Penne 43
Capitolo
quarantatreesimo
L’ultima
alleanza di Chiharu e Baka
«Non
sono riuscito a lasciarlo là.»
Minato
era una copia in miniatura di Naruto. Vedere il suo capo appoggiato
sul cuscino dove di solito c’era suo marito fece sentire
Hinata più
smarrita che mai. Stesa al suo fianco, gli occhi fissi sul suo viso,
gli accarezzò per l’ennesima volta la fronte
tiepida.
«Sakura
ha detto che non dobbiamo mai perderlo d’occhio»
continuò Naruto.
Se succede qualcosa, qualunque cosa, mi ha dato il permesso di
dislocarmi in casa sua.»
«Posso
tornare in ospedale con lui...» propose Hinata.
«Per
cosa? Per restare a guardarlo come stai facendo qui, e farlo
svegliare in ospedale, dove detesta andare?»
Hinata
annuì. Minato odiava l’ospedale dai tempi delle
prime
vaccinazioni. D’altronde sapere che non sarebbe stata vicina
ai
mezzi di emergenza le creava ansia.
«Stai
tranquilla. Non chiuderò occhio» le
assicurò Naruto, seduto su una
sedia accanto al letto. «Fidati di me.»
Erano
passati pochi giorni dal malore di Minato. In ospedale il bambino si
era svegliato, era stato visitato e aveva eseguito tutti gli
accertamenti. Sakura aveva detto che non era ancora sicura di cosa
potesse avere, ma aveva accennato a un’anomalia nel sistema
del
chakra, e alle domande di Naruto aveva risposto solo che era una cosa
seria, ma voleva informarsi meglio prima di sbilanciarsi.
Minato
era spaventato, ma visto che nessuno riusciva a spiegargli cosa
avesse era costantemente nervoso. Così Naruto aveva
insistito per
riportarlo a casa, dove finalmente lo aveva visto crollare in un
sonno profondo.
«Naruto...
Tu credi che questo abbia a che fare con i problemi alla sua
nascita?» domandò Hinata con un nodo in gola.
«Non
lo so, ma non importa. Sakura troverà una soluzione... E se
non la
troverà lei, ci penserò io.»
Hinata
si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Naruto
lasciò la
sedia e si sdraiò al suo fianco, cingendole le spalle con un
braccio.
«Ho
paura» la sentì mormorare. «Abbiamo
rischiato di perderlo già una
volta...»
Lui
la strinse un po’ più forte. «Non
succederà più. Te lo
prometto. Io mantengo sempre le mie promesse.»
Hinata
singhiozzò sommessamente, posando la mano sopra quella di
Minato.
Lei
e Naruto rimasero così, abbracciati, a guardare il piccolo
che
dormiva.
Dietro
la porta socchiusa, appoggiata con le spalle alla parete, Hinagiku
sperò che nessuno sentisse il battito del suo cuore.
Era
andata a cercare i genitori per la cena, ma si era trovata a
origliare più di quanto avrebbe voluto. A lei e ai suoi
fratelli
avevano detto solo che Minato non stava bene. Nessuno aveva pensato
che la cosa potesse essere seria, tutti avevano dato per scontato che
si fosse preso un’influenza o che avesse mangiato qualcosa di
strano. Erano rimasti un po’ perplessi dal fatto che Hinata
avesse
trascurato gli altri figli per alcuni giorni, ma era stata presa come
una casualità.
Ci
sarei potuta arrivare,
si rimproverò Hinagiku. Sono
quasi una kunoichi, insomma!
Ma
in quel periodo aveva pensato solo e soltanto a Jin, al modo in cui
l’aveva trattata quando era tornato, e tutto il resto era
diventato
insignificante... Di colpo rimise piede nella realtà, nel
modo più
brusco.
Si
sentiva una ragazzina idiota, poco più grande di Minato. Non
era da
lei essere così distratta, né tenere il muso e
sospirare guardando
il cielo. Che diavolo le stava succedendo?
Senza
fare rumore si staccò dalla parete e tornò
indietro verso la sala
da pranzo, riflettendo sul da farsi. Non voleva essere il tipo di
persona che centrava tutta la sua vita sul ragazzo di turno. Voleva
essere una kunoichi seria che si preoccupa del fratello e cerca di
aiutare la madre, la primogenita affidabile su cui contare. Tuttavia
era anche una ragazzina, e per una ragazzina il ragazzino di turno
è
quasi tutto. Dunque, riteneva di dover chiarire le cose con Jin una
volta per tutte, e solo allora, qualunque fosse l’esito del
chiarimento, si sarebbe concentrata su Minato. Sembrava un piano
sensato, soprattutto se elaborato da una diretta discendente di
Naruto Uzumaki.
Invece
di entrare in sala da pranzo deviò verso
l’ingresso. Si mise le
scarpe cercando di non far rumore, ma una domestica vide la luce
accesa e andò a chiederle cosa stava facendo.
«Esco.
Non disturbare i miei genitori, non è proprio il
momento» borbottò
lei in risposta. «Torno subito, tenetemi la cena da
parte.»
La
domestica esitò, ma, come tutto il personale, era stata
informata
della malattia del signorino Minato. Chinò la testa e le
ricordò di
fare attenzione.
E
così Hinagiku andò, lungo le strade illuminate
della città al
crepuscolo. Mentre camminava, due Anbu mascherati, uno con il
cappuccio e uno senza, prendevano servizio alla sorveglianza di
Chiharu Nara; in quello stesso momento Fay si tormentava ripensando a
tutte le insinuazioni che Sai aveva lasciato cadere nella visita a
casa Nara, e Akeru si chiedeva se prima o poi sarebbe riuscito ad
avere campo libero, o se avrebbe dovuto piazzare un’esca per
far
muovere Fay. Ma Hinagiku, ignara di tutte le trame che le si
dipanavano intorno, camminò dritta fino alla casa di
Kakashi, e
suonò il campanello per incontrare Jin.
Non
dovette aspettare molto: la porta si aprì quasi subito, e
quando
Hinagiku vide la zazzera grigia di Jin la sua risoluzione si
indebolì
tutt’a un tratto.
«Ciao»
la salutò lui, evidentemente sorpreso.
«Ciao...
Sono venuta per... Cioè, l’altra volta me ne sono
andata così in
fretta... Ma disturbo?» balbettò lei.
Jin
si voltò a guardare lungo il corridoio. Dal fondo proveniva
una luce
e il suono sommesso di due voci.
