La vita era imprevedibile.
Iniziava casualmente per volere di qualcun altro e finiva
spesso in un modo che non avevi scelto tu.
Era piena di paranoie e dubbi esistenziali che non potevi
risolvere solo con la logica.
Non rimanevi quasi mai soddisfatto del presente e
ignoravi cosa ti riservasse il futuro, anzi certe volte dovevi essere
grato
solo per la possibilità di averlo un futuro.
Le cose desiderate avevano la spiacevole caratteristica di arrivare
troppo tardi o addirittura mai.
I momenti brutti ti insegnavano che qualunque cosa fosse
successa occorreva stringere i denti ed andare avanti,
perché i periodi bui
passavano, non duravano per sempre ed era necessario trarre sempre il
meglio da
ogni cosa per poter essere davvero felici.
Clover una volta le aveva detto che l’importante non era
quello che trovavi alla fine di un percorso, ma quello che provavi
mentre lo
percorrevi, e anche se la vita fosse stata difficile e brutta, molto
brutta, lo
era sempre meno della morte e ci sarebbero stati anche momenti felici,
un
giorno.
In un giorno di sole come tanti, Nico Robin si ritrovò a
pensare seriamente a quelle parole.
Nell’arco della sua esistenza aveva avuto parecchio tempo
per riflettere e aveva capito che la vita la si poteva progettare, ma
non
programmare. In effetti nessuno, nemmeno Clover che tutto sapeva,
avrebbe mai
potuto programmare l’arrivo di Rufy.
Come una brava gomma da masticare, il pirata era rimasto
appiccicato a lei, ai suoi pensieri e alla sua vita, fin dal primo
momento. Era
inimmaginabile pensare che un ragazzo giovane, ingenuo e a volte dalla
dubbia
intelligenza, sarebbe arrivato come un uragano a sconvolgerle
l’esistenza e a
mettere in crisi ogni sua convinzione, come quando era andato a
riprenderla in
cima a quella maledetta torre. Aveva cercato di cancellare i propri
errori
punendosi, ma non era servito a nulla, in fin dei conti si sapeva
già che la
gomma da masticare era difficile da staccare.
Doveva molto a quel ragazzo. Sorrise nostalgica. Gli
doveva davvero tanto, forse pure troppo.
Una nuova vita lontana dalla solitudine, degli amici
sinceri, una protezione su cui poter fare sempre affidamento, la
possibilità di
fare ancora del bene per questo mondo e ultimo, ma non per questo
ultimo, era
grata per il suo amore, quello che le dimostrava ogni giorno di
più anche dopo
sei anni. Un amore che lei ricambiava senza remore,
incondizionatamente, in un
modo che non credeva possibile.
La vita era davvero strana. Non decidevi tu di venire al
mondo e spesso non decidevi come andartene, ma potevi cambiare il
presente e
forgiarlo a tuo piacimento, infondo l’oggi era il giorno che
ti faceva paura
ieri.
Lei aveva patito pene peggiori dell’inferno ma la vita
che aveva ora se l’era guadagnata, lottando per
ciò in cui credeva e dando
fiducia alle persone giuste.
Si era guadagnata la realizzazione del suo sogno, la
possibilità di partecipare all’attuazione di un
nuovo Governo Mondiale, si era
meritata l’amore dell’uomo migliore del mondo e
aveva avuto l’opportunità di
partecipare alla creazione di una nuova vita. Aveva scoperto la gioia
di essere
madre, lei che una mamma non l’aveva mai avuta.
Il suo paradiso personale lo aveva trovato su
quell’isola, in una casetta vicino al mare, con un uomo buono
e un inaspettato
bambino che le riempiva il cuore di un amore così profondo
che a stento
riusciva a quantificare.
Dopo tante sofferenze, con la certezza che la sua anima
fosse ormai dannata e destinata a non avere mai espiazione, non pensava
di
poter sognare una vita così bella.
Tenere in braccio il suo bambino addormentato,
coccolandolo come ora, la faceva sentire una persona completa. Non
credeva che
avrebbe mai scoperto cosa si provava ad amare qualcuno così
tanto da dare la
vita pur di non vederlo mai soffrire. Era bellissimo sapere di poter
trovare la
redenzione in lui, vivere un po’ più a lungo,
continuare ad esistere attraverso
il suo bambino, nei suoi ricordi.
Robin sorrise materna, per una volta ad un esserino che a
tutti gli effetti poteva vantare di aver davvero generato lei,
distogliendo lo
sguardo da lui solo per posarlo sull’altra metà
del suo cuore.
Rufy era in piedi davanti a loro, tanto per cambiare
impegnato in una assurda discussione con il fratello.
Da quando si erano trasferiti tutti a Marijoa le loro
liti erano all’ordine del giorno.
Robin rise piano, il padre di suo figlio si comportava
spesso da sciocco, ma a lei non gliene poteva importare di meno. Una
donna non
cerca sempre un uomo che la faccia ridere? Non di sé magari,
ma quelli erano
dettagli irrilevanti perché con lui ogni attimo era sempre
meglio di quello
passato.
Koala la pensava diversamente mentre sbuffava irritata
dal letto d’ospedale dove appena il giorno prima aveva dato
alla luce la sua
secondogenita e osservava con cipiglio seccato marito e cognato
litigare, i
lunghi capelli legati in una comoda treccia che torceva per il nervoso.
Robin
le sorrise complice, carezzandole lievemente una mano, cercando di
infonderle
con lo sguardo la stessa serafica calma che la contraddistingueva da
sempre.
L’amica sembrò capire e sospirò pacata,
continuando a cullare la piccola Lyla e
decidendo di donare a lei tutta la sua attenzione.
Si, Robin amava con tutta sé stessa la vita che si era
guadagnata, anche se in certi momenti avrebbe desiderato un
po’ di tranquillità
in più… e che arrivasse sotto forma di pugno
fumante di Nami.
Riportò gli occhi su compagno e cognato, scotendo piano
la testa, facendo ondeggiare leggeri i capelli a caschetto tagliati
dopo il parto,
bene attenta a non svegliare il suo bambino, l’unico in
quella stanza in grado
di pareggiare col padre in quando a forza polmonare e che stranamente
ancora
non aveva dato cenno di fastidio per la discussione che aveva luogo in
quella
stanza da qualche minuto. Sospirò divertita, erano due
adulti perché si
intestardivano su cose banali come quelle? Cosa importava se Rufy aveva
voluto
chiamare loro figlio…
“…Ace? Che c’entra lui?”
esalò il moro, come leggendole
nella mente e catalizzando la sua attenzione.
Sabo lo fissava torvo. “C’entra! Mi hai soffiato il
nome
di mio fratello!”
Rufy mise il broncio. “Io non ti ho soffiato niente! Tu
hai avuto due femmine, io un maschio! Sono arrivato per primo ed Ace
era anche
mio fratello!” rispose piccato, incrociando le braccia.
“Ma questo vuol dire che se il terzo sarà maschio
io non
potrò chiamarlo così!” ruggì
testardo l’altro.
Koala, che aveva appena deposto la piccola nella culla di
fianco al suo letto, a quell’ultima uscita non
riuscì a trattenersi. “Il terzo
cosa, scusa?” esclamò spalancando gli occhi e
guardandoli scioccata, venendo
ignorata.
“Tu potresti mettere il mio a tuo figlio!”
proclamò
improvvisamente Rufy, entusiasta per l’idea geniale.
Sabo lo guardò male. “Ottimo, allora appena sarai
morto
farò un figlio solo per mettergli il tuo nome!”
“Io non farò un terzo figlio!”
proclamò Koala decisa ma
ignorata nuovamente.
Rufy si rabbuiò. “Volevo solo aiutarti e poi non
è mica
obbligatorio essere morti!”
“Si, invece!”
“No!!”
“Si!!!”
“MA CHE DISCORSI FATE???” alla fine, Koala era
esplosa. I
due litiganti si girarono a guardarla, tranquilli.
“Tesoro, calma. Il dottore ha detto che non è il
caso di
far agitare la bambina in questi giorni!” le disse Sabo, con
un sorriso dolce
che voleva sembrare rassicurante ma sortì
l’effetto opposto.
Koala fumava dalle orecchie. “Tesoro…”
mormorò con voce stridula, facendogli il verso
“…la
bambina non ha problemi! Le tue idiozie fanno agitare me!”
Sabo stava per ribattere alla moglie, ma Rufy lo
precedette. “Ho trovato!!”
Robin, Koala e Sabo si voltarono verso di lui, Rufy si
entusiasmò. “Potresti chiamarlo Barbabianca oppure
Roger!” esclamò soddisfatto,
convinto di aver risolto un problema che i più giudicavano
inesistente.
Koala sprofondò nei cuscini affranta, Robin
iniziò a
ridere, ma Sabo si mise a riflettere. “In effetti non
è una cattiva idea, il
nome del padre…” mormorò pensoso, prima
di aprirsi in un grande sorriso. “Ok è
deciso! Il mio terzo figlio lo chiamerò Dragon!”
A Rufy scivolò via il sorriso, mentre Robin si copriva la
bocca con la mano per frenare le risate sempre più forti.
“Starai scherzando, spero!” esalò Rufy,
gli occhi
spalancati “Non puoi! È mio padre!”
Sabo si mise le mani sui fianchi. “Lo è stato
anche per
me!”
“Non va bene lo stesso!” proclamò il
moro, profondamente
oltraggiato.
“E chi mi ferma, tu??” lo sfidò.
“Certo! E poi non è mica morto! Tu li vuoi
morti!”
“La soluzione è semplice…” si
intromise Robin, un sorriso
enigmatico in volto. “Basterebbe far fuori
Dragon…”
Koala riemerse dai cuscini guardandola sconvolta. “Ti
prego, non ti ci mettere pure tu!”
Sabo le ignorò e proseguì convinto.
“Ripensandoci, è
meglio che al terzo metta nome Garp!”
“Non ci provare!!” esclamò Rufy,
sgranando gli occhi.
Robin ormai tratteneva le risate a fatica.
“Siete due idioti! Tanto io il terzo non lo
faccio!”
esclamò Koala che sprofondò nuovamente tra i
cuscini, chiudendo definitivamente
la questione.
“Rufy?”
Il moro distolse gli occhi dal mare per posarli sulla
compagna, trovandola che lo scrutava curiosa.
“Va tutto bene?” gli chiese.
Lui le fece uno dei suoi enormi sorrisi, annuendo e
riprendendo il cammino con il piccolo Ace in braccio.
