dei jeans qualche spicciolo e
selezionò il caffè forte
con abbondanza di zucchero, nella speranza che glielo rendesse
più tollerabile.
Demian
detestava quella brodaglia amara ma non
aveva troppe alternative che lo tenessero in piedi.
Resisti
ancora un poco.
Continuava
a ripeterselo, solo qualche ora e poi,
quando avesse parlato con lei, sarebbe finalmente tornato a casa e
avrebbe
dormito tutto il giorno.
La
macchinetta iniziò a ronzare mentre
compariva il messaggio “attendere” sul display.
Dondolò da un piede all’altro e
quando finalmente il segnale scomparve estrasse il bicchiere bollente
dallo
sportellino.
Subito
imprecò: non era scesa la paletta di
plastica per mischiare lo zucchero. Un classico, non era di certo la
prima
volta che gli capitava, la sua esistenza non aveva mai brillato per
fortuna, ma
quella giornata nello specifico si preannunciava uno schifo peggiore di
quello
che era solito affrontare.
Rassegnato, lo buttò giù tutto d’un
sorso.
Non sapeva nemmeno di caffè, sembrava una pallida
imitazione. Come se, avendo
richiesto più zucchero, avesse perso proporzionalmente il
diritto ad avere la
stessa dose di caffè che viene normalmente data.
Gettò il bicchiere con stizza
nel primo cestino che riuscì a trovare e sfilò
dalla tasca dei jeans neri un
pacchetto di sigarette, per levarsi quel sapore ripugnante dalla bocca.
Non lo
avrebbe mai capito, perché odiava il caffè.
Forse, perché semplicemente gli
ricordava l’ospedale, e per uno strano binomio mentale
assumeva nella sua bocca
il sapore del catrame.
«Brutta giornata?»
Era
così concentrato che non comprese subito
che quella voce dalla delicata cadenza veneta si stava rivolgendo
proprio a lui.
Con fin troppa indolenza si volse per incontrare il viso
dell’infermiera. Era
difficile guardarla, per lui, e quando si soffermava sui suoi occhi
scuri di
cioccolata fondente, opposti ai suoi, si convinceva che lo sarebbe
stato
sempre, anche in futuro.
Quando
l’aveva conosciuta Elena era solo una
tirocinante del reparto di oncologia, anni prima, che
l’università aveva
assegnato proprio a quell’ospedale per due mesi. Ma ormai era
stata assunta
proprio lì, ironicamente, e questo l’aveva resa
odiosamente e faticosamente
familiare per lui.
Anche
troppo.
Annuì
impercettibilmente, irritato per averla
incontrata già di prima mattina e seccato dalla propria
irritazione. L’unica
nota veramente positiva, era che il suo umore con lei avrebbe potuto
essere
estremamente variabile, e ad Elena non sarebbe importato comunque, il
modo in
cui le si rivolgeva non la disturbava particolarmente.
«Che
dici, me ne offri una?»
Dem inarcò un sopracciglio e la squadrò con
sufficienza «Non dovresti
nell’orario di lavoro» le fece notare. Solo
perché odiava varcare quella
soglia, dove in bella vista stava un cartello “vietato
fumare”, per sentire
l’odore di fumo addosso a ogni dipendente che poi si prendeva
cura di malati
che, per quell’odore, stavano morendo. Certo, era un
ragionamento senza senso,
come la maggior parte dei suoi pensieri quando si trattava di quel
posto.
Probabilmente,
contestare Ellie per principio
contribuiva al suo sistematico contradditorio.
Certamente,
se Jenevieve non avesse avuto il cancro,
non gliene sarebbe fregato niente dell’odore del fumo o di
qualunque altra
cosa.
Avrebbe
persino regalato ad Elena il
pacchetto.
Magari
avrebbe smesso di avercela con lei.
Ellie,
come prevedibile, sorrise di quella sua
osservazione «Ho finito il mio turno, piccolo
moralista»
Non la guardò, scrollò semplicemente le spalle e
le porse il pacchetto di
sigarette. La ragazza ne prese una e, senza consenso, lo
seguì fuori dalla
porta girevole e si appoggiò al muro accanto a lui.
Quel giorno aveva voglia solo d’ignorarla e fingere che non
esistesse.