«Senti,
non ho bisogno di entrare» disse Hinagiku, avvertendo
nell’aria la
sensazione che lui l’avrebbe cacciata di nuovo.
«Volevo solo
scusarmi per l’altro giorno. Sono stata preoccupata per tutto
il
tempo mentre eri via, e volevo vedere come stavi... Ma mi sono
innervosita subito e ti ho trattato male. Scusa.»
Jin
la fissò confuso. Non pensava proprio che Hinagiku si fosse
comportata male nei suoi confronti, anzi era ragionevolmente sicuro
di essere stato lui quello sgradevole. Nel frattempo si rese conto
che gli era mancata, e la cosa lo mise in difficoltà anche
maggiore.
«Non
ti sei comportata male, è che... è un periodo
molto complicato...»
disse esitante.
Hinagiku
rimase in silenzio, in attesa di un seguito. Ma quello non venne.
Jin
si guardò di nuovo alle spalle, prese un respiro profondo e
strinse
la presa sulla maniglia della porta. Doveva farlo.
«Mi
dispiace, Hinagiku. Sono successe tante cose mentre ero via, e io
sono cambiato... Non credo di riuscire a tornare quello che ero. Mi
capisci?» disse lentamente.
Le
parole di Jin le piombarono addosso come una doccia fredda,
perché
anche se pensava di essere pronta a tutte le risposte, in
realtà
Hinagiku non era pronta a quella. Cercò qualche segno di
intima
sofferenza sulla faccia di lui, ma non ne trovò. Allora si
sforzò
di distruggere tutti quelli che erano sicuramente comparsi sulla
propria.
«S-Sì,
certo. Capisco» balbettò, arretrando
involontariamente.
E
avrei dovuto capirlo già la volta scorsa, invece di tornare
a farmi
dare il colpo di grazia.
«Ci
saranno tante cose di cui ti devi... E anche io...» per un
attimo
pensò di raccontargli di Minato, ma poi pensò che
sarebbe sembrato
un modo per impietosirlo e lo tenne per sé. «Va
bene. Scusa il
disturbo. Ci vediamo in giro...» mormorò, sentendo
il sangue che
oltrepassava le sue barriere e risaliva su per le guance,
inarrestabile. «Ciao!» esclamò con voce
stridula. E senza
aspettare la risposta se ne andò di corsa.
Jin
fece per andarle dietro, ma si bloccò. A quel punto
lasciò che
sulla sua faccia comparissero tutte le emozioni che aveva trattenuto
così bene – rabbia, tristezza, dolore –
e si passò le mani sul
viso da bambino. Inspirò, sbuffò,
riaprì gli occhi.
Allora
l’aveva fatta finire così, pensò
richiudendo la porta. Prima di
partire aveva fatto a Hinagiku tutte quelle promesse, le aveva
riempito la testa di tutta quell’aspettativa... E poi era
tornato e
l’aveva scaricata.
D’altronde
era vero: lui non era più la persona di prima. Adesso era un
soldato
che si preparava per la guerra, figlio di una traditrice e con il
padre in coma. Cosa poteva dare a una ragazza come Hinagiku, uno come
lui? Solo un mucchio di giornate piene d’ansia.
Tornò
in cucina riprendendo l’espressione neutra. Sedute al tavolo,
di
fronte a una cena mezza consumata, c’erano Natsumi e Haruka.
«Chi
era?» chiese Natsumi.
«Un
messaggio dell’Hokage» mentì Jin.
«Un’altra scorta.»
Haruka
non fece commenti. Era seduta dove di solito si sedeva Kakashi, ma
non lo sapeva. L’avevano liberata quella mattina, dopo averla
rivoltata come un calzino in cerca di segni di tradimento; per sua
fortuna Morino era stato impegnato con Yoshi e non aveva avuto il
tempo di occuparsi di lei, ma chi l’aveva sostituito aveva
fatto il
suo dovere fino in fondo. Non l’avevano trattata troppo male:
Haruka non aveva l’aria smagrita né ferite
visibili, però le
occhiaie sulle sue guance denunciavano la carenza di sonno.
Per
mandarla a casa avevano chiamato Natsumi, che invece di portarla nel
suo appartamento l’aveva portata in quello di Jin. Era stato
un
incontro incredibilmente imbarazzante, ora che non c’era
più la
necessità di scappare e che Kakashi stava male. Jin, che in
viaggio
l’aveva difesa a spada tratta e aveva potuto odiare
liberamente il
padre, adesso si sentiva in dovere di giustificare le scelte e lo
stile di vita di Kakashi, quasi come se lei fosse un’intrusa.
E
poi, anche se non sapeva spiegarsene la ragione, si sentiva a disagio
a stare nella stessa stanza con madre e zia.
«Vieni,
finisci di mangiare» disse Natsumi. «Mentre eri via
tua madre mi
stava dicendo che per il momento le affideranno piccoli incarichi
amministrativi, quindi sarà a casa. Pensavo di tornare nel
mio
appartamento.»
Jin
si corrucciò per una frazione di secondo: non era sicuro di
voler
restare solo con Haruka. «Ma là sei
sola» obiettò. «Haru...
Mamma può occuparsi di tutti e due.»
«Tua
madre si è già occupata abbastanza di
me.»
«E
Natsumi si è occupata abbastanza di te» disse
Haruka, e anche se
nelle sue intenzioni voleva risparmiare della fatica alla sorella,
sia lei che Jin lo presero come l’insinuazione che Natsumi
avesse
voluto prendere il suo posto.
«Io
e Jin siamo stati piuttosto bene» puntualizzò lei
infatti.
«Sai
cosa intendevo.»
Natsumi
si irrigidì. Il vecchio tono di condiscendenza di Haruka la
irritò
più del previsto.
«Io
penso che dovrebbe restare con noi» insisté Jin.
«Dove mangiano in
due mangiano anche in tre, e comunque sarà impegnata quanto
me: non
la sentirai nemmeno.»
Haruka
passò lo sguardo da Natsumi a Jin, chiedendosi se fossero
davvero
affezionati l’uno all’altra o se invece si
sentissero troppo a
disagio restando soli con lei. Alla fine scrollò le spalle.
«Va
bene» disse semplicemente. Ci sarebbero state comunque le
occasioni
per stare insieme a suo figlio.
Si
potevano improvvisare davvero molte cose con un divano e un tavolino.