Robin non si lasciò ingannare, conosceva bene le
espressioni di quell’uomo ed era da quando avevano lasciato
la camera
d’ospedale di Koala venti minuti prima che Rufy era strano,
taciturno e fin
troppo calmo. Aveva
un pensiero fisso da
giorni, se n’era accorta, e ora credeva finalmente di aver
intuito quale fosse.
Lo affiancò, riprendendo insieme a camminare sulla
spiaggia, ormai quasi arrivati alla piccola costruzione che si vedeva
in
lontananza e che per sei anni avevano chiamato casa.
Robin prese ad osservarlo di nascosto, vedendolo puntare
gli occhi sul mare, sui gabbiani che volavano nel cielo azzurro del
mattino,
sull’orizzonte sgombro di nuvole, distogliendo velocemente lo
sguardo ogni
volta per posarlo su Ace che ancora gli dormiva in braccio, ma
riportandolo poi
costantemente sulla distesa d’acqua infinita.
Robin sospirò dolce. Si, era palese cosa bramasse il suo
uomo ed anche cosa temesse, lo capiva perché la stessa cosa
succedeva anche a
lei da giorni.
Dopo essere rimasto sopito per qualche anno, il richiamo
del mare stava ora avendo il sopravvento su ogni altra cosa e se lo
avvertivano
loro, probabilmente stava accadendo lo stesso anche ai loro compagni.
Dal suo punto di vista sarebbe stata una scelta semplice,
ma Rufy aveva una responsabilità da capitano, avrebbe dovuto
decidere per altre
otto persone, non certo che loro volessero riprendere il mare con lui,
ed ora
aveva anche un dovere come padre.
Robin sorrise notando il suo sguardo abbacchiato, non si
meritava di prendere questa decisone da solo.
“Rufy…” attirò la sua
attenzione. “Lo sai… non hai che da
chiedere…”
Il moro spalancò gli occhi preso in contropiede e la
donna proseguì. “Il mio lavoro qui è
finito. Non c’è più alcun motivo per
rimandare l’inevitabile.” mormorò saggia.
Rufy posò mesto lo sguardo sul bambino.
“Ma… Ace è ancora
così piccolo.”
Esitazione da padre, assolutamente non da lui dal momento
che tra loro era certamente il meno apprensivo, ma quel contesto era
diverso,
non dovevano semplicemente andare al parco, si trattava di decidere se
riprendere il mare, con tutti i pericoli del caso, insieme ad un
bambino di
nemmeno un anno a bordo.
Robin non demorse, pericoli ce ne sarebbero sempre stati,
lei per prima era terrorizzata all’idea che accadesse
qualcosa ad Ace, ma era
altresì certa che sarebbero stati felici sulla Sunny. I loro
compagni le
mancavano molto e sapeva che Ace avrebbe avuto tanti zii e zie pronti a
proteggerlo
in caso di necessità. Era sicura che il richiamo del mare
fosse giunto a lei e
a Rufy nello stesso momento per un motivo e poi… voleva che
il suo bambino
crescesse con la famiglia al completo, amando il mare e vivendo mille
avventure
come i genitori.
Sorrise sicura al compagno, infondendogli coraggio.
“Anche Ren è piccolo. Però non credo
che quei due si faranno i tuoi stessi
scrupoli…” Rufy accennò un sorrisetto,
tornando subito serio guardando il
bambino.
Robin contemplò il mare, carezzando la testolina di Ace.
“Capitano...” il moro sobbalzò
sentendosi apostrofare in
quella maniera, non si sentiva chiamava così da sei anni.
Lei lo fissò intensamente. “Gli altri ti mancano,
così
come a me. Lo vedo come ti manca navigare e vivere avventure per mare.
Siamo
rimasti nascosti per troppo tempo… vedrai, sapranno
proteggerlo, tu saprai
proteggerci tutti come hai sempre fatto!”
Rufy abbozzò un
timido sorriso innamorato, toccandosi appena
l’immancabile cappello di
paglia che da sempre teneva sulla testa.
“Ma che ho fatto per meritarti?”
Lei sembrò rifletterci un istante. “Salvarmi la
vita ha
aiutato…” mormorò ridendo.
Ace prese ad agitarsi tra le braccia di Rufy, attirando
la loro attenzione. Rapiti lo osservarono aprire gli occhi ed elargire
piccoli
versetti ad entrambi, agitando le manine in aria, ben felice di essersi
svegliato in braccio al papà. Rufy ridacchiò
posando nuovamente lo sguardo
sulla madre di suo figlio, vedendo nei suoi occhi il luccichio di
zaffiro che
tanto amava, diventare sempre più luminoso man mano che
guardava lui ed Ace
come se fossero stati la cosa più bella del mondo.
Sospirò quieto con una
determinazione vivace che brillava nello sguardo.
“Credo che il mondo si sia goduto abbastanza la sua
tranquillità… È ora di fare un
po’ di rumore!” proclamò ridendo, gli
occhi
sull’orizzonte.
°
La vita era faticosa.
Quante volte ci si chiede, nei momenti di sconforto che
la vita offre immancabilmente, come potersi rialzare, come uscirne,
come vivere
le difficoltà senza causare altri danni?
Franky non lo sapeva. Lui, a suo tempo, quella domanda se
l’era posta più come una sfida, decidendo da solo
di tagliare i ponti col
passato pur di non essere costretto a scontrarsi con i suoi demoni. Era
molto
più facile diventare qualcun altro, piuttosto di affrontare
i problemi
rimanendo sé stessi e questo il carpentiere Cutty Flam lo
aveva deciso con
notevole sollievo, diventando il criminale Franky. Chiunque lo
considerava un
mostro, quindi perché non appoggiare quella diceria e
diventarlo veramente?
Ma anche così, con una vita apparentemente perfetta con
la sua banda, c’era un sassolino che premeva nella scarpa,
smanioso di uscire e
nel mentre deciso a fare più male possibile.
Sapeva che avrebbe sempre avuto sulla coscienza la morte
del suo maestro, pur non avendo colpe dirette.
L’avventura passata con Rufy e gli altri aveva rivalutato
il suo concetto di espiazione dei peccati, portandolo gradualmente non
solo a
realizzare il suo sogno più grande, ma anche a capire di non
poter più
affrontare da solo i suoi timori. Era molto più facile aver
fiducia in sé
stessi se qualcuno altro prima si era fidato di te. Rufy aveva visto in
lui il
buono che non credeva più di possedere e lo aveva salvato.
Iceburg e gli abitanti erano stati felici di rivederlo
dopo essere tornato a Water Seven, non credeva che lo avrebbero accolto
così
calorosamente. In sei anni aveva lavorato sodo per riabilitare il suo
nome agli
occhi dei cittadini, arrivando ad accettare la richiesta di Iceburg di
diventare suo socio nella direzione della Galley-La Company (anche se
di rado
si faceva vedere quando c’era da sistemare le scartoffie,
quelle le lasciava
volentieri ad Asinburg), nonché a diventare un membro
affidabile della
comunità, pur mantenendo la vena di follia che da anni lo
contraddistingueva
continuando imperterrito ad indossare come capo di vestiario solo
mutande e
camicie hawaiane anche in ufficio e cercando sempre di migliorare il
corpo
robotico con qualche nuova tecnologia che puntualmente Vegapunk gli
spediva dai
remoti angoli del mondo dove soggiornava.
Eppure non sempre era sufficiente venire perdonato dagli
altri, nella maggior parte dei casi eri tu a dover perdonare te stesso
e, in
quelle settimane primaverili, guardando il mare calmo dalle lunghe
scalinate
della metropoli dell’acqua, Franky aveva realizzato dopo
tanto tempo di esserci
finalmente riuscito.
Lavoravi tutta una vita per veder realizzati i tuoi scopi
e qualche volta eri fortunato, ce la facevi.
Provava ancora angoscia per la fine orribile dei loro
alleati su Raftel, ma capiva che erano morti da eroi e nessuno avrebbe
mai
scordato il loro gesto. Il legame che univa una vera famiglia non era
quello
del sangue, ma quello del rispetto e della fiducia reciproca e lui
ormai
considerava tutti, Iceburg, Pauly, la sua vecchia banda, Kokoro, Law,
Cavendish… tutti la sua immensa famiglia, tenendo nel cuore
un angolo speciale
per otto persone particolari, delle quali sentiva la mancanza ogni
giorno un
po’ di più.
Sorridendo nostalgico, scostò gli occhiali da vista che
avevano gradualmente preso il posto di quelli da sole, e si
asciugò una piccola
lacrimuccia, avviandosi verso il dock uno, sentendo il bisogno di
rivedere una
vecchia amica.
Capitava spesso che la nostalgia e la tristezza
prendessero il sopravvento e in quei casi Franky trovava pace solo
dirigendosi
nel magazzino principale della Galley-La che confinava col porto.
Anche quella sera vi si recò ed una volta lì, la
totale
assenza dei soliti carpentieri non lo stupì più
di tanto, ormai era il
tramonto, erano tutti andati a casa. Salutò con uno dei suoi
‘Suuuuper’, Yokozuna
che spesso trovava
a fare la guardia notturna alle imbarcazioni non ancora terminate, per
conto di
Pauly.
La rana rispose gracchiando entusiasta e lo seguì
saltellante lungo i corridoi bui, fino ad un anfratto semi nascosto
alla vista,
che portava ad una piccola insenatura all’interno del dock
uno di cui pochi
erano a conoscenza. Lì, occultata e isolata ma ancora in
perfette condizioni,
si ergeva in tutta la sua magnificenza, la meravigliosa Thousand Sunny.
Franky si beò di quella vista che mai lo avrebbe
stancato, come fosse andato a far visita ad una figlia. Non la vedeva
solo da
qualche giorno, ma sembrava sempre troppo tempo. Con timore
reverenziale, prese
ad osservarla in ogni angolo, pronto a riparare eventuali graffi o
danni, pur
sapendo non fosse possibile trovarne essendo nascosta ai più
da sei anni.
Toccandole lo scafo ebbe il solito brivido, ultimamente stava capitando
spesso.
Da settimane avvertiva nell’aria qualcosa ogni volta che si
avvicinava alla nave.
Sentiva distintamente una sorta di elettricità, un
cambiamento nell’aria, ma
non sapeva bene come interpretare quei segnali. Stringendosi nelle
spalle,
convinto fosse solo una sua impressione, si congedò dalla
nave, salutando la
rana gigante e, lasciandola al suo lavoro, si diresse al
quartier generale della Galley-La, preparandosi all’idea di
una bella
cenetta.
Ridacchiò da solo pensando a quanto gli mancassero i
manicaretti di Sanji, anche se non poteva dire che i cuochi di Water
Seven
cucinassero male, solo che Sanji era più bravo, ecco.