Era
bella Elena, il tipo di bellezza che
faceva voltare gli uomini quando passava per strada, con una folta
chioma castana,
due grandi occhi scuri, la carnagione olivastra e le gambe lunghe e
snelle. Il
tipo di ragazza che, quando era in vena, attirava anche la sua, di
attenzione.
Ma, forse per il rapporto che avevano, ormai non era più
particolarmente
toccato dalla sua presenza accanto a lui.
«Come
sta tua madre?» domandò ad un certo
punto lei, soffiando fumo.
Deglutì rumorosamente «Come ieri»
mormorò, cercando di tenere solida e sicura
la voce, mentre con gli occhi inseguiva gli inesistenti fili verdi del
cortile
interno dell’ospedale, per non rincorrere il guizzo di un
presentimento che lo
tormentava.
Era un
semplice rettangolo di terra morta
delimitato da alberi di magnolia spogli. Lo osservava sempre, dalla
finestra
del piano superiore, e si domandava a cosa servissero quei cespugli di
fiori
moribondi e mal curati.
Davvero
non capiscono che questa raccolta di natura morta rende il paesaggio
perfino
più triste?
Doveva
essere colpa sua, era lui ad aspettarsi
troppo, a pretendere più del dovuto da un posto che le
persone le accoglieva a
lungo solo per abituare i parenti a non averle più intorno,
per facilitare così
la fase “Perdita della madre/figlia/cugina di
terzo grado e così via”.
«Hai
passato di nuovo qui tutta la notte?» Elena
interruppe ancora il filo assurdo delle sue elucubrazioni, e dal suo
tono
trapelò una nota di profonda pena che lo ferì e
irritò più del dovuto.
«Non
ho bisogno del tuo conforto» chiarì,
scoccandole un’occhiata eloquente. Non sopportava la
compassione che tutti gli
riservavano, lo faceva sentire un animale ferito, e lui non era un
debole.
«Ok»
borbottò l’infermiera tranquillamente,
gettando a terra il mozzicone di sigaretta e schiacciandolo poi con il
tacco
della scarpa «Allora suppongo che ci vedremo
domani» continuò abbozzando un
cenno di saluto con la mano prima di allontanarsi senza aspettare una
sua
risposta, che comunque non sarebbe arrivata.
Osservò
la sua figura longilinea finchè non fu
scomparsa dal vialetto, poi imitò il suo gesto,
gettò il mozzicone e rientrò.
Sperava che maman avesse aperto gli occhi, nel frattempo, aveva il
sonno
leggero nell’ultimo periodo ed era raro che riuscisse a farsi
una completa
dormita.
Gli tremò la mano, quando la posò sulla maniglia
della porta della camera di
Jenevieve. Strinse le dita in una contrazione che sapeva di spasmo, e
schiuse
l’uscio piano per non disturbarla in caso stesse ancora
riposando.
La sera
prima, quando finalmente aveva
abbandonato la terapia intensiva e le avevano dato una stanza, Demian
era
rimasto con lei e le aveva tenuto la mano fino a che non si era
addormentata.
Dopo no,
non ce l’aveva fatta a fingere di
sopportare di vederla in quello stato, era semplicemente fuggito, aveva
preferito aspettarla altrove.
Il
sottile rumore della bombola di ossigeno
permeava l’aria e sostituiva il respiro un po’
affannato che aveva imparato ad
associare a sua madre. La trovò seduta, per non dire
abbandonata, contro la
spalliera del letto, con il capo leggermente reclinato sulla spalla.
La
guardò dalla soglia per qualche istante,
prima di palesarsi.
Guardò
il tubo che dal basso torace drenava il
liquido dai suoi polmoni, pensò che le cannule nasali erano
una visione quasi
quotidiana, ma quel tubo, quel foro all’altezza delle costole
più basse, quello
sarebbe sempre stato un qualcosa di irrimediabilmente estraneo.
Jenevieve
inclinò il viso sciupato verso di
lui e abbozzò un sorriso tirato sui denti rovinati, ma il
suo sguardo sembrò
trapassarlo come non l’avesse visto davvero.
«Sei
ancora qui tesoro?» la
sua voce arrochita e secca lo fece
sussultare. Aveva un aspetto tragicamente deperito e sgradevole, la
stanchezza
l’abbatteva brutalmente rendendo anche il gesto
più semplice un’impresa in
grado di prosciugarla. La pelle le aderiva alle ossa, la vedeva ogni
giorno,
eppure ora riusciva ad apparirgli persino più magra,
più spolpata.
