Cera una volta
Quando avevo 112 anni,
sono stata adottata dal un chierico, il quale gestiva un orfanotrofio.
Un giorno mi sono svegliata in quella che ancora non sapevo essere casa
loro. Mi fu raccontato che i ragazzi mi avevano trovato moribonda fuori
dal bosco vicino al villaggio. Non ricordavo nulla, nemmeno il mio
nome. Mi sentivo a disagio, ma tutti, in particolare Omar, mi
rassicurarono dicendo che ero la benvenuta e potevo restare
finchè volevo. Sono sempre stata tentata di scappare per andare
alla ricerca della mia vera famiglia. Sapevo di essere diversa, sebbene
non ricordassi proprio nulla del mio passato. Qualcosa dentro di me, mi
diceva che quello non era il mio posto e che meritavo di meglio.
Aspettavo la notte per sgaiattolare dalla finestra con un fagottino che
tenevo sempre pronto sotto al letto. Puntualmente, dopo aver percorso
diverse decine di metri nel buio, mi ritrovavo a guardare il cielo
senza sapere dove andare. Ripetei i miei tentativi diverse volte
nell'arco di sei mesi. Col tempo feci l'abitudine a quella famiglia e
alla sua routine, mentre crescevo e la speranza di ritrovare le mie
radici si affievoliva in me. Vivere e giocare con quei giovanotti, alla
fine, era abbastanza divertente, per non parlare dell'attrazione che mi
accorsi entrambi provavano per me. Mi lusingava, anche se non pensavo
mai sul serio alla questione sentimentale. Mi piaceva flirtare con loro
e metterli ogni tanto in competizione l'uno con l'altro. Solo il
mezzorco sembrava essere indifferente al mio fascino femminile; questo
fatto da un lato mi sollevava, ma dall'altro mi infastidiva. Com'era
possibile che non piacessi anche a lui?
Ho sempre ammirato Ikari per il suo aspetto. Grazie al mio amore per le
cose belle, l'ho sempre guardato con un misto di stupore e ammirazione,
quasi fosse una bestia magica. Magari non l'ho mai detto, ma gli ho
fatto un sacco di domande, specie quand'eravamo più giovani.
Tuttavia, dato che non sapeva alcunché delle sue origini e il
discorso sembrava turbarlo, a un certo punto ho smesso. Per pura
curiosità scientifica, e anche per aiutare Ikari, lo ammetto, ho
fatto alcune ricerche nella biblioteca di Priapurl, ma senza successo.
Infine ho rinunciato, rimandando la ricerca a un futuro in cui avrei
trovato una fonte di informazioni migliore. Ho finito per considerarlo
una persona normale come Ragnar e il figlio del chierico, e non ci ho
pensato più, sebbene la mia ammirazione per la sua vera forma
permanesse
A 116 anni, ero oramai la donna di casa e mi occupavo regolarmente
delle faccende. Una volta compiuta la maggiore età, avevo ormai
accettato la mia nuova vita. Dissi al padre dei ragazzi che, oltre ai
lavori di casa, volevo fare qualcos'altro. Lui rispose che, se
continuavo a dare una mano, non aveva nulla da ridire. Così
andai in paese e raggiunsi la bottega dell'orafo. Da alcuni anni
ammiravo i gioielli esposti nel suo negozio. La curiosità e
l'attrazione per le cose belle ebbero la meglio, così entrai e
domandai se potevo diventare sua allieva. L'orafo mi rivolse uno
sguardo strano, che mi inquietò. Accettò, nonostante mi
accorsi che era titubante.