La curva della schiena di Chiharu si adattava perfettamente
all’angolo tra schienale e braccioli, l’altezza
della seduta era
più o meno delle dimensioni del suo femore. E poi era
diventata più
leggera dopo l’ultimo ricovero: adesso era ancora
più facile
sollevarla e sistemarla meglio.
E
tuttavia, nonostante la gran quantità di posizioni
acrobatiche che
uno shinobi era in grado di praticare, la comodità rendeva
sempre
tutto migliore. Alla fine lo sapeva: averla su di sé,
aggrappata
allo schienale del divano, e sentire le sue cosce stringersi attorno
ai fianchi sarebbe stato ben più che sufficiente.
Certo,
era inquietante che ricordasse con tutta quella precisione un divano
che aveva visto al massimo tre volte.
Hitoshi
si sistemò il ciuffo per la milionesima volta, sentendosi
completamente stupido. Era fermo all’inizio del vialetto di
casa
Nara da un tempo ridicolmente lungo, circondato dai mozziconi di
mezzo pacchetto di sigarette.
Il
punto era che stava dando di matto. Non riusciva più a
dormire bene.
Da quando Chiharu era tornata a Konoha niente era andato come si era
aspettato: lei non aveva più accennato a quello che era
successo a
Suna, lui non era riuscito a costringerla a farlo. Le aveva parlato
una volta sola, e lei aveva rimandato il discorso vero, poi lo aveva
sempre congedato in modi più o meno maleducati. E Hitoshi
non era
famoso per la sua pazienza. Chiharu gli aveva chiesto tempo, ma non
aveva specificato quanto. Considerato che quello che era successo a
Suna era successo ormai decine di giorni prima – anzi, a lui
sembravano mesi – riteneva che a quel punto poteva anche
andare da
Chiharu e pretendere il chiarimento a cui aveva diritto.
Anche
perché in fondo era convinto che sarebbe potuta finire solo
in un
modo: esattamente come era iniziata, con Chiharu che faceva la
ritrosa e poi si scioglieva tra le sue braccia.
E’
necessario parlarne adesso, si
disse per farsi coraggio. Perché con
il divano di casa sua
ho immaginato di fare l’amore con lei su ogni superficie
calpestabile di Konoha, e se non lo rifacciamo davvero dovrò
andare
da un medico.
Sputò
la gomma che aveva masticato fino a quel momento, aggiustandosi di
nuovo il ciuffo. Prese un respiro profondo, scrollò le
spalle, e
avanzò lungo il vialetto.
Quella
mattina le finestre erano chiuse, perché l’aria
era piuttosto
fresca. Il cielo era sgombro di nubi, di un bel blu acceso, e le
foglie riflettevano la luce del sole. Nessuno lo vide arrivare;
Hitoshi dovette bussare.
Chiharu
aprì sorprendentemente in fretta, quasi come se lo stesse
aspettando. Altrettanto strano, indossava un marsupio come se fosse
pronta per uscire. Ma quando vide che era lui le sue sopracciglia si
corrucciarono.
«Cosa
ci fai qui?» sbottò.
Partiamo
bene,
pensò Hitoshi.
«Dobbiamo
parlare.»
«Senti...»
«No.
Ora basta» Hitoshi avanzò risolutamente,
spostandola per entrare in
casa. «Mi hai allontanato tutte le volte che ho provato a
parlare
con te, adesso devi ascoltarmi.»
Chiharu
gettò uno sguardo allarmato verso il salotto. «Adesso
proprio no!»
«La
tua agenda è sempre piena, quando si tratta di
me!» inveì Hitoshi
piantando i piedi in mezzo al corridoio.
Dal
salotto emerse Fay, che li fissò infastidita. «Che
succede?»
«Niente»
si affrettò a rispondere Chiharu, lasciando la porta aperta
con
intenzione. «Hitoshi se ne stava andando.»
«Non
credo proprio.»
Fay
guardò lui e guardò lei, con una smorfia di
insofferenza stampata
sul viso. Quella notte aveva ricevuto pessime notizie: Neji cedeva
alle pressioni del clan e si sposava, glielo aveva detto lui stesso
dopo ripetute insistenze. Ora non aveva la forza né la
voglia di
assistere ai battibecchi amorosi di due adolescenti che non sapevano
niente della vita, così fece un verso di stizza e se ne
andò in
cucina, richiudendo la porta scorrevole con un tonfo. Che Hitoshi la
tradisse, se doveva tradirla; a lei quasi non interessava
più.
Ritrovandosi
sola con Hitoshi, Chiharu trattenne un’imprecazione.
«Adesso
siamo soli» disse lui, leggendole nel pensiero. «E
non abbiamo
impegni. Non c’è niente che ti impedisca di
parlarmi.»
Oh
sì che c’è!, pensò Chiharu
disperata. Fece lavorare febbrilmente il cervello, ma l’unica
idea
che le venne fu di prendere tempo. Guardò rapidamente fuori
dalla
porta, poi la richiuse.
«Vieni
in salotto» disse. Aveva la netta impressione che questa
volta
Hitoshi non le averebbe permesso di concludere la discussione come le
altre volte. Questa volta lui avrebbe preteso una risposta vera, ma,
dei santissimi, non poteva trovare momento peggiore.
«Tu
lo sai, vero, che la scelta del momento condiziona anche la
risposta?» disse seccamente, mettendo il tavolino tra
sé e lui.
«Cos’è,
una minaccia? Se faccio il bravo e torno quando ti garba cadrai tra
le mie braccia adorante?» disse Hitoshi in risposta.
«Ma
fammi il piacere!»
«Lo
immaginavo» Hitoshi si lasciò cadere sul divano a
braccia conserte,
come uno che ha tutte le intenzioni di piantare le tende lì.
Chiharu
trasalì. «Non ti ho detto di sederti!»
«Non
è che tu mi abbia detto molto, negli ultimi tempi. Da quando
mi hai
spedito a Konoha durante la missione di Suna non abbiamo più
parlato. E ce ne sono di cose di cui parlare...»
Chiharu
digrignò i denti. Nemmeno lei era famosa per la sua
pazienza. «Va
bene. Allora parliamo» sbottò bellicosamente,
senza sedersi.
«Ok.
Ricordi che a Suna siamo stati a letto insieme?»
Chiharu
sussultò. «E tu ricordi che di là
c’è gente?» sibilò
arrossendo. «Parliamo, ma non pubblichiamo i manifesti, va
bene?
Abbassa la voce!»
«Dovremmo
decidere che cosa fare ora» continuò Hitoshi, ma
più piano.