A
quell’immagine distorta di maman non
riusciva ad abituarsi, per quanto di tempo ne fosse trascorso.
Jenevieve
era stata bionda come il sole, e
come il sole erano stati i suoi occhi, dorati e caldi, e il suo sorriso
raggiante e a tratti buffamente immaturo. E Demian aveva provato un
orgoglio
smisurato per la sua bellissima maman, al suo sguardo infantile
splendida più
di qualunque altra mamma avesse mai incontrato, perché tutte
erano serie e
antiche, mentre lei era distratta e giocosa.
Era
difficile ora sopportare che quegli stessi
occhi da cerbiatta furbi e dispettosi fossero resi così
offuscati e assenti a
causa degli antidolorifici, quasi vuoti avrebbe detto, se non si fosse
ripetuto
migliaia di volte che quella donna era sempre sua madre.
Si
costrinse a inventare una forma di sorriso
e si avvicinò a lei.
«Ti
senti meglio?»
C’era un altro posto-letto in quella stanza. Fortunatamente
era vuoto quel
giorno, non doveva bisbigliare, ma il tono uscì comunque
leggero e delicato,
come si stesse avvicinando ad una bambina dal ginocchio sbucciato e
dovesse
ricorrere a tutta la tenerezza che provava per lei.
Jen
sollevò gli occhi al soffitto «Sto bene,
tu invece hai una cera pessima. Devi tornare a casa a dormire, mon
amê. Non
puoi restare tutte le volte»
Demian si trattenne dal risponderle male.
Quella
mattina non era in vena di scherzare o
di tentare per l’ennesima volta di sdrammatizzare sulla loro
condizione, ma non
voleva nemmeno ferirla. Era facile chiedergli di tornarsene a casa come
se
nulla fosse, ma come avrebbe potuto dormire sapendola lì da
sola?
Non era
la prima volta che accadeva, di certo
non sarebbe stata l’ultima. Nonostante ciò, gli
era impossibile assistere alle
crisi respiratorie di sua madre e fingere che fosse tutto nella norma.
Era
stanco di vedere l’ambulanza che d’urgenza la
portava via, era stanco di tutto.
Desiderava avere solo più tempo, ma ogni volta che Jen stava
male realizzava
che il tempo stava iniziando a scadere e sentiva solo un gelido panico
dentro
di sé.
Si perse
nell’intreccio di fili che la
collegavano alle macchine, in quel bip che scandiva i battiti del suo
cuore, in
quegli aghi che le bucavano la bella pelle, sulle mani, pompando nel
sangue le
dosi di morfina necessarie e non farla soffrire, e gli
sfuggì una smorfia.
«Maman,
io sto bene» tagliò corto.
Capì
che aveva colto l’antifona, perché
esitò
un momento prima di parlargli ancora. Gli prese la mano e se la
portò al viso,
baciandogli il dorso.
«Dami, davvero, non devi preoccuparti in questo modo per me.
Va’ a casa e
riposati. Non serve che tu trascorra la notte qui ogni volta»
Si
lasciò andare ad un sorriso più dolce e si
aggrappò alle dita magre di lei per contenere
l’amarezza.
«Guarda
che io lo faccio per l’infermiera» la
prese in giro.
Era
ancora bella, quando aggrottava le
sopracciglia in un moto disappunto e arricciava le labbra, come pronta
a fare i
capricci più che a rimproverarlo.
Era
bella ed era soffice di una dolcezza che
lo scioglieva.
«Non
è troppo grande?»
Finse di
rifletterci un attimo, poi si morse
il labbro inferiore per non tradire con un sorriso il tono serio
«Credo abbia
ventitré anni. Ho sempre preferito le donne mature»
Sua
madre si drizzò all’istante,
scandalizzata, ignorando il fatto che avrebbe dovuto muoversi il meno
possibile
«Otto anni di differenza, te lo scordi! Ti proibisco di
rivederla
categoricamente. Ci manca solo che porti il mio bambino sulla cattiva
strada!»
