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Norbury
Norbury.
Hai chiesto alla signora Hudson di
ripetere questa parola nel caso ti fossi mostrato di nuovo arrogante,
presuntuoso, pieno di te. Hai ricevuto un assenso pacato, ignorante,
e solo in quel momento hai capito quanto la tua padrona di casa ti
voglia bene e ti consideri come suo figlio. Hai pensato che solo ad
un figlio una donna avrebbe accettato di ripetere una parola senza il
minimo senso per renderlo più umile, un compromesso che una madre
potrebbe fare perché non importa quanto il proprio figlio sia
irrazionale: egli è sangue del suo sangue, e questo basta.
Hai apprezzato il gesto, decisamente.
Ti sei sentito sollevato quando non ha chiesto ulteriori spiegazioni:
con il nodo in gola per il solo fatto di aver espresso quella
richiesta, difficilmente avresti potuto chiarire dubbi nella mente di
chicchessia, soprattutto di chi non è sveglio come te, di chi non
era lì a guardare, impotente, una scena di follia.
Eppure, ti accorgi soltanto ora, seduto
sulla tua poltrona in salotto, con la sola luce artificiale del
lampione a rendere l'ambiente meno oscuro, che quell'avviso è stato
inutile. Non serve la signora Hudson per ricordarti il tuo peccato
mortale. Non serve un promemoria umano che ti tenga d'occhio e misuri
il significato delle tue parole, soppesandole e incastonandole nei
ranghi della decenza. La verità è che il tuo intero Palazzo Mentale
risuona di quel nome, si scuote e trema al ricordo di una donna
anziana troppo intelligente per il suo lavoro che cerca di
sorprenderti per un'ultima volta.
Non hai bisogno di nessuno che ti
faccia tornare alla mente il modo in cui l'hai distrutta, in cui
l'hai ferita nell'orgoglio, in cui le hai servito su un piatto
d'argento la sua uscita ad effetto, il suo canto del cigno. Riesci
ancora a mettere insieme tutte le parole che le hai rovesciato
addosso con cattiveria, con la stessa presunzione di sempre. Ma
qualcosa è andato diversamente dal solito: la segretaria non è
rimasta zitta e vergognosa al suo posto di colpevole assassina che ha
terminato la sua corsa.
Norbury.
Il nome a cui hai dato il valore di un
ammonimento, ennesimo punto debole, rimbomba nelle tue orecchie al
ritmo del sangue che ti scorre nelle vene. Lo senti quando sei
sdraiato sul letto e cerchi di prendere sonno, come John vorrebbe che
facessi regolarmente. Lo senti quando, con il computer appollaiato
sulle gambe, provi a trovare un caso da risolvere. Lo senti ogni
volta in cui infili l'ago della siringa in un buco sempre diverso del
tuo braccio.
Sono passati pochi giorni da quando hai
visto il video di Mary, da quando hai implicitamente promesso di
riscrivere la tua condotta nei confronti dell'umanità, ma già sei
convinto di dover convivere con questo cognome che accompagna le tue
giornate, una voce che riempie tutte le tue stanze virtuali e non ti
lascia sopravvivere.
La cosa peggiore è che questa eco non
giunge quasi mai sola. C'è John Watson con lei. C'è l'odio di un
uomo che traspare dai suoi occhi e dal suo timbro. C'è il soldato
ferito, tradito nella lealtà, che non crede a quanto accaduto, che
non riesce a perdonarti e tu nemmeno lo vuoi. Tu non credi che John
possa assolverti mai – nemmeno nell'intimità della tua mente
l'ha fatto. Tu sei convinto che, al suo posto, con il suo
bagaglio di emozioni e sentimenti, non ti perdoneresti. Non lo
biasimi, non ne hai la sfrontatezza: ti limiti a distruggere te
stesso con questa consapevolezza malsana e prepotente, la certezza
sconvolgente di non aver mantenuto una promessa, di non esser stato
un cacciatore di draghi come l'Inghilterra ti dipinge.
Norbury.
La tua vita è crollata insieme al tuo
voto. Non sei più in grado di tenere una tazzina in mano senza farla
tremare, rovesciandone il contenuto a terra, sul tappeto, in cucina.