«Cosa
fare?»
«Cosa
fare. Mi sembra evidente che ci piacciamo, quindi...»
Chiharu
alzò entrambe le mani, bloccandolo. «Ti
sembra evidente
che ci piacciamo?»
ripeté,
incredula.
«Di
solito vai a letto con chi non ti piace?»
No,
ma faccio molte cazzate.
«Detesto
quando un Uchiha pretende di sapere cosa penso o provo. Lo detesto
soprattutto quando l’Uchiha sei tu.»
«Va
bene, allora. Tu mi piaci. Io, presumo, ti piaccio?»
«Tu
presumi?»
«Beh...»
Il
campanello suonò di nuovo.
Chiharu
sbiancò visibilmente. «Non ti muovere»
sibilò a Hitoshi, e corse
all’ingresso per aprire. Arrivò nel preciso
momento in cui Fay
sporgeva la testa dalla cucina. Innervosita, le fece cenno di sparire
e ottenne in risposta un’occhiataccia. Allora aprì
la porta di una
spanna e cacciò la testa fuori.
Era
Akeru.
«Ciao!»
la salutò lui tutto allegro.
«Non
è il momento» ribatté lei in un
sussurro ansioso.
Il
sorriso di Akeru scemò leggermente, ma non scomparve.
«Credo
proprio che lo sia, invece» insisté, alzando le
sopracciglia con
intenzione. «A proposito, l’ora
più buia è prima dell’alba.»
«No,
l’ora più buia è proprio ora,
credimi» lo corresse lei. «Mi
serve... mezzora. No, dieci minuti. Ti prego.»
«Chi
è adesso?» domandò Fay, facendo un
passo lungo il corridoio.
«Sono
Baka Akeru, signora» disse lui da dietro la porta. Chiharu
sentì
una colata di ghiaccio scivolare giù per la colonna
vertebrale, e si
voltò di scatto verso il salotto. «Sono venuto a
portare a Chiharu
gli esiti delle ultime analisi» e poi abbassò la
voce a un
sussurro, perché lo sentisse solo Chiharu. «Credo
anche di aver
dimenticato una cosa.»
«Sarei
passata a prenderli io» disse Fay avvicinandosi.
Tremando,
Chiharu fu costretta ad aprire la porta e lasciar entrare Akeru,
dicendosi che non era ancora proprio finita.
«Ero
di passaggio in ospedale» spiegò lui con un
sorriso affabile.
«Pensavo anche di spiegargliele...»
«Lo
posso fare io» borbottò Fay tendendo la mano.
«Ehm...»
Akeru esitò, guardando Chiharu in cerca di aiuto.
«Scusate»
si intromise una voce dal salotto.
Hitoshi
comparve sulla porta, e Chiharu seppe, seppe distintamente che quella
era una cosa terribile. Come al rallentatore, vide la mano di Hitoshi
alzarsi per mostrare qualcosa. Con orrore si accorse che era un
marsupio. Un inconfondibile marsupio Anbu.
Tutti
restarono immobili per un lunghissimo secondo.
«L’ho
trovato incastrato nei cuscini del divano» disse ancora
Hitoshi. La
sua voce produceva lo stesso sgradevole effetto del gesso sulla
lavagna, e sì: adesso era finita.
Akeru
fissò il marsupio e scambiò un’occhiata
con Chiharu. «Lui perché
è qui?» sussurrò.
«Penso
che sia più interessante sapere perché il tuo
cazzo di marsupio
è qui, invece» sbottò Hitoshi,
gettandoglielo di scatto.
Fay
inarcò le sopracciglia fino all’attaccatura dei
capelli e arretrò
lentamente. «Torno in cucina» mormorò
saggiamente.
Chiharu
chiuse gli occhi per un istante, arrendendosi al fallimento dei suoi
tentativi per uscirne indenne. Ormai avrebbe dovuto sapere che tutto
quello che faceva aveva delle conseguenze, ma si illudeva sempre di
poterle evitare in qualche modo.
«Ho
detto» riprese Hitoshi, avanzando fino all’ingresso
e piantandosi
di fronte ad Akeru. «Che non
riesco proprio a immaginare come questo sia finito sul tuo divano,
Chiharu.»
Chiharu non riuscì ad aprire
bocca. Akeru invece sollevò il mento in atteggiamento
aggressivo.
«Scommetto che se ti sforzi ci arrivi.»
Chiharu richiuse gli occhi.
Avrebbe dovuto sapere che Stupido non sarebbe riuscito a trattenersi
dal vantarsene, ed essendo Stupido ovviamente lo aveva fatto nel modo
peggiore.
Hitoshi non ebbe bisogno di altri
suggerimenti per arrivare alla verità; si rivolse a Chiharu,
sconvolto. «Sei stata con lui?»
«Vedi che ci arrivi se ti
impegni?» Akeru gli regalò un sorrisino di
trionfo, rimettendo il
marsupio. «Grazie, lo stavo giusto cercando.»
Negli occhi di Hitoshi passò un
lampo furibondo, che attraversò Chiharu e poi
tornò ad Akeru. «Ah
sì? E allora, come medico non ti sei accorto di non essere
il
primo?»
Il sorriso di Baka si spense
bruscamente. «Cosa?» chiese, sconvolto quanto
Hitoshi. «Lui è
stato il primo?»
Chiharu si passò una mano sul
viso, fermandosi alla bocca. Le dita le tremavano.
«Ad occhio e croce, una manciata
di giorni prima di te» calcolò Hitoshi. La
fissò, con
un’espressione mista di disgusto e orrore. Ora capiva. Ora
era
facile comprendere perché non aveva mai voluto parlarne... E
lui era
stato davvero cretino a pensare che lei fosse solo in imbarazzo.
Chiharu si costrinse a riprendere
fiato per arrestare la discussione prima che degenerasse.
«Oh, ma
per favore. Datevi una calmata. Non sono la fidanzata di nessuno di
voi, e con chi vado a letto sono fatti miei!»
esclamò, fissando un
punto vago all’altezza dei gomiti di Hitoshi e Baka.
«Non se lo fai tre giorni dopo
averlo fatto con me!» esclamò Hitoshi furibondo.
«Ora capisco
perché dopo non hai più voluto parlarne. E io
coglione che mi
bevevo le tue palle su quanto stavi male... Non voglio più
saperne
niente di te. Porca puttana Chiharu... Vai
all’inferno!»