Demian
provava un sottile piacere, quando Jen
giocava a fare il genitore. Era ovvio che fosse solo finzione, ma
riusciva
comunque a trasmettergli l’impressione di essere meno solo, e
dopo anche lei
sembrava più felice e soddisfatta.
«Sette,
ho quasi sedici anni!» la rimbeccò,
sollevando affettuosamente l’angolo della bocca in una
smorfia ironica. Si
chinò su di lei a stamparle un delicato bacio sulla fronte,
e sorrise fra i
capelli corti cercando di ricordare come fossero prima, lisci e morbidi.
«Rifiuterò
le sue avance da oggi» le promise con
finta condiscendenza.
Se maman
avesse saputo le cose che aveva già
fatto con Elena forse ne sarebbe morta oppure, se ne avesse avuto la
forza, lo
avrebbe appiccicato al muro con un sonoro ceffone. Eppure in parte
doveva
saperlo, che sulla “cattiva strada” ci era
già finito da un pezzo, da molto
prima che la malattia di lei peggiorasse al punto da renderle
impossibile il
vivere serena a casa sua.
«Se
ti senti meglio vado a chiedere quando
potrò portarti a casa» asserì infine.
Jen
però scosse la testa.
Demian
non le aveva notate, quelle occhiaie
profonde, e neanche la piega dolente della bocca.
Non
stava per niente meglio.
Non
poteva guarire, non era un illuso e lo
sapeva fin troppo bene, ma veramente non poteva impedirsi di sperare
che il
tempo si potesse dilatare ancora un poco.
Non era
assolutamente pronto a perderla. Non
sapeva neppure come spiegarlo alla sua Sarah, che maman un giorno
semplicemente
non ci sarebbe più stata e basta. Se poi pensava a sua
sorella, pensava che forse
anche lei avrebbe potuto non esserci più, si sentiva come se
il terreno sotto i
suoi piedi si stesse sfaldando e non ci fosse più nulla di
concreto a cui
potersi aggrappare.
«Ci
penseremo più avanti» stava intanto
dicendo Jenevieve «Lo sai che per routine mi terranno qui
almeno un paio di
giorni. Seriamente, adesso va’ a dormire, tresor»
Demian
voleva andarsene da quella stanza con
tanta intensità che stavolta accolse senza riserve il
desiderio della madre. Si
chinò a baciarla di nuovo sulla guancia e, dopo aver
respirato il profumo della
malattia che le aleggiava intorno, si congedò, promettendo
di tornare presto.
Uscì dall’ospedale a passo svelto, schivando
chiunque potesse riconoscerlo. Non
era il momento opportuno quello per sentirsi fare le solite domande. Si
calcò
il cappuccio della felpa sulla berretta nera da cui spuntavano ciuffi
di
capelli bianchi, e raggiunse il parcheggio dove aveva lasciato il suo
motorino.
Rimpiangeva di avere solo quindici anni, di essere così
inutile, di non poter
fare mai nulla di concreto per poter aiutare le persone che amava.
Erano le otto del mattino quando arrivò a casa.
L’ospedale
distava poco dal centro città e
quindi dalla sua scuola, ma casa sua era molto più lontano,
in un paesino
limitrofo, e per poter rientrare gli occorreva sempre almeno
mezz’ora.
Il campanile della chiesa vicina, con il fastidioso
“Don” delle sue campane che
scandiva il tempo implacabile, gli ridiede una dimensione temporale,
quella che
perdeva quando rimaneva troppo a lungo in quel luogo bianco tagliato
fuori
dalla vita vera.
In
teoria avrebbe anche potuto andare a
scuola, era da più di una settimana che non si presentava.
Già l’anno prima si
era preso troppe libertà a dire dei professori, aveva perso
la maggior parte
dell’anno e nonostante fossero stati molto permissivi niente
l’aveva salvato da
una disastrosa bocciatura. Ed ora, nel consiglio di classe ci leggeva
solamente
un’ostilità nei suoi confronti nata
dall’esasperazione, lo sapeva benissimo che
con il suo assenteismo cronico avrebbe probabilmente perso di nuovo
l’anno.
Non che
la cosa avesse un qualche peso.
Quando
vedeva sua madre capiva che di cose
stupide come la scuola o il futuro non poteva importargli di meno.
Chiuse la
porta blindata dietro di sé, diede due giri di chiave e
rilassò le spalle.