Soprattutto sentiva la
mancanza di quelli che aveva preparato gli ultimi giorni insieme,
grazie alle
ricette che gli abitanti di Raftel avevano gentilmente condiviso con
loro,
essenziali per cucinare i pesci che esistevano solo nei dintorni
dell'isola, il
suo famoso All Blue. Ripensò con affetto agli occhi lucidi
del cuoco quando
aveva realizzato di averlo trovato per davvero, e anche alla sua
decisione di
non sfruttarlo. Proprio come lui, quando aveva deciso di non abbattere
il
boschetto, anche Sanji aveva capito che non sarebbe stato giusto
depredare quel
tratto di mare dei suoi tesori. Ne aveva giusto assaporato le
prelibatezze
preparandoli durante il loro soggiorno, con il benestare degli abitanti
che di
quel mare vivevano.
Stava ancora rimuginando su quegli splendidi giorni senza
pensieri mentre camminava per i corridoi, quando notò la
luce dell’ufficio che
condivideva con Iceburg, ancora accesa e si stupì di
trovarvi il socio
impegnato nella lettura di alcuni documenti, con Mozu sua segretaria,
che
attendeva paziente con un blocchetto in mano.
Franky si schiarì la voce, entrando. “Che fate
ancora
qui? Non dovreste già essere a cena?” chiese
curioso.
Iceburg sollevò lo sguardo un attimo, rimettendosi subito
a leggere le carte. “Se non lo faccio io, qui non lo fa
nessuno.” mormorò,
facendo alzare un sopracciglio a Franky. “Sono le nuove
regolazioni stilate dal
Neo Governo Mondiale per quanto riguarda i nostri due treni marini,
appena
arrivate da Marijoa.” Iceburg lo fissò di
sottecchi. “Hanno dato finalmente una
disposizione efficace anche per il nostro mestiere. Stanno facendo un
gran bel
lavoro laggiù…” considerò,
ammirato.
Franky, sedendosi di fronte al vecchio amico, non poté
non sentirsi orgoglioso, la sua sorellina Robin stava davvero cambiando
il
mondo come speravano.
“Visto che sei qui…” proseguì
l’uomo. “Dovrei farti
visionare alcune carte per sistemare le fondamenta di Water Seven.
Pauly ha
detto che se diamo entrambi l’approvazione, può
organizzare una squadra per il
primo collaudo della chiglia sperimentale che hai ideato. È
probabile che
dovremo evacuare una parte della città, dobbiamo saperlo per
tempo.” Gli passò
dei fogli. Franky si sistemò meglio gli occhiali e li prese
in mano studiandoli
per qualche minuto, per poi restituirglieli con un ghigno.
“Mi sembra un
suuuper progetto! Per me potete iniziare quando volete, la chiglia
è già
pronta! Magari quest’anno ci riusciamo davvero a trasformare
l’isola in una
nave!” esclamò ridendo benevolo.
Iceburg annuì serio. “Immaginavo fossi
d’accordo... bene,
Mozu? Per favore, entro domani stila una lista dei fornitori da
contattare e
prepara un piano per l’evacuazione solo delle zone nei dock 2
e 3 per i
prossimi due giorni. Fatti aiutare da Kiwi appena ha finito con il
magazzino
del dock 4. I cittadini saranno a spese della Galley-La, ospitati nei
migliori
hotel. Poi puoi congedarti, abbiamo finito per oggi.”
Mozu terminò di prendere appunti e con un gran sorriso si
affrettò a lasciare la stanza, lanciando una raggiante
occhiata al Boss, che
restituì il sorriso.
Non appena la porta si fu chiusa dietro di lei, Iceburg
prese parola. “Sei stato alla Sunny, oggi?”
Franky annuì. “Si, stasera.”
mormorò stranamente poco
loquace, gli occhi al soffitto.
Al socio non sfuggì. “Non sei mai stato bravo a
nascondere le emozioni. Ultimamente sei più assente del
solito e non parlo solo
del lavoro, non ti ho più visto nemmeno fare uno dei tuoi
stupidi numeri… che
cosa succede?”
Franky lo guardò abbattuto. “…diciamo
che ho una strana
sensazione addosso…”
Iceburg si accigliò. “Che genere di
sensazione?”
Il cyborg ghignò, titubante. “Non ne sono sicuro
ma credo
che qualcosa stia per succedere. Da qualche giorno ho un pensiero fisso
e non
riesco a levarmelo…” mormorò, lo
sguardo puntato sulla finestra al cielo che si
faceva via via più scuro.
Il sindaco aggrottò le sopracciglia, pronto ad azzardare
un’ipotesi quando il bussare alla porta lo precedette. Senza
attendere risposta
Pauly e Tilestone entrarono come furie nell’ufficio. Alle
occhiate stranite dei
loro capi, si affrettarono a riprendere fiato per spiegarsi.
“Scu- scusate! Anf
anf… scusate per i mo-modi buschi!” Pauly
deglutì rumorosamente, mentre il suo
compare cercava di fare dei respiri profondi per calmare
l’affanno della corsa.
“C-c’è una nave! Giù in
porto! Una nave strana!”
Tilestone gli diede man forte. “U-una nave molto
particolare! Anf… Do-dovete venire subito!!”
esclamò affannato ma entusiasta
guardando fisso l’enorme cyborg che restituì
l’occhiata, esitante, gli occhi
che si sgranavano.
Non sarà mica…
Iceburg si schiarì la voce, ignorando i due dipendenti,
ed esalò un laconico. “Cutty Flam, credo che
questo ufficio sia diventato
troppo piccolo per noi due…”
Franky si girò appena, squadrandolo furbo da sopra la
spalla. “…stai per caso cercando di
cacciarmi?”
L’uomo fece spallucce. “Credo solo che i tuoi
servigi non
siano più necessari…”
“Ma davvero?” Franky sorrise, entrambi sorridevano.
Pauly e Tilestone avevano osservato lo scambio di battute
senza battere ciglio, non capendoci nulla ma rendendosi conto subito di
essere
stati bellamente ignorati. Pauly, sigaro spento alla bocca,
azzardò nuovamente
un approccio. “Scusate, signor Iceburg, Franky, forse non
avete capito! Dovete
venire subito al porto! Sono arriv-”
Il cyborg lo zittì alzando in aria una delle sue enormi
mani, continuando a ghignare in direzione del vecchio amico,
nonché ormai ex-socio.
“Lo so Pauly, lo so…”
sussurrò emozionato. “Sono loro…”
Credo che mi
servirà una nave…
°
La vita era trasformazione.
Nascevi, crescevi, ti riproducevi e morivi. Solitamente
l’esistenza non ti permetteva di avere più di
questo, ma pochi fortunati
riuscivano ad ambire a qualcosa di più.
Un sogno. La promessa di mantenerlo a tutti i costi. La
gioia di portarlo a compimento. L’impegno di tramandarlo ai
posteri.
Dentro ciascun essere vivente esisteva una qualche forza
capace di annullare o ribaltare il proprio destino, bastava solo
crederci.
Infondo era questione di prospettive, quella che il bruco chiamava fine
del mondo,
il resto del mondo la chiamava farfalla. Qualcosa alla ‘hai
lottato, non è stato facile, ma sei qui, più
forte di qualsiasi
altra cosa!’
La felicità arrivava quando meno te lo aspettavi, ma mai
in maniera casuale, si insinuava attraverso una porta che non sapevi di
aver
lasciato aperta e ti mostrava un mondo diverso.
Per Chopper la vita avrebbe potuto essere molto peggio se
non avesse incontrato la ciurma di Cappello di Paglia. Nel normale
scorrere del
tempo, la dottoressa Kureha lo avrebbe abbandonato andando a far
compagnia al
suo vecchio maestro e lasciandolo completamente solo.
Certe volte immaginava la sua vita se non avesse
incontrato Rufy, se non avesse mai lasciato l’isola, se Hilk
non fosse mai
morto. Probabilmente avrebbe mantenuto le stesse ambizioni, destinato a
non
vederle mai realizzate e obbligato ad abituarsi all’idea.
Aveva sempre saputo
di avere un sogno un po’
troppo ambizioso, eppure non
voleva arrendersi, non era per sé stesso che lo faceva.
Certo poi c'erano
malattie per le quali non avrebbe potuto fare nulla. I suoi studi si
fermavano
alle patologie che avevano cause ed effetti concreti e a tal proposito,
doveva
ricordarsi di scrivere ad Usop per sapere come andava...
Chopper sospirò.
Sentiva
addosso il peso degli ultimi anni come un macigno.
Anni e anni di studi, prove, viaggi solitari per mare,
sconforti, analisi, pericoli… gli avevano permesso di
acquisire non solo una
maturazione fisica e caratteriale da venticinquenne, ma anche
conoscenze
mediche che si sarebbe solo sognato se fosse rimasto a Drum tutta la
vita. Si
vergognava dei suoi pensieri perché amava la sua isola, ma
lasciarla era stata
la cosa migliore che potesse fare, il trampolino di lancio che serviva
per la
realizzazione del sogno che condivideva con Hilk, e proprio il suo
vecchio
dottore tornava spesso a far capolino nei suoi pensieri quando si
sentiva giù
di corda per un fallimento, ricordandogli sereno di continuare che ce
l’avrebbe
fatta, ormai mancava poco.
Chopper avrebbe tanto voluto fargli sapere tutte le cose
bellissime che aveva visto e raccontargli delle sue scoperte, parlargli
davvero
e non solo ricordarlo come un immagine evanescente nella sua testa.
Perché alla fine a furia di tentativi ce l’aveva
fatta,
c’era riuscito davvero!
I suoi studi non si fermavano, sapeva di avere ancora
tanto da fare perchè nel mondo comparivano sempre nuove
patologie ma, al
momento, nella libreria del castello sapeva di avere a disposizione
cure e
rimedi per ogni malattia si fosse attualmente mai affacciata sul
pianeta.
Il suo sogno non gli era mai sembrato meno presuntuoso
come in quel momento, mentre imbustava l’ultimo campione di
erbe mediche e le
disponeva al loro posto sullo scaffale, ammirando il lavoro di una vita
di
fronte ai suoi occhi. Polverine, pasticche, vaccini, erbe rare,
sciroppi… ma anche
liquori, veleni, virus, batteri e ogni sorta di muffa, tutto catalogato
e
ordinato per categoria in grossi tomi o barattoli, perché si
sa che non si può
ambire al bene assoluto senza prima conoscere gli effetti del male.