Con una spallata ad Akeru, Hitoshi
attraversò la porta e uscì di casa pestando
rumorosamente i piedi.
Chiharu non provò a fermarlo.
Akeru lo guardò allontanarsi, poi, confuso, fissò
lei. «Ma che
cavolo... Tre giorni dopo? Che senso ha?»
Chiharu scrollò nervosamente le
spalle, perché in realtà nemmeno lei sapeva che
senso avesse, e
disse la prima cosa che le venne in mente: «forse mi piace il
sesso?»
«Forse ti piace il sesso?»
Chiharu inspirò ed espirò
bruscamente. Sentì Fay che apriva il rubinetto in cucina e
immaginò
che presto sarebbe tornata in corridoio per controllare la
situazione. Allora compose i sigilli e in una nuvoletta di fumo prese
le sembianze di Akeru.
«Che stai facendo?»
sibilò lui
irosamente. «Scordati di andare da Yoshi adesso.
Scordatelo!»
«Avevamo un piano»
ribatté lei,
bloccando la sua ombra sotto i piedi. «Se fossi in te ora mi
trasformerei in Chiharu Nara, o dovrai spiegare a Sakura un mucchio
di cose.»
E
uscì di casa, lasciandolo bloccato finché non fu
a distanza, quasi
fuori dalla proprietà.
Akeru
tornò padrone dei suoi movimenti soltanto pochi secondi
dopo, appena
in tempo per trasformarsi in lei prima del ritorno di Fay. Compose i
sigilli rabbiosamente, e dentro di sé giurò che
mai, mai, mai più
avrebbe dato fiducia a Chiharu Nara. Mai più!
Erano
nudi, forse stupidamente nudi, ma erano anche diciottenni in una casa
vuota e avevano appena fatto sesso.
Chiharu
era stesa contro Akeru, scomodamente incastrata su un divano che non
era stato progettato per far dormire due persone, e lui le
solleticava la schiena con le dita. Le scostò i capelli dal
collo,
sfiorandole il lobo dell’orecchio.
«Non
mi ero mai accorto che avessi un tatuaggio» le disse,
accarezzando
gli ideogrammi disegnati sulla sua nuca, fino alle prime vertebre
dorsali. Non erano parole che lui conosceva, ma gli davano uno strano
fremito sotto le dita e sembravano essere tenuemente fosforescenti.
Chiharu
si mosse e spostò i capelli per coprire il tatuaggio.
«Ti
aiuterò» disse contro la sua spalla, dove un altro
tatuaggio,
quello da Anbu, faceva mostra di sé.
«Cercherò di far parlare
Yoshi come hai suggerito tu.»
«Cosa
ti ha fatto cambiare idea?» domandò Akeru in tono
lievemente
sarcastico, scivolando con la mano fino alla sua coscia e
stringendola con intenzione.
«Non
quello. Cretino.»
Era
solo che aveva già deciso di farlo, ma prima non aveva
trovato il
modo per dirlo. Sapeva che era arrivato il momento di ricambiare
tutti i favori che Akeru le aveva fatto.
«In
fondo non sei tutta marcia» ridacchiò lui,
abbracciandola e
facendola rotolare sopra di sé.
«Non
sono marcia neanche un po’!» ribatté lei
offesa, cercando di
tirarsi su, ma lui la tenne contro il petto e le accarezzò
la testa.
«Lo
so» disse, la voce soffocata contro i suoi capelli.
«Sei solo
scema.»
Chiharu
sbuffò, ma si lasciò andare e
accoccolò la testa sotto il suo
collo.
«Se
ne sono andati?» chiese Fay, aprendo la porta della cucina
con un
sospiro.
«Sì.
Ma io sono il peggior essere umano che abbia mai camminato sulla
terra» rispose Akeru trasformato in Chiharu, accartocciando i
fogli
degli esami tra le dita. E cancellò dalla memoria gli ultimi
brandelli del ricordo della notte con lei, perché ora erano
rovinati
dalla brutta faccia di Hitoshi che gli diceva di essere stato il
primo.
«E’
la prima volta che ti sento esprimere un’opinione
sensata»
borbottò Fay. «Chiudi la porta e vieni in
salotto... Leggiamo gli
esami che hanno creato questo disastro.»
Chiharu
raggiunse il dipartimento di polizia con le sembianze di Akeru e una
frequenza cardiaca di duecento battiti al minuto.
Si
sentiva una spia in territorio nemico, un traditore della patria, un
farabutto in procinto di fare una strage di bambini... Aveva una
paura terribile. Perché mai aveva pensato che il piano di
Akeru
fosse un buon piano? Andare nella fossa dei leoni con un cosciotto di
manzo sotto la maglietta non poteva essere un’idea brillante,
ed
era proprio quello che stava facendo.
Avrei
dovuto far saltare tutto,
si
disse nervosamente. Perché diavolo mi
sono fatta prendere
dal panico e mi sono trasformata in Stupido?
Perché
il panico, per definizione, fa fare cose imbecilli. E perché
l’inaspettata risoluzione del suo triangolo con Akeru e
Hitoshi
l’aveva sconvolta molto più del previsto.
Comunque
ormai era lì, tanto valeva fare qualcosa di utile e seguire
il piano
per filo e per segno. La sua unica speranza di cavarsela era
comportarsi come si sarebbe comportato Akeru: quella notte lui le
aveva fornito tutte le istruzioni per arrivare alla sala degli
interrogatori senza farsi notare, bastava attenersi alle sue
indicazioni e non avere colpi di testa. Quella notte, dopo tutte
quelle cose interessanti sul divano...
Nonostante
i pensieri confusi, Chiharu riuscì a trovare senza fatica le
scale
che portavano al seminterrato, e le scese con la sensazione di una
trappola spaventosa che si spalancava sotto i suoi piedi. Arrivata
alla fine della rampa trovò le prime due guardie, che
riconoscendo
Akeru si limitarono a fare un cenno e andarono avanti a giocare a
shogi.
Chiharu
avanzò, continuando a ripensare a tutte le cose che avrebbe
potuto
dire a Hitoshi per farlo andare via prima che arrivasse Akeru, e che
non aveva detto. Man mano che proseguiva l’odore delle celle
si
faceva sempre più fastidioso, ma a questo Baka
l’aveva preparata.
Si rese conto che i sotteranei erano molto più ampi del
palazzo
sovrastante, e un paio di volte temette di aver sbagliato strada. Ma
poi si trovò nel corridoio con le celle singole e
capì di essere
nel posto giusto.