Hai rinunciato a rasarti, conscio di non voler rischiare di tagliarti
la gola per un tremito delle dita. Hai dimenticato di prendere un po'
d'aria, di passeggiare, di uscire per le vie di quella Londra che
tanto ami, l'unica che ti abbia mai compreso fino in fondo, l'unica
che non ti abbia mai giudicato. Senza John non sei più nulla, lo
riconosci con disprezzo ogni giorno di più. Ma non hai semplicemente
perso il tuo personale pubblico pronto ad applaudire di fronte alle
tue mirabolanti deduzioni. John è sempre stato molto più di questo,
un qualcosa che al momento non vuoi definire perché sai che farà
troppo male per te consolidare questa conoscenza. Scegli di vivere in
una nebulosità autoindotta da una parte e il dolore intenso e
persistente dall'altra.
Non hai avuto il coraggio di gettare
via il palloncino-John. Non lo hai fatto concluso il caso dei busti,
né hai intenzione di farlo ora che il vero dottor Watson non c'è, e
non ci sarà per un bel po' di tempo. La sua poltrona è sempre lì,
eppure sai che nella mente di John non c'è neanche il fantasma
dell'idea di trasferirsi di nuovo da te ora che Mary se ne è andata.
In cuor tuo speri che questo possa accadere un giorno, e lasci tutto
così com'è. La postazione di John è l'unica che non sia stata
toccata dalla furia eccitata dei tuoi stimolanti.
Quasi ti vergogni di te stesso, di
nuovo: Mary ti ha chiesto di andare all'Inferno per salvare la
persona che entrambi amate, ma tu non riesci ad abbandonarti
completamente alle fiamme: quella poltrona, quel palloncino arancione
e i migliori ricordi custoditi nella tua mente brillante sono la tua
àncora in Paradiso, il tuo spiraglio di luce in una vastità nera
come la pece.
Norbury.
Il tuo cuore batte, Sherlock. Non lo
hai creduto possibile per tanti anni della tua vita, ma il tuo
muscolo cardiaco funziona alla perfezione, e, al limite
dell'irrazionalità, non vuoi che smetta di farti male, di logorarti
dall'interno, di farti rivivere il gelo nella carne provato un
venerdì sera all'acquario. Vorresti che continuasse a battere per
sempre, anche nella disperazione: vorrebbe dire che John è vivo,
esiste ancora, non al tuo fianco, lontano da te, ma vive.
Vuoi salvare l'uomo migliore che tu
abbia mai incontrato solo per dirglielo, solo per fargli poggiare la
sua mano contro il tuo petto in modo che anche lui possa scoprire il
tuo cuore come hai fatto tu, all'improvviso, senza pensarci, senza
dedurlo.
Vuoi qualcosa che non si può
realizzare, non adesso, e forse mai. È nella tua testa il campanello
d'allarme che suona e scandisce delle lettere chiare e scivolose,
rammentandoti ancora una volta che, se hai perso tutta la tua
felicità e quella altrui è stata rovinata, la colpa è stata solo
tua.
Mentre ti inietti un'altra dose di
cocaina nelle vene, insieme al rantolo beato della dipendenza
appagata, dalla tua bocca esce un sussurro che sa di sconfitta,
perdita e scoramento tutti insieme. Un sussurro che copre anche il
triplice passo di una giovane donna con un bastone da passeggio che
sale le scale del 221b di Baker Street.
«Norbury»
Angolo
dell'autrice: Salve!
Come
si può evincere dalla storia, non ho ancora metabolizzato la quarta
stagione. Intendiamoci, l'ho adorata, ma quello che devo ancora
riuscire a conciliare con me stessa
il grande quantitativo di
emozioni che mi ha dato. Mi ha dato la possibilità di crogiolarmi
nel mio amato angst più di ogni altra stagione di Sherlock BBC, e
questo è il risultato. Alla fine di TST (4x01) ho immaginato questo
spaccato dei pensieri di Sherlock, ma non sono riuscita a buttar giù
nulla fino ad oggi. Forse mi sto riprendendo lentamente – molto
lentamente!
Ringrazio
con tanto affetto tutti coloro che leggeranno, che vorranno lasciarmi
un parere e che semplicemente apriranno la FF per errore!
Alla
prossima,
Menade
Danzante
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