L’equilibrio tra queste due forze era necessario, si
trovò a riflettere Chopper inaspettatamente.
A legarle spesso c’era un intreccio sottile, leggero e
molto complesso, ma indistruttibile che portava anche a fare scherzi
curiosi.
L’equilibrio aveva deciso che nella vita era stato troppo
fortunato ad incontrare i pirati i Cappello di Paglia e quindi, come
una sorta
di compensazione divina incontrollabile, aveva fatto in modo che la sua
strada
si incrociasse con quella di una vecchia conoscenza che credeva sepolta
per
sempre nel dimenticatoio.
Una piccola esplosione risuonò tra le pareti del castello
parecchi piani sotto i suoi piedi, facendo sobbalzare dalla paura il
giovane
medico, prima di fargli alzare gli occhi al cielo, seccato.
Lanciò un’occhiata
alle carte ancora da sistemare e si avviò deciso verso le
scale, appuntandosi
mentalmente di vietare alla ‘vecchia
conoscenza’ anche l’uso del giardino per
i suoi esperimenti, da quel
momento in poi.
Via via che si avvicinava alla fonte dell’esplosione e le
voci si facevano più concitate, Chopper sbuffava sconsolato
e intanto
rimuginava sul come avesse fatto a cacciarsi in una situazione del
genere. Ah
già, lo aveva voluto lui.
Sempre a causa del debito che sentiva di avere con
l’universo, all’epoca gli era sembrato doveroso
proporre al suo vecchio mito,
il dottor Hogback, di venire a stare da lui quando lo avevano
incontrato per
caso, durante il viaggio di ritorno, all’arcipelago Sabaody
in evidente stato
di povertà e degrado. Era un vecchio pazzo, lo sapeva bene e
i suoi compagni si
erano premurati di farglielo notare fino alla nausea, ma lui era stato
irremovibile. Ufficialmente aveva giocato la carta della seconda
occasione,
ogni persona ne meritava una nella vita, tutti potevano cambiare anche
chi era
stato molto malvagio, ufficiosamente gli aveva fatto pena e lui era
ancora
troppo dolce e ingenuo. Dopo quattro anni che non lo vedeva gli era
sembrato
soltanto un pover’uomo che chiedeva un’occasione
per riscattarsi e a lui era
sembrata bellissima l’idea di redimere il proprio mito di
adolescente da una
vita vuota e miserabile.
Ora, dopo sei anni di difficile convivenza, poteva dire
di essere riuscito nel suo intento, Hogback aveva riabilitato il
proprio nome e
contribuiva al benessere degli abitanti dell’isola. Ogni
tanto aveva ancora
brevi schizzi di follia passeggera, ma Kureha, che mal lo sopportava,
riusciva
a riportarlo sulla retta via con un colpo ben piazzato. Gli ultimi due
anni
erano stati i più faticosi perché al dottore si
era aggiunto un nuovo inquilino
al castello e, seppur molto più disciplinato e amabile di un
tempo, spesso i
due insieme risvegliavano in Chopper l’istinto primordiale di
buttarli giù
dalla rupe a cornate. Si era reso conto presto che era molto
più facile vivere
per mare con il costante pericolo della morte che incombeva sulla
testa, che
avere a che fare con Hogback e Absalom ogni santo giorno. Per lo meno,
l’uomo
leone spesso era assente per i suoi viaggi da reporter.
Sospirò profondamente, aprendo il grosso portone
d’ingresso, facendosi investire da una fredda folata di
vento.
Non appena mise piede fuori un capogiro lo colse
inaspettato, tanto che dovette poggiarsi alla parete per non franare a
terra. Ma cosa…?
Prese a fare dei respiri profondi, cercando di placcare i
battiti frenetici del cuore, tentando al contempo di auto-visitarsi per
capire
cosa gli succedeva d’un tratto. Stava bene fino a poco fa!
Riprese lentamente il pieno possesso del suo corpo ed
analizzò attentamente l’ambiente intorno a
sé. Nell’aria c’era un odore strano
e inconsueto che non riusciva a distinguere tra la chiara e persistente
traccia
di fumo dell’esplosione, ma oltre a quello non
notò nulla di insolito nel parco
che circondava il vecchio castello, se escludeva i suoi due coinquilini
(perché
quello erano a tutti gli effetti) poco distanti che gridavano alle
prese con un
fuocherello da nulla che stava provocando enorme panico in entrambi.
Chissà cosa gli era preso… si riscosse presto,
etichettando la cosa come una probabile conseguenza del troppo studio e
non ci
pensò più, avviandosi deciso verso i due piromani
della domenica che erano
finalmente riusciti a spegnere il piccolo incendio.
Chopper li raggiunse a passo di marcia e quelli presero a
ridacchiare imbarazzati alla vista dell’occhiataccia del
giovane medico.
“Sbaglio o avevamo già discusso sul provocare o
meno
danni per futili motivi nel castello?” dichiarò la
renna, pacato, indicando il
cucciolo di Lapin che fuggiva nella foresta, il ciuffo di pelo bianco
che Absslom
ancora teneva in mano, le varie boccette disseminate in giro, il
calderone
bruciato rovesciato a terra nella foga e l’ormai tristemente
noto fumo nerastro
che si spandeva in giro.
I due si guardarono ed Hogback si fece avanti, fiducioso.
“Fosfosfosfos! Tu avevi parlato del castello, non del parco
intorno al
castello…” tentò di precisare.
Chopper sbarrò gli occhi. “È lo stesso!
Kureha si
arrabbierà un sacco quando saprà che avete fatto
un altro esperimento sui
Lapin! So che vi annoiate ma cercare di trasformarli in conigli normali
non vi
aiuterà!” precisò incrociando le
braccia.
Hogback e Absalom sudarono freddo a quelle parole, erano
terrorizzati dall’anziana donna. “Non andrai a
dirglielo, vero? Ti prego dottor Chopper,
non lo faremo più!”
Mugugnò l’uomo leone il viso a terra, ben sapendo
di stare toccando il suo
punto debole.
Chopper era cresciuto e il fatto di essere ormai un
dottore di fama non lo rendeva più incline a ondeggi
sconsiderevoli e imbarazzi
come un tempo, ciò nonostante sentirsi chiamare
così aveva su di lui ancora un
po’ d’effetto e le guance gli si colorarono
rapidamente. “Sc-sciocchi! Non vi
coprirò ancora!” annunciò, coprendosi
le orecchie.
“Davvero davvero, dottore?”
chiesero in coro, melliflui.
Chopper non riuscì a trattenersi.
“Pia-piantatela!”
ridacchiò, ondeggiando imbarazzato. “…E
va bene! Ma è l’ultima volta!” si
riscosse, indicandoli serio con lo zoccolo. I due sospirarono di
sollievo.
Una forte ventata gelida proveniente da nord spazzò via
quello che restava del fumo nero e provocò a Chopper un
nuovo capogiro
inspiegabile. Absalom lo afferrò in tempo prima che cadesse
a terra.
Stavolta era più
forte… ma che mi succede?
“Ehi, renna. Tutto bene?” chiese l’uomo
leone,
preoccupato.
“S-si…” pronunciò a fatica.
Che strano… mi
sembrava di aver sentito… ma no, devo essermelo
immaginato…
“Che sta succedendo qui?” una voce lontana gli fece
capire che la dottoressa Kureha era tornata dalla spesa al villaggio.
“Fosfosfosfos! Non lo sappiamo, Chopper si è
sentito male
all’improvviso.”
…eppure io l’ho
sentito…
“Sta male? E tu allora? Sei un medico! Guarda che ha,
no??”
proferì quella, avvicinandosi seccata.
“Non ne ho avuto il tempo!!”
…legno…
ferro…
fiori di ciliegio… latte… paglia…
“Sembra solo un normale capogiro ma non mi fido di voi
due! Non è svenuto, ma… sembra quasi in
trance… ehi, Chopper mi senti? Sono
Kureha!”
…si… non me lo sono
immaginato…
“Chopper? Ho delle notizie da darti! Su riprenditi!”
…li sento... sento
il loro odore…
“Su, andiamo! Dorton mi ha appena detto che è
arrivata
una nave che conosci bene in porto!”
Sono qui… sono qui!
“Cappello di Paglia è venuto a
prenderti!”
………
………………
“Ecco ora è svenuto davvero…”
commentò la dottoressa
scotendo la testa. “Portiamolo dentro mentre avviso Dorton di
condurre al
castello i pirati… anche quel tipo poi, prima si preoccupa
di far perdere le
sue tracce per anni e poi scatena quel putiferio a Sabaody, che
capitano ti sei
scelto, Chopper! …Tu, uomo pinguino, prendi le mie borse e
datti una mossa!
Dobbiamo far rinvenire Chopper prima che arrivi Cappello di Paglia... E
MAGARI
NEL FRATTEMPO MI SPIEGATE ANCHE COS'È QUEL DISASTRO IN
GIARDINO!!”
°
La vita era come un concerto.
Il direttore batteva il tempo con la bacchetta e la
musica prendeva il sopravvento su ogni cosa, dimenticavi tutto e
seguivi quelle
note fino a fonderti con esse.
Anche per i meno esperti si intuiva la fatica e l’impegno
professati per far si che tanti strumenti dai tanti suoni diversi,
diventassero
una sinfonia armoniosa e perfetta, di cui fare sfoggio.
La vita era esattamente così.
Nascevi e subito ti venivano date le direttive su come
dovessi crescere, qualcuno batteva il
tempo per te.
Ti veniva insegnato a diventare parte integrante della
società e a seguire la massa, per creare insieme l’armonia ideale.
Non c’erano scappatoie, eri costretto a far parte di quel
gioco all’incastro obbligato a perseguire un solo scopo, un solo tipo di strumento, per il resto
dei tuoi giorni.
La maggior parte delle persone accettava di buon grado,
ma c’erano casi rari a cui veniva riservato un trattamento
speciale: i solisti.
Solitamente musicisti sopraffini e degni di nota, ma
sprovvisti di pregi più meritevoli di altri per doti canore
o strumentali.
Semplicemente individui capaci, in grado di emergere dalla massa con
eleganza
sapendo sfruttare appieno la base musicale per creare un elemento nuovo
ed
inaspettato.
Persone così non ce n’erano mai state molte,
eppure la
vita poteva proseguire meravigliosamente lo stesso.
Quindi, perché sentirne la mancanza? Rifletteva Brook.
Perché senza di loro le persone non avrebbero avuto
modelli da seguire. Si rispondeva.
Questo mondo aveva ancora bisogno di solisti?
Assolutamente si.
Seguire la massa e non tentare di emergere da soli,
sarebbe mai stata la scelta giusta? Assolutamente no.