Entrare lì dentro, solo, senza nessun tipo di ansia gli
alleggerì per pochi
attimi il mondo. Ma poi la luce lampeggiante della segreteria
telefonica gli
ricordò quasi crudelmente che aveva ancora dei legami che lo
vincolavano a
tutto ciò che si stendeva oltre la soglia di casa.
Era troppo presto perché qualcuno gli avesse lasciato un
messaggio in
mattinata. Era più probabile che fosse della sera
precedente, forse di sua zia.
Premette il bottone e la registrazione rilasciò la voce d
zia Claire. Sembrava
agitata e Demian fu percorso dal brivido tipico di quando si aspettava
solo
brutte notizie.
“Ciao Dami, i medici ti hanno detto qualcosa? Come sta Jen?
Si è svegliata? E
tu come ti senti? Se hai bisogno basta che mi chiami e vengo
subito”
Demian inarcò un sopracciglio, perplesso. Zia Claire sapeva
perfettamente come
stava sua madre, cosa potevano avergli detto o qualsiasi altra cosa.
Quasi sicuramente
aveva già chiamato in ospedale per avere le informazioni che
ora stava
chiedendo a lui.
La voce della zia s’interruppe un momento, una pausa
abbastanza lunga da
permettergli di deglutire. Poi, incerta, la registrazione riprese
“sai… Sarah
aveva una visita ieri. Mi ha chiesto perché non
c’eri”
Questa volta impietrì. Se ne era completamente scordato.
In
verità se ne scordava quasi sempre, perché
odiava quelle visite più di tutto, e toccava sempre a Claire
coprirlo, per non
far rimanere male la sua sorellina. Si ritrovò a supplicare
mentalmente che
Claire non avesse aperto bocca con la bambina e che Sarah non fosse
terribilmente arrabbiata con lui. Ma in verità
già sapeva prima ancora di
sentirlo che la zia aveva vuotato il sacco, così come era
certo che la sua
petite peste non gli avrebbe mai tenuto il broncio.
“Si è un po’ spaventata” ecco,
le aveva detto della mamma, lo sapeva.
Un’altra
lunga pausa.
Una di
quelle che odiava sentire. Prima che la
voce potesse riprendere aveva già afferrato il giubbino nero
e lo stava
indossando di nuovo. Sarah non doveva preoccuparsi, per questo le
notizie che
le venivano date erano dosate e addolcite col miele, perché
lei non doveva
assolutamente provare ansia.
“Comunque ora sta meglio, davvero. Non stare in pensiero.
Sarah voleva che te
lo dicessi, dice che tu devi sapere sempre tutto altrimenti ti
preoccupi. È
molto dolce. Ti saluta e dice di ricordarti che ti vuole
bene… ciao Dami, ci
vediamo presto”
Anche quel giorno non avrebbe visto scuola. Afferrò il
cellulare e ricordò a
scoppio ritardato che era scarico. Attraversò a grandi
falcate il corridoio per
raggiungere la sua camera da letto, spalancò la porta per
ritrovarsi il cane
bellamente addormentato fra le sue lenzuola. Il cucciolo
alzò appena la testa
quando lo vide e prese a scodinzolare gioioso.
«Maledizione Lala! Lo sai che non voglio che sali sul
letto!» inveì
scacciandola malamente. Lalami, una piccola, soffice e pestifera
bestiolina che
amava riempirgli il letto di peli, con la lingua a penzoloni,
cominciò a
saltargli addosso.
«Giù Lala! Non è proprio il momento!
Levati dalle scatole!» riuscì ad
allontanarla con una gamba mentre infilava il braccio dietro al letto
per
raggiungere il carica batteria, sempre attaccato a quella presa
nascosta.
Collegò il cellulare e in maniera quasi frenetica
cercò nella rubrica il numero
di Claire.
Il telefono iniziò a emettere il suo snervante
“Tuuu” che sapeva quasi di
accusa. Come se qualcuno, dall’altro capo della cornetta, lo
stesse
apostrofando con una sorta di disprezzo.
Claire ci stava mettendo troppo a rispondere. Poteva star facendo
qualunque
altra cosa, non era detto che fosse accaduto niente di grave, ma il
pensiero di
aver lasciato Sarah da sola quando le aveva promesso che
l’avrebbe accompagnata
lo tormentava. Per non parlare di quel “ora sta
bene” che lasciava presupporre
un qualcosa di non troppo positivo prima.