La mia passione per i gioielli fu vinta soltanto da quella per un altro
tipo di arte. L'Arte. Un giorno, sbirciando in un vecchio baule nel
retrobottega alla ricerca di un materiale per un gioiello che stavo
fabbricando, trovai un tomo polveroso. "Le basi della magia" era il
titolo che troneggiava sulla copertina. Era ben rilegato e, malgrado il
tempo, non sembrava rovinato. Forse nessuno lo aveva mai usato. Iniziai
a leggerlo, dimenticando dove fossi e il mio lavoro. Inutile dire che,
al ritorno, presi una lavata di capo dall'orafo. Mi trattenni a
malapena dal rispondergli in malo modo, spiegandogli invece il motivo
della distrazione. Lui mi rivelò che sua moglie era una
maga e che il libro apparteneva a lei. Mi raccontò solo che era
morta poco dopo il loro matrimonio. Nei suoi occhi si leggeva un
immenso dolore. Mi sorpresi a domandarmi come mi sarei sentita se
avessi perso una persona che amavo. Fu là che mi resi conto che,
nonostante l'affetto che provavo per Alex, Omar e il loro padre, non
avevo mai provato ad amare veramente. Mi domandai cosa si provasse e
come si faceva a innamorarsi. Quando feci per restituire il libro,
l'orafo mi fissò con un'espressione enigmatica e mi disse di
tenerlo. "È rimasto lì per cinquant'anni, indisturbato.
Se l'hai trovato c'è sicuramente un motivo," si
giustificò. Così portai a casa il tomo e lo finii di
leggere in poche sere. Passai qualche notte sveglia, a meditare su
ciò che avevo appreso. Il giorno seguente al ritrovamento del
libro di magia, iniziai a fare piccoli esperimenti. Scoprii di essere
in grado di percepire gli incantesimi presenti sugli oggetti e di poter
muovere questi ultimi, anche se solo quelli piccoli. Entusiasta, ne
parlai al padre dei ragazzi, il quale mi guardò per la prima
volta come se non mi conoscesse. Fu strano, ma non troppo. Da un lato
mi lusingò. L'uomo mi informò che se volevo imparare la
magia mi sarei dovuta rivolgere a un mago, che risiedeva poco lontano.
Tuttavia, lui non poteva permettersi di pagare i miei studi. Gli
assicurai che avrei mantenuto il lavoro all'oreficeria e
contemporaneamente portato avanti i miei studi. Il giorno successivo,
andai dritta dal mago di cui mi aveva parlato. Era un umano canuto con
i capelli lunghi ondulati e la barba caprina. Viveva in una casa poco
distante dal villaggio. Bussai alla sua porta, mi presentai e gli dissi
del mio intento di approfondire gli studi della magia. Quello mi
squadrò con un luccichio malizioso negli occhi scuri e mi
invitò a entrare. Mi mostrò generosa ospitalità,
servendomi da bere e da mangiare. Mentre titubavo sul da farsi,
stranita da quel accoglienza e percependo un'aura magica proveniente
dalla coppa in cui mi aveva versato del vino, l'uomo si avvicinò
da dietro e mi scostò i lunghi capelli dorati. La pelle del mio
collo scoperto rabbrividì, quando fu sfiorata dal suo fiato.
Sollevai istintivamente la forchetta d'argento senza toccarla con un
dito, e la scagliai sopra la mia spalla con l'intento di colpirlo. Non
desideravo farlo, nè ferire il mago, ma l'impeto ebbe il
sopravvento. Il mio gesto valse a lui una ferita sullo zigomo e a me un
mentore. Disse che ero portata per la magia, ma non lo presi sul serio,
a causa del suo comportamento ambiguo. Sin da allora, penso che mi stia
addestrando solo per avere il mio corpo. Non succederà mai,
naturalmente. Non intendevo donarmi al primo che capitava, tantomeno a
un vecchio rugoso senza alcuna attrattiva fisica. Per la mia sicurezza,
menzionai l'avvenuto soltanto al figlio del chierico; mi sembrava il
più saggio tra i ragazzi con cui sono cresciuta. Conoscendo
Ikari, temevo potesse nuocere al mago per vendicare il mio onore;
Ragnar avrebbe fatto lo stesso, ma con molta meno discrezione.
Quell'uomo mi serviva ancora per la mia istruzione. Dopo essermi
confidata, non ne parlai più ad anima viva.
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