Brook il ‘Re del Soul’, si riteneva un solista?
Forse...
o forse no.
Di certo un sognatore lo era ancora e la massa non la
seguiva più da tempo, ma non mostrava più la
verve necessaria per levarsi sopra
gli altri e non desiderava nemmeno suonare per una folla che chiamava
il suo
nome. Quella era stata una bella parentesi, ma destinata a rimanere
tale.
Allora era forse all’assolo finale? No, a quello non
ancora…
Lui era certo di essere nel pieno, nel bel pieno
dell’opera! In quel momento in cui tutti i musicisti, solista
compreso, suonano
all’unisono per creare l’incrocio di suoni
più bello dell’intera composizione,
l’attimo che aspetti dall’inizio, da quando il
direttore d’orchestra batte due
volte sul leggio per dare il tempo. Il momento migliore, quello che ti
fa
vibrare il cuore e che non vorresti finisse mai. Ecco, lui si sentiva
così ogni
giorno.
Erano passati sei anni da quando i suoi compagni lo
avevano accompagnato ai Promontori Gemelli per incontrare Lovoon ed
entrambi
avevano sfruttato ogni attimo per recuperare il tempo perso.
Brook ormai non temeva più la solitudine, anzi la cercava
spesso e violino alla mano con l’amico usciva in mare aperto
con una barchetta
gentilmente concessa da Crocus.
A volte stavano via per giorni, arrivando anche a far
preoccupare il vecchio custode del faro, ma tornando sempre allegri e
spensierati, ricchi di nuovi brani ideati in quelle ore di lontananza,
sperando
sempre di deliziare il suo amico, il vecchio Crocus e, chi lo sa?, in
un futuro
prossimo, anche i suoi compagni.
Si, Brook era molto felice della sua vita con Lovoon,
però iniziava a provare sempre più nostalgia per
i tempi passati. Gli mancava
la vita sulla Sunny, desiderava riprendere a vivere nuove avventure per
mare,
ritornare ad essere un solista, e
questa volta nulla lo avrebbe fermato dal portare con sé la
sua balena, infondo
faceva già parte dei Mugiwara da anni.
Si era separato dai suoi compagni quasi in lacrime ma con
la speranza nel cuore di potersi rivedere tutti presto e certe volte
gli
mancavano così tanto che avrebbe voluto tirarli fuori dai
pensieri per
riabbracciarli.
Con queste considerazioni ormai abituali nella mente, Brook
attraccò la
barchetta al piccolo molo dei Promontori, dopo essere stato fuori per
tre
giorni, uscendone con un balzello agile. Lovoon gorgheggiò
felice al suo
indirizzo prima di sparire sott’acqua, per il suo abituale
sonnellino
pomeridiano.
Il musicista si diresse rapido verso il faro. Prima di
tornare, era deciso a trascorrere la serata dedicandosi alla
trascrizione dei
nuovi componimenti che gli erano venuti alla mente mentre era in mare
aperto,
purtroppo ora temeva fossero attività che avrebbe dovuto
rimandare, perché pur
non avendo più gli occhi (Yohohoho!), aveva notato la
presenza di un’altra
barca attraccata al molo e sapeva bene di chi fosse. Aumentò
l'andatura,
bramoso di sapere che buone nuove potesse portare questa volta il Re
Oscuro con
la sua venuta.
Aperta la porta del piccolo faro trovò, come previsto,
Crocus seduto al tavolo della cucina intento a servire una tazza di
caffè caldo
al vecchio amico Rayleigh, sorridente come sempre.
“Brook, finalmente!” I due uomini lo accolsero con
enfasi
gioiosa, invitandolo ad unirsi a loro. Lo scheletro non se lo fece
ripetere e
Ray gli diede una pacca amichevole sulla spalla ossuta.
“Yohohoho! Come mai da queste parti, signor Rayleigh?
È
tornato prima stavolta. Di solito non la rivediamo prima di due
mesi.” Chiese
educatamente, prendendo volentieri la tazza di thè che
Crocus gli stava
gentilmente porgendo.
“Lo so ma dovevo venire per forza. Stavo giusto
raccontando a Crocus delle ultime notizie, ormai non si parla
d’altro. Pure
Shanks ne è rimasto scombussolato.”
Lo scheletro lo fissò composto, leggermente accigliato.
“Che notizie?”
Il medico sospirò. “È tornato oggi dopo
tre giorni in
mare, Ray. Non sa ancora niente.”
Brook spostò lo sguardo dall’uno
all’altro, confuso. Il
Re Oscuro ghignò, allungandogli un quotidiano con la data
vecchia di giorni.
“Il mondo è di nuovo in fermento.”
Il musicista aprì rapido il giornale, gettando
un’occhiata veloce ai titoli principali.
Un articolo di mezza pagina annunciava la nomina a grand'ammiraglio
della Neo Marina
di Smoker e, contemporaneamente, comunicava la data imminente del suo
matrimonio.
Un trafiletto a lato invece, diceva che la ciurma dei
Pirati Hearts continuava indisturbata la sua avventura per mare, dando
noie per
lo più all’ammiraglio Coby, costantemente sulle
loro tracce.
Capendo non potessero essere queste le novità che diceva
Ray, girò pagina e rimase piacevolmente sorpreso nel vedere
due gigantografie affiancate
raffiguranti una Bibi ed una Rebecca sorridenti, elegantemente vestite.
L’articolo annesso riportava notizia che entrambe erano state
nominate Regina
della propria nazione nell’arco degli stessi giorni,
probabilmente anche per
suggellare e incrementare la gemellanza che già esisteva tra
questi due grandi
popoli. Ma lo stupore di Brook a fronte dell’incoronazione
delle due amiche era
nulla se paragonato a quello che provò leggendo la pagina
seguente. Lesse
velocemente l’articolo, poi un’altra volta e
un’ultima per sicurezza.
Senza parole, dirottò lo sguardo sui due vecchi membri
della ciurma di Gold Roger che gli sorridevano con fare saputo.
Deglutì
rumorosamente. “Sta succedendo davvero?”
Rayleigh sghignazzò sereno, mentre Crocus si abbandonava
ridacchiando contro lo schienale della sedia. “Mi sembra di
rivivere tutto
un’altra volta…”
Brook non fiatò, troppo sorpreso per replicare.
Insomma, tutti loro avevano sempre saputo che Rufy era
una testa calda e agiva per lo più d’impulso
provocando spesso e volentieri
disastri incalcolabili. Non lo vedeva da anni ma il musicista sperava
in cuor
suo che fosse maturato un po’ da quel punto di vista, almeno
di riflesso, vista
la costante presenza di Nico Robin al suo fianco. Invece, come a voler
demolire
ogni speranza, quello nella fotografia che rideva in piedi su una
palazzina, di
fronte ad una folla oceanica, era proprio il suo vecchio capitano.
Lo scheletro sbuffò, combattuto tra l’essere
preoccupato,
infuriato o compiaciuto, ma considerando Rufy uno spaccone precipitoso
in tutti
e tre i casi.
Monkey D. Rufy, altresì detto 'Cappello di Paglia', Re
dei pirati in carica, aveva ufficialmente dato inizio alla nuova era
della
pirateria.
Lui aveva detto… Brook non ci voleva credere…
aveva
urlato ad una folla immensa all’arcipelago Sabaody che sei
anni prima aveva
nascosto il tesoro leggendario di Gold Roger, invece di tenerselo!
Non era possibile… cosa ci faceva Rufy a Sabaody?? E
perchè aveva fatto quell'annuncio?? Brook non ci capiva
nulla.
Stando a quanto diceva il giornale, di punto in bianco
aveva fatto sapere al mondo che esisteva ancora un tesoro da cercare,
facendo
scattare così l’ingranaggio che dava il via ad una
nuova epoca di pirati
sognatori, prima che Sentomaru si gettasse al suo inseguimento sparendo
tra i
Grove.
“…E tutto questo accadeva quattro giorni
fa!” esclamò il
vecchio Ray, eccitato. “I giornali che ho nello zaino invece
sono dei giorni
seguenti e parlano di decine e decine di giovani aspiranti pirati
partiti da
ogni parte del mondo per tentare la conquista del tesoro che Rufy si
è pure
premurato far sapere non trovarsi più su Raftel, ma in un
punto preciso della
Rotta Maggiore, che ha disseminato di indizi…”
Brook lo ascoltava solo in parte, il resto dei suoi
pensieri erano tutti concentrati nel trovare una spiegazione logica e
plausibile al gesto sconsiderato del suo capitano.
Perché quello che il resto del mondo non sapeva, era che
il tesoro era si stato nascosto nuovamente da loro, ma solo per venire
utilizzato dai Mugiwara stessi come denaro di
‘scorta’ nel caso si fossero
trovati in ristrettezze economiche una volta ripartiti tutti insieme
per nuove
avventure, come già stabilito.
Era stata un’idea di Nami, come sempre la più
assennata
tra loro, ed era sembrata un’ottima idea a tutti quella di
prendere una piccola
parte del tesoro per i rifornimenti del viaggio di ritorno e nascondere
la
maggior parte come ‘assicurazione’ nel caso
avessero trovato difficoltà. Il
futuro era sempre incerto, chi poteva sapere cosa avrebbe riservato
loro?
Meglio prepararsi ad ogni eventualità, s’erano
detti.
Ma ora… Brook si schiaffò una mano scheletrica
sul
teschio, mugugnando abbattuto.
Ora Rufy passerà un
brutto quarto d’ora tra le mani di Nami quando lo
beccherà…
Era una sfortuna che Rufy avesse fama di essere onesto e
giusto, oltre che il criminale numero uno per la Neo Marina,
perché tutti
avevano creduto senza indugi alle sue parole, certi stesse dicendo il
vero.
…perché ha lanciato
questa sfida al mondo proprio ora? Rifletteva Brook,
continuando a
sorseggiare il suo the e sfogliando i quotidiani dei giorni successivi
con
ritrovata calma.
…a causa di questa
sua trovata chissà in quanti gli staranno col fiato sul
collo…
Il musicista non capiva il motivo delle azioni
sconsiderate del pirata di gomma.
…e pensare che
tutti lo cercheranno in lungo e in largo senza immaginare che sia
nascosto in
un posto così semplice, probabilmente nessuno
arriverà mai a capire che è a… “Gli
altri invece come stanno? Hai saputo nulla su di loro?”
Brook alzò il viso (che non aveva, ma non era il momento,
Yohohoho!), puntandolo su Ray che lo guardava in attesa, e
poggiò la tazza di
the. “…Non li sento da un po’, ma credo
che sia normale. In ogni caso, non
hanno motivo di stare male, ancora…”
mormorò, abbozzando una risatina nervosa.