In
fondo, dove c’era un neon freddo e una singola porta di
metallo,
vide un uomo di guardia con la divisa della polizia. Non sembrava
amichevole come i due giocatori di shogi. Anche
quando lei gli
fu di fronte, quello rimase immobile e silenzioso. Chiharu smise di
pensare a Hitoshi e Akeru.
«L’ora
più buia è prima dell’alba»
mormorò nervosamente.
L’uomo
annuì e si fece da parte. Lei prese un respiro profondo
– il che
si rivelò un errore, con tutti i vasi da notte che venivano
riempiti
nel sotterraneo – ma si affrettò ad aprire la
porta prima che la
guardia si insospettisse.
Nella
stanza degli interrogatori c’erano già due
persone: una era
Morino, l’altro, sotto gli strati di sporcizia e le
tumefazioni,
doveva essere Yoshi. Di colpo Chiharu fu concentratissima.
«Sei
in ritardo!» abbaiò subito Morino.
«Mi
dispiace» sussultò lei.
«Fa
niente! Tanto non parla, non parla e non parla!» con il tono
esasperato di chi ha recitato la scena troppe volte, gettò
contro la
parete qualcosa di metallico, che rimbalzò sulle piastrelle
e ne
scheggiò un paio. Chiharu intuì che doveva essere
qualche orribile
strumento di tortura, ma non riuscì a vederlo bene. Su un
tavolino
pieghevole accanto alla porta c’era un’intera
valigetta piena di
attrezzi dalle forme raccapriccianti.
A
quel punto sorse il primo problema: non aveva più la
collaborazione
di Akeru, e quindi non sapeva se sarebbe riuscita a far uscire
Morino. Guardando la valigia degli orrori e la bandana che nascondeva
il cranio dello shinobi, pensò che stava rischiando davvero
troppo,
ed ebbe un fremito.
Se
non lo condanna a morte il Consiglio, Yoshi lo ammazzo io,
pensò.
In
quel momento il ragazzo era legato mani e piedi alla sedia inchiodata
al pavimento. Teneva il capo reclinato in avanti, come se riposasse,
e non sembrava particolarmente impensierito dalle tracce di sangue
sul tavolo.
Morino
si avvicinò alla porta e frugò nella valigetta,
in cerca di chissà
quale diavoleria. Chiharu si spostò impercettibilmente,
ricordando
che Baka di solito interveniva soltanto quando Morino glielo
chiedeva. Si accostò alla parete, stringendo le mani dietro
la
schiena, e le tornarono in mente le parole di Akeru: se
accetterai di seguire il mio piano, vedrai cosa fa Morino agli uomini
che interroga. Allora capirai.
Nei
minuti successivi, capì davvero.
Dovette
farsi violenza per non chiudere gli occhi né vomitare.
Morino era
esperto, spietato ed evidentemente pazzo, ma l’ultima cosa
doveva
essere una conseguenza della prima. Usò molti degli
strumenti nella
valigetta, in modi che Chiharu non avrebbe osato immaginare nemmeno
nei suoi momenti peggiori, e li usò con una naturalezza che
le fece
contrarre lo stomaco fin quasi a farle lacrimare gli occhi. Come
faceva Akeru a resistere? Come escludeva dalle orecchie le voci, i
rumori che facevano molti di quegli attrezzi, le reazioni di
Yoshi? Era possibile? Era umano? Certo che impazzivi, facendo quel
mestiere: non poteva finire in altro modo.
«Basta,
basta!» gridò Morino a un tratto, allontanandosi
dalla sedia di
Yoshi.
Chiharu
si costrinse a guardarlo e lo vide sudato quanto lei. Doveva averci
provato davvero intensamente, ma Yoshi non mollava.
Allora
sorse il secondo, più grave problema: Morino le chiese di
curarlo. E
Chiharu non poteva farlo, naturalmente.
Sentì
un’ondata di gelo risalire dalle mani al collo e fino alla
testa,
oscurandole la vista per un momento. La cura con il chakra non era
qualcosa che si poteva improvvisare. Fece lavorare rapidamente il
cervello, ma aveva troppa paura di Morino per riuscire a trovare una
soluzione. Si staccò dal muro con enorme lentezza,
avvicinandosi al
tavolo al centro della stanza senza guardare gli strumenti sparsi
sulla sua superficie.
«Prima
o poi mi sbaglierò, e il medico che ti
ricuce non sarà più
sufficiente» ringhiò Morino dal fondo della
stanza. «Feccia
schifosa.»
Chiharu
si accovacciò accanto a Yoshi, che sollevò una
palpebra gonfia e le
lanciò uno sguardo opaco. Sembrava abituato a
quell’iter, ma non
particolarmente grato. Lei esitò, schiarendosi la voce. Lui
alzò
leggermente la testa.
«Dove...
Da dove inizio?» chiese sottovoce, con un’occhiata
nervosa a
Morino. «Dove senti più male?»
Yoshi
non rispose, ma aprì entrambi gli occhi per guardarla
meglio. Poi
sorrise – un’immagine davvero agghiacciante con i
denti sporchi
di sangue – e raddrizzò la schiena.
«Era
ora.»
«Che
c’è?» chiese Morino. Un attimo dopo
roteò gli occhi all’indietro
e perse conoscenza, scivolando a terra con un tonfo.
Yoshi
ebbe una specie di fremito, e le ferite sul suo viso si riassorbirono
a vista d’occhio, lasciando pallidi segni più
chiari là dove una
persona normale avrebbe avuto delle cicatrici. Accadde così
velocemente che Chiharu si rialzò e fece un passo indietro,
stupefatta e un po’ spaventata.
«Non
fare così, lo insegnerò anche a te»
disse lui, muovendo la
mandibola e il collo per assicurarsi che fossero in ordine. A quel
punto la guardò, con lo sguardo brillante di chi ha fatto
una bella
notte di sonno, e Chiharu iniziò a temere che la situazione
fosse
meno sicura di quanto lei e Akeru avevano pensato.
«Sciogli
la trasformazione, mi fai impressione» disse Yoshi.
Chiharu
riprese le proprie sembianze, ma si tenne sulla difensiva.
«Baka ha
detto che avresti chiarito tutto» mormorò cauta.
«Sì,
la cattura è stato un intoppo fastidioso... Sarei arrivato a
te
molto prima, se solo non mi avessero preso. Così immagino di
averti
dato l’impressione sbagliata.»