«Pronto?»
«Zia!» esclamò lui tirando un sospiro di
sollievo «Che cosa le hai detto?» il tono
aggressivo celava malamente un’accusa.
«Solo che hai accompagnato Jenevieve all’ospedale
per dei controlli» chiarì lei
pacatamente.
Sembrava un’affermazione piuttosto normale e innocua, e non
riusciva proprio ad
afferrare cosa avesse in tutto questo allarmato la sorella. Come se gli
avesse
letto nel pensiero Claire osservò
«Non è una stupida Dami. Ha capito che qualcosa
non andava. E la mia bugia le
ha fatto credere che fosse più grave del dovuto»
Maledisse Sarah, perché per avere solo nove anni era
decisamente troppo
sveglia, oltre che terribilmente sfortunata.
«Ok, arrivo» si ritrovò a dire prima
ancora di averlo pensato
«Non è necessario, davvero. È stato
solo un attacco di panico, oggi stava così
bene che ha anche deciso di andare a scuola»
Si sentì sbiancare di collera per quanto la sua carnagione
pallida glielo
concedesse.
«E tu glielo hai permesso? Lo sai quanto è
instabile dopo un attacco, non
avresti dovuto permetterglielo!»
Staccò il cellulare. La conversazione non sarebbe durata
ancora a lungo, e per
quella manciata di secondi la batteria avrebbe retto prima di spegnersi
di
nuovo.
«Vado a prenderla. Chiama la scuola e avvisa che
uscirà prima»
Guardò l’ora: più che prima, sarebbe
praticamente uscita subito dopo l’inizio
delle lezioni.
«Avanti Dami, non esagerare. Non è il
caso»
«Ho detto che sto andando, quindi è meglio che
chiami o la porterò via di lì
senza il tuo consenso»
Riattaccò bruscamente senza aspettare risposta.
ANGOLO AUTRICE
Buongiorno!
Prima di
tutto, scusate, ho già trasgredito.
Avevo detto mercoledì e invece finisco con il postare di
sabato… ho tre motivi!
Uno
valido, l’altro discretamente valido, il
terzo diciamo forza maggiore!
Il
mercoledì mattina sono stata chiamata per
lavorare con poco preavviso e non pensavo che mi sarei liberata solo
sul
pomeriggio molto tardo (questo è il motivo valido), e poi ho
fatto male i miei
calcoli.
Perché
ok, ora partono le ammissioni
imbarazzanti.
Non ho
scelto il mercoledì a caso, l’ho scelto
perché la sera esce sempre una puntata di Yuuri! On ice e
beh, non mi sono
bruciata il cervello per questo anime giuro, sono tranquillissima,
smanio solo
come una pazza tutta la settimana e in giornata non riesco a pensare ad
altro,
tutto qui!
Quindi,
visto che l’attesa del mercoledì non
mi passa mai, mentre quando devo pubblicare per l’ansia mi
sembra sempre che il
tempo voli, ho deciso di sovrapporre le due cose…
Sì.
L’ho
fatto solo per l’anime, il mio senso
delle priorità fa schifo, ma davvero io ci muoio, la
curiosità mi ammorba!
E quindi
alla fine ho capito che pubblicare
mercoledì sarà impossibile, perché
penso solo a Yuri! E Yurio pure, è adorabile
Yurio…!
Terzo
motivo, il giorno dopo sono partita per
la Francia e solo ora ho recuperato un wifi, quando ho saltato la
pubblicazione
non avevo pensato che poi non avrei avuto tempo fino a oggi, vi chiedo
profondamente scusa.
Lato
positivo: non so quanti di voi vecchi
lettori ricordino questo dettaglio, ma in questo momento sono
esattamente a
Kerlaz, e proprio oggi ero esattamente su una scogliera non casuale, e
ho
mangiato un kouign amann ai piedi di un pozzo altrettanto non casule!
È
stato un po’ come ritrovare un luogo
familiare e ho provato un moto probabilmente immotivato di
nostaglia… ma forse
sono solo strana!
La
prossima volta non tarderò, giuro che farò
la brava.
Ah,
Fabula Nera grazie di essere tornata, non
sai quanto sia confortante ritrovare il tuo nome
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