I due uomini si guardarono sereni, poi Rayleigh prese di
nuovo parola scrutandolo furbo. “Sai, sta correndo una voce
giù all’arcipelago,
ultimamente…” Brook si fece attento.
“…Rufy quel giorno è riuscito a
sfuggire
alla marina, ma da quel momento c’è chi giura di
averlo visto salire su una
grossa nave che partiva per Water Seven, la metropoli
dell’acqua. Shakky stessa
me l’ha confermato. Sembra che voglia riprendere il
mare… A Water Seven non ci
sono forse il vostro carpentiere e la Thousand Sunny? Che sta
combinando Rufy,
tu ne sai niente?” chiese scaltro, prendendola larga.
Dopo un attimo di esitazione durante il quale ognuna
delle sue domande trovava finalmente risposta, Brook sorrise,
scambiando uno
sguardo d’intesa con Crocus e sentendo in lontananza i
gorgoglii di Lovoon,
riemersa dopo il sonnellino. Sollevò lo sguardo,
indirizzandolo verso la
finestra, verso il mare.
“Yohohoho! Water Seven, eh? Beh Rayleigh, sappiamo bene
entrambi che Rufy è una persona imprevedibile e
l’unica cosa certa che posso
dirti è che se il mio capitano ha finalmente deciso di
riprendere il mare, i
membri del suo equipaggio sono gli ultimi a venirlo a sapere, ma
saranno anche
i primi che lui andrà a cercare…
Yohohoho!”
°
La vita era un dono prezioso.
Andava vissuta necessariamente attimo per attimo, perché
era unica e non ne avresti avuta un’altra dopo.
Non dovevi sprecarla, rovinarla, lasciarla andare, ma
amarla incondizionatamente e profondamente.
Era facile vederla così, molto facile. Il difficile
arrivava quando eri obbligato a mettere in pratica il tuo stesso credo,
quando
nei momenti di sconforto dovevi importi la risalita, convinto sempre e
comunque
che il male di vivere che ti stritolava, che ti opprimeva, fosse una
tappa
fondamentale per capire quanto si fosse attaccati alla vita e alla
speranza.
Qualcun altro ti permetteva di venire al mondo, ma stava
ad ognuno poi trovare il modo giusto per riuscire a vivere al meglio
gli anni
che venivano concessi. Pochi, tutto sommato, e passavano veloci.
Nello stesso arco di tempo di un battito d’ali, non eri
più bambino e navigavi per i mari.
Per merito di una strana e pazza ciurma non ti
consideravi più un fallimento, eri un pirata, adolescente
certo e con tutti i
tormenti del caso, ma in grado di governare la tua vita cercando di
dare sempre
il massimo.
E poi, ti ritrovavi adulto senza nemmeno accorgertene. Le
bravate svanivano, le liti si attenuavano, il corpo cambiava, i
sentimenti
crescevano e maturavano sotto la cenere delle sigarette, il male di
vivere
spariva quasi del tutto, restava solo il rammarico di non essere
riuscito a
dare di più quando ne avresti avuto
l’opportunità.
Un abbraccio, un segno di stima, un conforto, un grazie…
Non era possibile credere che cinque anni valessero tutto
sommato qualcosa di più rispetto ai novanta di una vita
media. Erano stati
molto significativi ma non era giusto pensare che tutto il resto fosse
meno
importante o meno degno di essere vissuto se paragonato a quei cinque
anni di
viaggio con quella ciurma di scavezzacollo.
Sanji si era rassegnato all’età adulta, alla
crescita,
all’affrontare problemi diversi dal capire cosa volesse Rufy
per cena, perché
la vita era una sola e lui aveva saputo apprezzare ogni momento degli
ultimi
sei anni. Si impegnava ogni giorno, ogni singolo giorno, per rendere
felici le
persone che amava e fare della sua vita un capolavoro.
Per quanto gli anni sulla Merry prima e sulla Sunny poi
fossero stati tra i più felici della sua vita, il biondo
cuoco sapeva che
quelli trascorsi con lei, non
avrebbero mai avuto paragoni. Proprio come non si conosceva
ciò che si aveva
prima di perderlo, Sanji non sapeva che cosa gli mancasse prima che
arrivasse,
lei che da sola era diventata tutto il suo mondo. La vita per lui
correva in
un’unica direzione da sei anni, sempre verso Viola, due anime
solitarie che
l’universo aveva stabilito doversi incontrare per forza. Era
accaduto il
miracolo che aspettava da una vita, innamorarsi di una donna e venirne
ricambiato.
Non era servito poi molto se ci ripensava ora… un paio di
moine da parte sua, un calcio ben piazzato da lei, farle saltare la
copertura e
rischiare conseguentemente la vita, andarsene al momento sbagliato...
Sanji
rise da solo, era bastato questo per trovare l’amore della
sua vita in una
donna forte, scaltra, capace di tenergli testa, che non aveva bisogno
della sua
protezione ma che sei anni prima aveva comunque deciso di seguirlo e
diventare
parte della sua vita, lontano dagli obblighi regali a cui era abituata,
perché
lei sapeva già di appartenergli e di essere destinata a ben
altro.
Al Baratie c’erano tornati insieme. A Viola erano
brillati gli occhi nel vedere il ristorante sul mare che avrebbe
chiamato casa
d’ora in avanti e nel conoscere il famoso Zef, che
l’aveva accolta come una
figlia. Sanji ricordava ancora con soddisfazione il momento in cui
l’aveva
presentata ai vari cuochi e camerieri, le mascelle che avevano toccato
terra
erano state parecchie.
Il ristorante che conosceva non era cambiato poi molto,
appena due navi ed un sottomarino in più, ma vi aveva
ritrovato la stessa aria
di complicità e cortesia di un tempo, ornata occasionalmente
da scatti d’ira,
guerre civili e defenestrazioni di clienti per conti non saldati.
Sanji amava la sua vita, la nuova come la passata, e non
ne sprecava nemmeno un attimo. I demoni dell’infanzia erano
spariti annegati in
occhi color del miele e non lo tormentavano più, i giorni
scorrevano sereni e
spensierati.
Sarebbe stato tutto perfetto, se non fosse per un piccolo
dettaglio insignificante…
Ecco, solitamente lui non era tipo da lamentarsi per
bazzecole. Negli anni aveva sopportato cose inimmaginabili senza
battere
ciglio, se si escludeva la gelosia verso le sue dee, i modi rozzi del
marimo,
lo stomaco senza fondo di Rufy, il terrore di Usop quando bisognava
scendere su
una nuova isola, le mosse strane di Franky, un cliente che non voleva
pagare…
ok, forse si arrabbiava spesso, però qui si parlava di cose
ben peggiori!
C’era questa piccola e banale magagna che disturbava la
sua vita perfetta, che lo faceva uscire dai gangheri come niente e
nessuno era
riuscito a fare, e lui aveva avuto Rufy come capitano!
Una cosa che in sei anni non era riuscito a risolvere e
che lo tormentava senza tregua, nell’ilarità
generale.
Una cosa che i suoi colleghi esibivano come fosse un
trofeo, un motivo di vanto, quando Sanji avrebbe solo voluto non averci
mai più
a che fare! Anzi, l’avrebbe voluta distruggere con le sue
mani…
“…PERCHÈ SONO PASSATI PIÙ DI
DIECI ANNI, VECCHIO!! PERCHÈ
DIAVOLO È ANCORA APPESO LÀ?? TI DECIDI A LEVARE
QUEL MALEDETTO AVVISO DI TAGLIA
DAL MURO??” esclamò Sanji furente, indicando un
punto preciso della parete
principale del ristorante, facendo voltare verso di lui qualche testa
curiosa
che pranzava.
Era la sua prima taglia, quella in cui avrebbe voluto
venisse sfoggiata tutta la sua virilità e prestanza, che in
realtà mostrava il
disegno osceno di un anonimo biondino sovrappeso al posto di una sua
fotografia.
A causa di un impiegato sottosviluppato della vecchia
marina, che probabilmente era troppo scemo per riuscire a fare un
identikit
decente di un pirata pluricercato, tutti lo avevano associato per anni
ad uno
scarabocchio e i suoi colleghi non facevano mistero di adorare la cosa.
Anzi,
la mostravano fieri come spiegazione ad ogni cliente che si chiedeva il
significato della curiosa polena della nave ‘Testa di
melanzana’, attaccata al
Baratie.
Non ne poteva più, da anni vedeva l’orrendo
disegno
appeso nella sala da pranzo senza poter fare niente per risolvere la
cosa.
Certe volte aveva persino pensato di incendiare la nave ammiraglia, ma
sarebbe
servito a poco.
Quel giorno poi ne era particolarmente infastidito dopo
aver sentito Kayme, passata per di là in mattinata per un
saluto con Hacchan e
i Tobiou Raider, velatamente lasciare intendere che gli anni per lui
non
passassero mai nonostante la barba e i capelli più lunghi,
guardando sorridente
il disegno e non rendendosi conto di aver appena frantumato l'orgoglio
al
povero cuoco. Nella sua ingenuità ancora intatta, la sirena
desiderava fare un
complimento, ma ebbe solo il potere di risvegliare in Sanji il fuoco
fatuo
della dignità miseramente calpestata anni addietro e mai
più recuperata.
Zef, seduto comodo in poltrona, leggeva svogliato il
giornale senza dare adito alle escandescenze del suo non più
troppo giovane
pupillo, che aveva per lo meno avuto la decenza di aspettare la fine
del
pranzo, e quindi che Kayme e gli altri se ne andassero e ci fossero
molte meno
persone in sala, per inveire nuovamente contro di lui e il costruttore
navale
che aveva accettato di costruire la polena là fuori.
“Ho detto di no Sanji, smettila di insistere. Hai fatto
una promessa anni fa, non puoi rimangiarti la parola.”
mormorò senza guardarlo,
non tentando nemmeno di quietare la sua furia.
Sanji ormai fumava dalle orecchie, gorgheggiò parole
incomprensibili prima di ringhiare velenoso. “Me
l’hai estorta con l’inganno!”
Zeff alzò lo sguardo divertito, sorseggiando il brandy
che Paty gli aveva appena portato. “Per ogni cosa
c’è un prezzo da pagare. Tu
volevi che ti lasciassi dirigere la baracca e io volevo che quel caro
ricordo
rimanesse per sempre appeso là. Ora io sono andato
felicemente in pensione e tu
sei diventato capocuoco. È così che funzionano i
compromessi.” ridacchiò piede
rosso, tornando al suo giornale.