«Non
farmi perdere tempo» lo interruppe lei. «So che
vuoi tirarmi in
mezzo a questa storia, ma non capisco perché. Sai che non
c’entro
niente.»
«Invece
tu c’entri. Tu sei il centro di tutto! Non la guerra, e non
la
Roccia, che è un Paese di persone poco intelligenti. La
guerra non
ha mai avuto niente a che fare con tutto questo, e nemmeno
l’Hokage.
Si è sempre trattato di te.»
Chiharu
non seppe cosa rispondere, a parte che le sembrava di intravedere in
Yoshi la stessa scintilla di pazzia che aveva visto in Morino. Nel
dubbio rimase in silenzio, con la mano vicina alla cintura dei kunai.
«Haru,
io sono qui per te» continuò
Yoshi tendendo il collo verso
di lei, visto che le mani erano ancora legate dietro la sedia.
«Sono
venuto a portarti via.»
«Perché?»
domandò lei cautamente.
«Come
perché? Perché è
quello che vuoi!» Yoshi lo esclamò quasi
ridendo. «Tu non sei fatta per restare qui, non lo
sopporti.»
«No?»
Chiharu lo fissò stralunata, ma lui non sembrò
turbato dal suo
scarso entusiasmo.
«Non
mi hai mai riconosciuto, vero?» le chiese.
«Avrei
dovuto?»
«Certo
che no. Il nostro incontro non ha significato niente per te, allora.
Io ero solo una spia di poca importanza, e tu avevi ben altri
problemi...»
Chiharu
corrugò la fronte, in cerca del ricordo a cui si riferiva
Yoshi, ma
non lo trovò.
«Cinque
anni fa, Haru. Io ero una spia infiltrata, e il tuo gruppo era
incaricato di riprendermi. Quella volta che hai scatenato quel
terremoto, e subito dopo hai detto di voler lasciare la carriera di
kunoichi... Mi chiamavo Ariyoshi Tsuda.»
All’improvviso
Chiharu ricordò. Ma erano avvenimenti che sembravano
accaduti
un’intera vita prima, quando ogni piccolo incarico era
importante e
lei era ancora sana, boriosa e incosciente: c’era stata una
missione, avevano scoperto una spia infiltrata a Konoha, catturarla
era stato uno dei suoi test per capire se poteva restare kunoichi...
Ricordava vagamente la faccia del ragazzo della Roccia con cui si
erano scontrati, e che poi, a causa sua, era fuggito. Forse nei suoi
occhi c’era qualcosa di familiare, ma i capelli tinti di
Yoshi
erano troppo fuorvianti per esserne sicura.
«Non
è possibile. Hai un’identità, ci sono
persone che ti conoscono da
prima... Quella volta al tempio di Juka!» ribatté
parlando veloce.
«Non
è difficile crearsi un’identità. La
famiglia di Yoshi esiste
davvero, come tutta la gente che li conosce a Juka. E sì,
avevano un
eroico figliolo che aveva studiato tra i ninja... Sfortunatamente mi
serviva morto. E mi serviva morto anche il fratellino minore, mandato
a studiare a Konoha al suo posto. Un’intera famiglia di
solide
origini mi sembra una copertura sufficiente.»
«Ma
perché?» alitò Chiharu.
Yoshi
sospirò spazientito. «Te l’ho detto: per
te. Ti ho osservata per
tutto questo tempo, e quando ho visto che avevi preso da Konoha tutto
quello che potevi, ho agito. Certo, gli avvenimenti degli ultimi
giorni hanno un po’ complicato la situazione... Ma grazie a
quel
buon cuore di Baka sono riuscito a farti venire fin qui in ogni
caso.»
«Non
capisco...»
A
quel punto Yoshi sbottò proprio: «Non è
complicato: l’ho fatto
per darti quello che Konoha non ha; perché qui per una come
te non
c’è più niente!»
«Ma
che ne sai?»
Yoshi
sorrise con l’aria di chi sapeva molte cose. Chiharu
provò
l’istinto di fargli arrivare un pugno in mezzo al naso, ma si
trattenne.
«A
Konoha c'è tutto quello che mi serve... sono io che non ho
niente da
dare a loro» disse invece.
«Sì, so che da quando sei
tornata la situazione è un po’ peggiorata. Ma sono
tutte
sciocchezze. Io ho visto il tuo potenziale, ho visto quello che puoi
fare...»
«Non più» lo
interruppe lei.
«Mi sono giocata tutto quel potenziale facendo un mucchio di
cazzate, e adesso sono una cardiopatica.»
Il sorriso di Yoshi si fece più
insolente. «Fuori da Konoha ci sono cure che neanche
immagini.
Guarda la mia faccia, pensa a come era ridotta pochi minuti fa; prova
a pensare a cosa si potrebbe fare per il tuo cuore.»
Senza volerlo Chiharu fremette.
Quello era l’unico argomento che potesse incrinare la sua
determinazione a tornare una brava ragazza. Guardò
nervosamente il
corpo addormentato di Morino, poi di nuovo Yoshi.
«Anche se...»
deglutì. «Anche
se fosse possibile, non me ne faccio niente di un cuore in salute con
una condanna per alto tradimento sulla testa.»
«Non limitarti da sola, andiamo!
Il mondo non inizia e non finisce alle porte di Konoha. Te
l’ho già
detto, questo Villaggio non fa che tarparti le ali: hai visto
così
poco del mondo là fuori! Voi shinobi della Foglia siete
così
sottomessi, sempre tanto bravi a scattare al primo ordine... Mai un
passo che non sia stato ordinato dall’Hokage, mai
un’iniziativa.
Vieni con me: ti mostrerò cosa vuol dire non dover rendere
conto a
nessuno.»
Chiharu si alzò in piedi e fece
un giro del tavolo, massaggiandosi il viso con le mani sudate.
Ricordò la voce di Yoshi che le elencava una serie di
meraviglie
oltre i confini, meraviglie di cui lei non sapeva niente. Era
successo prima della missione di Loria, quando tutto era ancora
normale, e allora l’idea l’aveva infastidita, ma
non attratta.
Eppure
se là fuori ci fosse una cura...,
si trovò a pensare in quel momento.
Smise di camminare, scosse la
testa. Guardò di nuovo Yoshi, che sembrava a suo agio
nonostante
fosse ancora immobilizzato.
«Qui sei sprecata»
insisté lui.
«Vieni con me, posso mostrarti la via per diventare
grande.»
Chiharu serrò le labbra. «No
grazie» si costrinse a dire. «Qui ho ancora molte
cose da fare.