Paty, deciso a non perdersi l’ennesima sfuriata del
biondino era rimasto nei paraggi e ghignando, diede man forte
all’ex-titolare.
“Avremmo anche la taglia più recente, ma quella
hai scelto tu di tenerla e chi
siamo noi per andare contro il capo?”
Sanji lo
incenerì
con lo sguardo. “Ridete, ridete… un giorno vi
ritroverete la ‘Testa di
melanzana’ qui fuori, ridotta ad un
colabrodo…” dichiarò serio, stringendo
gli
occhi.
Zef e Paty sghignazzarono. “Sono anni che lanci a vuoto
questa minaccia, melanzanina. Ormai non ci crede più
nessuno, anzi sei pure
felice che quella nave abbia così successo tra i
clienti…”
“Non so di che parlate, quell’obbrobrio non
potrà mai
farmi felice!” sospirò truce, rassegnato ormai a
venir preso in giro dal
vecchio mentore e dai suoi stessi dipendenti per chissà
quanto ancora.
Era una battaglia persa in partenza lo sapeva bene
gambanera, eppure non demordeva, un giorno ce l’avrebbe fatta
a eliminare le
tracce di quell’orrore dalla sua vita.
“A proposito…” mormorò Zef
tornando serio, seppur con un
guizzo ironico nello sguardo, senza staccare gli occhi dal giornale.
“Hai letto
le ultime notizie…?”
Sanji sospirò mesto, fissando un punto a caso della sala
semi vuota, le mani in tasca. “Si…”
esalò laconico, in risposta. “…spero
solo
che sappia quello che fa e che nel mentre non accada nulla a Robin-chan
o a
Ace…”
Zef e Paty si ritrovarono ad annuire, partecipi e
divertiti dagli eventi.
Carne arrivò in gran carriera dall’ingresso,
interrompendoli e catalizzando l’attenzione, tenendosi il
cappello da cuoco con
una mano perché non volasse via. “Un cliente non
vuole pagare! Dice che il
conto è troppo alto… ci pensi tu,
capo?” chiese con una certa urgenza nella
voce all’indirizzo di Sanji, ridacchiando.
Il biondino sbuffò contrariato, mentre Zef e Paty
tornavano tranquilli alle rispettive occupazioni con un gran ghigno
stampato in
faccia.
“Si, arrivo…” dichiarò,
avviandosi all’ingresso con le
mani in tasca, desideroso di sbollire i nervi prendendosela con
l’ignaro
piantagrane.
Non fece in tempo a fare tre passi in quella direzione
che un verso gutturale seguito da un peso morto che cadeva a terra, gli
fece
aggrottare le sopracciglia. In un secondo ne aveva inquadrato la fonte
e vi si
era avvicinato lesto constatando subito che si trattava chiaramente
della
figura pestata a sangue di un pirata, sfracellato contro le assi del
pavimento
proprio davanti alla porta d’entrata del ristorante.
Nessuno nella sala fiatava per lo sgomento, ma Sanji
sospirò tranquillo, alzando lo sguardo e incrociando
inevitabilmente in fronte
a lui quello determinato della sua adorata Viola-chan che, gamba tesa e
piede a
martello, a quanto pareva aveva appena risolto il problema del conto
troppo
salato.
La vide ritirare la gamba silenziosamente ed accucciarsi
accanto al viso del poveraccio a terra, sotto gli sguardi terrorizzati
dei suoi
compagni di nave che non muovevano un muscolo, e a quelli divertiti dei
cuochi
e dell’intera sala.
“Ora hai capito perché hanno messo questa dolce e delicata
fanciulla alla cassa?” mormorò seria
“Impara le buone
maniere e cerca di non usare mai più quei modi arroganti con
me…” continuò
guardando il pirata, con il tono suadente e letale che Sanji ben
conosceva.
Il tizio a terra aveva preso una botta tale che non
sarebbe mai riuscito a spiccicare parola e Viola, intuendolo, si
alzò
apparentemente soddisfatta, lanciando al contempo un’occhiata
di ammonimento ai
compagni dell’uomo, che arretrarono, visibilmente
impalliditi. “Qualcun altro
ha qualcosa da dire sulla qualità degli ingredienti di
questo ristorante o
sulla bravura dei suoi cuochi?” chiese con calma sinistra,
ricevendo occhiate
terrorizzate e dinieghi convinti.
Dio quanto amava quella donna… Sanji mostrò un
sorrisino
compiaciuto, avvicinandosi a lei e non curandosi minimamente del fatto
che gli
aveva levato tutto il divertimento.
Vedendolo accostarsi, Viola gli sorrise dolce, allargando
contenta le braccia per ricevere il suo braccio dietro la schiena ed
abbracciandolo anche lei di rimando, mentre i pirati disincastravano il
moribondo compagno dalle assi del pavimento e lasciavano una cospicua
somma di
denaro sul mobiletto vicino all’ingresso, con tanto di scuse
e sguardi
spaventati all’indirizzo della ‘coppia
diabolica’ prima di congedarsi in tutta
fretta.
Dopo averli visti, avevano finalmente riconosciuto i due
dalla fama di irriducibili ossi duri che li precedeva e che sconfinava
in tutto
il mare orientale da anni.
Sanji, completamente dimentico di essere in una stanza
con decine di persone, le lanciò un’occhiata
carica di passione, incapace di
staccare gli occhi da lei, prima di mormorare già sulle sue
labbra. “Non si
scherza con la mia signora…” Viola rispose con
trasporto al bacio del suo uomo,
stringendolo a sé maggiormente come se ne dipendesse la sua
vita, prima di
porvi fine altrettanto rapidamente, con una tirata d’orecchi
che lo fece
gemere.
Lei lo squadrò furba con un luccichio pericoloso negli
occhi, le labbra ancora arrossate e lucide piegate in un sorrisino.
“Vedi di
ricordartene pure tu che non si scherza con questa signora!”
gli sussurrò
all’orecchio dolorante, riferendosi senz’altro
all’episodio di quella mattina
dove aveva fatto come al solito il cascamorto con la dolcissima Kayme
ed era
stato visto da lei. Il cuoco ridacchiò alzando gli occhi al
cielo mentre lei
gli sorrideva nonostante tutto innamorata e ancora abbracciata a lui
senza
alcuna intenzione di allontanarsi.
“Viola-chan quanto sei bella!!”
“Ti adoriamo!!”
“Sei fantastica!!”
Le urla dei vari cuochi presenti richiamarono la coppia
dalla piccola nuvoletta rosa dove erano approdati e provocarono
l’irritazione
del biondo, che la strinse maggiormente a sé, incenerendo i
colleghi con gli
occhi mentre lei ridacchiava. “BRUTTI SCHIFOSI PIANTAGRANE,
SMETTETELA DI FARE
I CASCAMORTI CON MIA MOGLIE E TORNATE AL LAVORO PRIMA CHE DECIDA DI
APPENDERVI
AL SOFFITTO PER LE PALLE E USARVI COME ATTRAZIONE PER I
TURISTI!!” …la finezza
l’aveva scordata nell’altro grembiule.
Zef sogghignò sotto i baffi, guardando con la coda
dell’occhio un paio di cuochi svolazzare attorno a Viola,
giurandole amore
eterno sprezzanti del pericolo, sotto lo sguardo divertito della
ragazza e
mortalmente oltraggiato del suo pupillo che aveva cercato di spingerli
via con
un calcio, allontanando –proteggendo, secondo lui–
contemporaneamente lei da
loro, non riuscendoci visto che Paty e Carne, con una luce sadica negli
occhi,
lo avevano preso alle spalle e lo stavano schiacciando a terra con il
loro
peso, dopo essersi seduti sopra di lui. Il vecchio Zef
sospirò nella cagnara,
addossandosi meglio allo schienale della poltrona che dava le spalle
all’ingresso.
Lasciare il Baratie in mano loro era stata l’idea
migliore da sei anni a quella parte. Aveva dovuto prendere atto che una
donna,
anche se non una qualunque, su quella bagnarola ci stava proprio bene,
tanto
più che a questa non aveva dovuto insegnare niente, sembrava
nata per vivere su
una nave ristorante. Quell’idiota del suo figlioccio era
riuscito a conquistare
una donna con i contro fiocchi che aveva pure rinunciato al trono di
Dressrosa
per lui. In sei anni era diventata una padrona di casa ineccepibile,
scaltra e
capace, Zeff non avrebbe potuto desiderare nuora migliore. Era capace
con una
sola occhiata di rimettere in riga Sanji quando questo si lasciava un
po’
troppo andare negli apprezzamenti verso il gentil sesso che
immancabilmente
entrava dalla porta del ristorante, ma con enorme sorpresa di Zef,
Viola si
dimostrava fin troppo comprensiva circa la passione di Sanji per le
donne,
sapendo che non potesse farne a meno o, più probabilmente,
rifletteva il
vecchio piedi rossi, perché in cuor suo era certa che non
l’avrebbe mai
tradita, visto l’amore sconfinato che le dimostrava ogni
giorno.
Per lei, per non intossicare il suo angelo, che non
richiedeva tutte queste attenzioni, era anche quasi riuscito a smettere
di
fumare, se non si contavano i vaghi momenti di malinconia o di
nervosismo, dove
riusciva a fumare l’intero pacchetto in dieci minuti. Viola
sapeva che era la
sua valvola di sfogo e non lo obbligava mai a fare qualcosa che non
volesse, ad
esempio non batteva ciglio quando lui desiderava malmenare un incauto
avventore
pagante che aveva avuto però l’ardire di lanciare
un apprezzamento troppo spinto
a lei, soprattutto se questa era nel mentre di uno dei suoi spettacoli
di
flamenco. Esibizioni meravigliose, conveniva Zef, che avevano
incrementato
oltremodo la clientela già vasta del ristorante, attirando
curiosi da tutto il
mare orientale solo per vederla ballare e scatenando oltremodo le
gelosie della
sua melanzanina che, ringhiante e senza tante cerimonie, defenestrava
ogni
sboccato fan che veniva a contatto con le sue mani. La sua principessa
non si
toccava nemmeno col pensiero.
Zef ridacchiò perso nelle sue riflessioni, gettando
un’occhiata a Viola, finalmente libera dalle minacce,
vedendola all’improvviso
perdere il sorriso e spalancare bocca ed occhi meravigliata, lo sguardo
puntato
sull’ingresso. Zef assimilò quel particolare in
ritardo, rendendosi conto solo
dopo qualche secondo che tutti nella stanza si erano improvvisamente
bloccati,
fermi come statue, fissando un punto imprecisato dietro la poltrona.