Qualunque cosa ci sia oltre le mura di Konoha, posso arrivarci anche
senza il tuo aiuto.»
Il sorriso di Yoshi si spense
lentamente, ma non scomparve del tutto.
Per un minuscolo istante il tempo
rimase sospeso, in bilico tra due possibili soluzioni.
«Chiharu...» disse poi Yoshi,
con voce gentile. «Davvero pensi che avrei rischiato cinque
anni
della mia vita in un piano che ti lasciasse scelta?»
Una vibrazione scosse il pavimento
piastrellato.
Le gambe inchiodate del tavolo
cigolarono con un rumore fortissimo, ripiegandosi fino a strapparsi
via. Le gambe della sedia si spezzarono con uno schiocco metallico,
le catene che immobilizzavano Yoshi esplosero in mille frammenti.
La vibrazione del sotterraneo
aumentò, diventando fastidiosa per le orecchie,
aumentò e aumentò
finché le piastrelle non iniziarono a frantumarsi con
piccoli scoppi
striduli. Chiharu corse verso la porta, ma prima che potesse
raggiungerla la vide deformarsi ed ebbe paura che il metallo si
stesse sciogliendo.
«Cosa stai facendo?»
gridò a
Yoshi, che si massaggiava i polsi guardando verso l’alto.
«Io niente» rispose lui.
«Ma a
questo punto dovresti aver intuito che non ho organizzato tutto da
solo.»
Con un crack assordante
un’enorme crepa circolare si aprì lungo le pareti
della cella, e
contemporaneamente la luce saltò. Una pioggia di scintille
si liberò
dalle estremità dei cavi recisi
dell’elettricità; Chiharu afferrò
Morino per una caviglia e lo trascinò lontano.
Annaspando nella polvere e nel
buio, Chiharu compose disperatamente i sigilli per riprendere le
sembianze di Akeru, appena in tempo: il tetto della stanza degli
interrogatori e almeno metà delle pareti si sollevarono nel
cielo,
scoperchiando il sotterraneo e aprendo una voragine nel cortile del
dipartimento di polizia. A quel punto il cemento si
sgretolò,
franando ai lati del cratere, e Chiharu sentì le voci dei
poliziotti
che uscivano urlando dall’edificio. Nell’aria si
diffuse un
penetrante odore di zolfo e polvere, che danzava nelle strisce di
sole.
«Andiamo» disse Yoshi,
tendendole una mano. «Non credo proprio che esista un modo
per
spiegare ai signori di sopra che tu non c’entri
niente.»
E all’improvviso la
trasformazione di Chiharu si sciolse, come se qualcuno le avesse
rovesciato addosso una secchiata di acqua gelida. Chiharu
ansimò,
sentì il cuore accelerare, spaventato e orripilato. Vide le
teste
dei poliziotti iniziare a sporgersi oltre i detriti ai margini del
cratere, vide le dita di Yoshi che si agitavano per incitarla a
seguirlo, e fu travolta dalla consapevolezza che era appena stata
incastrata nella sua fuga.
Allora capì che c’era solo una
cosa da fare: riacciuffarlo prima che si allontanasse dal Villaggio.
«Non sottovalutarmi!»
gridò,
afferrando una manciata di kunai con entrambe le mani.
Yoshi la vide lanciarsi contro di
lui e alzò le braccia appena in tempo per afferrare i suoi
polsi.
«Con un cuore in quelle
condizioni?» le chiese. «Io non lo farei»
di colpo la tirò più
vicina, affondando le dita nella carne delle braccia con una forza
che lei non si aspettava. «Sei solo un girino in uno stagno,
Chiharu. Un minuscolo girino ignorante.»
E la scaraventò a terra come un
sacco di foglie secche. Poi, senza più guardarla, in un
balzo fu
oltre i bordi del cratere.
Dal pavimento ingombro di macerie
Chiharu vide i poliziotti che cercavano di fermarlo; fallirono.
Provò
a tirarsi su, ma le gambe le tremavano troppo.
Cosa ho fatto, cosa ho fatto,
cosa ho fatto...,
si ripeté
disperata. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime mentre
elaborava una
decina di scenari diversi: non ce n’era nessuno in cui se la
cavava. Non solo era fisicamente presente sulla scena
dell’evasione,
ma era anche fuggita alla sorveglianza di Fay. Non sarebbe stata la
sola a finire nei guai: anche per Akeru sarebbe stata una condanna
definitiva. Yoshi se l’era studiata bene: o adesso lei alzava
il
culo e lo seguiva prima che la arrestassero, o l’unico futuro
che
la attendeva era dietro le sbarre.
«Merda!»
gridò, battendo un pugno a terra.
La vibrazione che aveva scosso il
sotterraneo si era sentita per tutta Konoha, fino alla residenza dei
Nara.
Dalla porta spalancata, Akeru,
trasformato in Chiharu, vide la colonna di polvere levarsi in
corrispondenza del dipartimento di polizia. Il sangue
abbandonò
completamente il suo viso, mentre Fay lo raggiungeva
all’esterno.
«E’ il dipartimento!»
la sentì
esclamare ansiosamente.
Lui deglutì, sciogliendo la
trasformazione. «Ok, ho una confessione da fare...»
sussurrò con
un filo di voce.
Il
fuoco circonda gli attori.
Tutto
è pronto per finire in fumo.
* * *
Un anno dopo la ripresa di Penne
arriviamo al capitolo centrale
(in termini di importanza, non di lunghezza. Calma).
Cosa ho fatto.
La HinaJin. Il triangolo HitoHaruBaka.
E Yoshi, finalmente,
che sembra il piùffigo in circolazione
e dunque non ci si spiega perché sia fissato con Chiharu,
che al momento vale due pacchetti di gomme sul ninjamercato.
Insomma, fuoco alle polveri.
Nel prossimo capitolo ci saranno botte, sangue e violenza,
flashback e un Uchiha dall'orgoglio molto ferito.
In questo, c'è il disegno di Baka che mi avete chiesto mille
anni or sono.
http://it.tinypic.com/r/k4t2td/9
Piccolo, lui.
Un po' mi sento in colpa.
A risentirci al prossimo capitolo!
Buon anno a tutti!
Susanna
Questo capitolo ti avrebbe fatto arrabbiare, lo so.
Ma in questo modo avresti messo le mani su Jin,
e presto ti saresti consolata.
Un altro anno.
Ti voglio bene.
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