L’unico
che ancora si dimenava e lanciava improperi soffocati era Sanji, a
terra mezzo
soffocato dal dolce peso di Paty e Carne seduti su di lui che, come
tutti,
avevano smesso di colpo di ridere e fissavano la porta con sguardo
incredulo.
Zef si voltò curioso e ghignò compiaciuto nel
medesimo istante in cui Sanji riusciva
a scansare via i due cuochi e si alzava furibondo e scarmigliato.
“MA SIETE SCEMI?? CHE DIAVOLO VI PASSA PER LA
TESTA??”
ringhiò, continuando a dare le spalle all’ingresso.
Per un attimo nessuno rise né parlò e Sanji
sembrò
rendersi conto che qualcosa non quadrava. Scandagliò
rapidamente la sala
davanti a lui, notando il silenzio e gli sguardi vitrei di commensali e
cuochi. Che cosa…?
Poi Paty, bocca spalancata e occhi fissi su un punto alle
sue spalle, alzò un dito e indicò qualcosa dietro
di lui, ma Sanji non lo
guardava più. Lo sguardo incredulo gli era caduto sulla
porzione di pavimento
alla sua sinistra, dove un fascio di luce accecante faceva capolino
dalla porta
d’ingresso aperta, inondando il salone e stagliando
chiaramente sulla soglia
l’ombra tremolante di una figura inconfondibile che si
allungava al suo fianco,
là dove era stata per anni, proteggendolo e combattendo con
lui, e Sanji capì
subito, senza alcun bisogno di voltarsi, chi c’era alle sue
spalle.
Con serafica calma, estrasse una sigaretta dalla tasca e
la accese lentamente sotto lo sguardo attonito e silenzioso
dell’intera sala.
“Ce ne hai messo di tempo…”
mormorò tranquillo, aspirando
avidamente una prima boccata.
Zef sogghignò tra sé e sé, mentre
Viola mostrava le
lacrime agli occhi e un sorriso di pura gioia, alternando lo sguardo da
lui
all’individuo ancora sulla porta che non accennava a muoversi
né a proferire
verbo.
Sanji sospirò una nuvoletta di fumo, prima di voltarsi
finalmente e vedere quel sorriso enorme che mai aveva dimenticato,
stagliarsi
sotto la tesa logora di un vecchio cappello di paglia.
“…Però ora che me ne vado la taglia la
togliete!!”
°
La vita faceva paura.
Era casuale, priva di certezze e sicurezze. Da un momento
all'altro poteva colpirti un fulmine, o potevi cadere in mare, o
inciampare nei
tuoi piedi e battere la testa. Non era poi così difficile
passare dall'altra
parte.
In effetti, l'unica cosa certa della vita era che prima o
poi tutti dovevano fare i conti con la morte, che fosse di un
familiare, di un
amico o, naturalmente, la tua. La fine purtroppo non la si poteva
prevedere e,
se non era improvvisa, arrivava sotto forma di lento e inesorabile
decadimento,
un processo inevitabile a cui non si sfuggiva.
Non aveva senso la morte, non aveva senso la vita, eppure
si cercava sempre di trovare un equilibrio, per entrambe. Si sperava di
vivere
abbastanza a lungo da non avere rimpianti e che la morte giungesse su
un'anima
serena. Usop non se n'era mai preoccupato, credeva di avere molto
più tempo.
Quando era tornato a Shirop sei anni prima, pensava di
avere tutto il tempo del mondo.
Tempo per abbracciare Kaya, tempo per raccontarle le sue
storie -vere, stavolta-, tempo per riuscire a farla innamorare di
sé.
Sanji lo aveva spronato fino all’ultimo secondo
perché si
facesse avanti, prima di scendere dalla Going Grande Rufy una volta
arrivati al
Baratie. E lui ci aveva creduto davvero, con tutto l’animo,
che il suo ritorno
da eroe avrebbe fatto breccia nel cuore della ragazza.
Si sarebbe mostrato a lei in tutto il suo sfavillante
splendore, abbagliandola e convincendo sé stesso di essere
fantastico così come
Sogeking gli
suggeriva da sempre, ma non
era andata esattamente come se lo immaginava.
L’aveva ritrovata, quello si. Era bellissima come se la
ricordava, certo. Dolce e delicata, sicuro.
Ma la sua Kaya, la donna che amava da sempre e che aveva
lasciato piena di speranze a Shirop anni prima, non era più
lei, era l'ombra
della ragazza di un tempo.
La malattia che anni addietro la colpiva spesso e che
sembrava essere stata debellata completamente, aveva ripreso il suo
corso
inesorabile nel suo già debilitato corpo, sempre
più violenta e maligna,
rendendola debole e stanca, come Usop non l'aveva mai vista.
Il loro primo incontro dopo lo sbarco era avvenuto nella
sua grande casa, dove la vista di lei distesa su quel lettino asettico
gli
aveva provocato un orribile nodo in gola, ricordandogli la madre nella
stessa
condizione anni addietro.
Kaya era sveglia ed aveva trovato la forza per
sorridergli dolcemente con gli occhi lucidi (non avrebbe saputo dire se
per la
malattia o per la felicità di poterlo rivedere) e
mormorargli un ‘bentornato’
stanco ed affaticato, mentre Merry lo guardava sofferente e in pena, in
piedi
dall'altra parte del letto. Usop aveva risposto con un sorriso tirato,
l’aria che si faceva pesante ogni secondo di più
che
trascorreva in quella stanza, ma incapace di guardare altro che non
fosse la
sua più vecchia amica, emaciata e pallida, distesa su quel
lettino bianco.
Si era fatto spiegare nel dettaglio la situazione da
Merry. La malattia era tornata da un paio di mesi, con andamento
altalenante e
picchi di tre giorni ansiosi alternati a settimane di
tranquillità, avevano
interpellato più medici ma nessuno era stato in grado di
aiutarla ed il vecchio
maggiordomo non sapeva più che fare, Kaya non soffriva ma in
quei giorni si
sentiva così stanca da riuscire a fatica ad alzarsi dal
letto. I dottori non
trovavano una cura perché fisicamente non aveva nulla, lo
stesso Chopper lo
aveva confermato con un sospiro, dopo essere stato chiamato da Usop in
fretta e
furia. La diagnosi era chiara anche per lui: la paziente non aveva
segni
evidenti di malattie né di patologie particolari ma, per
qualche motivo, il suo
fisico era perennemente messo a dura prova da debolezza eccessiva e
stanchezza
cronica a cui non si poteva dare una causa. Le aveva prescritto una
cura
ricostituente basata su lunghe esposizioni al sole, respirare aria
salmastra e
una buona rosa di vitamine da prendere, più di questo
Chopper non aveva potuto
fare, omettendo di dire al suo vecchio amico che la sua impressione
principale
era che il problema della ragazza dipendesse da qualcosa che partiva
dalla sua
mente, ma aveva preferito non esprimerlo ad Usop, confidandolo
però al
maggiordomo Merry che aveva sospirato con fare saputo, giurando di
tenerlo
informato circa gli sviluppi. Chopper aveva però dato una
buona notizia e cioè
che senz’altro Kaya non era in pericolo di vita e, tra tutte
le cose brutte che
aveva dovuto affrontare in vita sua, Usop doveva ringraziare i Kami
perché era
certo non avrebbe retto se la morte se la fosse presa.
Il dottore gli consigliò di starle sempre vicino e
sostenerla nei momenti in cui la malattia ricompariva e così
aveva fatto, per
sei anni. Usop aveva dovuto accettare il fatto di non poter far nulla
di
concreto per lei, tranne starle accanto ed aiutarla nella lenta
ripresa, era
tutto in mano alla volontà di Kaya.
I primi anni aveva avuto costanti ricadute periodiche,
senza grossi drammi, ma che la obbligavano a tre o quattro giorni di
fermo a
letto, aiuto nella somministrazione dei cibi e nella vestizione. Usop
stava da
lei per tutto il tempo necessario a farla riprendere, raccontandole le
avventure infinite vissute con la sua ciurma e lei non se ne stancava
mai,
ridendo e riprendendo colore giorno dopo giorno. Nei periodi in cui
stava
meglio riusciva a fare delle passeggiate, a trascorrere tutto il tempo
che
poteva all’aperto, a riprendere gli studi di medicina, non
sapendo più se fosse
o no il caso di indagare ulteriormente circa il suo problema.
Ogni volta Usop le era accanto ed ogni volta sperava che
il periodo positivo non finisse, per continuare a gioire della
compagnia di una
Kaya dolce e in salute che lo faceva innamorare ogni giorno di
più.
Ormai era palese per tutto il villaggio che fosse così,
se ne erano accorti tutti. L’amore cieco ed assoluto che lui
provava restava
però relegato ai soli gesti, perché non si
decideva a farsi avanti con le
parole.
Usop la amava così tanto che era diventato automatico
mettere il suo bene di fronte al proprio, anche se questo significava
non
esporsi mai per timore che lei si sentisse a disagio ed avesse una
nuova
ricaduta. Era così fragile, una petalo di rosa, una delicata
piuma che non
avrebbe retto il peso di un amore sconfinato come quello di Usop e si
sarebbe
spezzata pur di non dargli dispiacere, pur di non ammettere di non
ricambiarlo,
perché si Usop era certo che lei non provasse nulla per lui,
se non contava il
bene che gli voleva come amico e che non esitava a dimostrare.
Dopo anni passati ad accudirla e ad aiutarla, avrebbe
dovuto accorgersi se lei fosse stata innamorata di lui, no? Avrebbe
dovuto
vedere differenze, gesti, sguardi, modi di porsi diversi…
invece nulla faceva
presagire che in sei anni lei avesse mai pensato a lui come a qualcosa
di più
che un amico. Faceva male, quelle poche volte che si permetteva di
pensarci,
faceva tanto male non poterla stringere come avrebbe voluto, ma si
riscuoteva
presto, sapendo di essere importante per lei in altri modi. Sanji ci
aveva visto
proprio male quella volta… avrebbe dovuto ricordarsi di
farglielo sapere alla
prossima visita al Baratie, o magari no… non voleva farsi
compatire anche
dall’amico con una vita sentimentale pressoché
perfetta, bastavano già Carota,
Cipolla e Peperone a farlo sentire inadeguato ogni volta
perché non si decideva
a farsi avanti. Ma loro non capivano. Era diventato un coraggioso
pirata dei
mari, ma sarebbe mai stato così forte anche di fronte al
rifiuto della donna
che amava? Non voleva scoprirlo.
Usop tutto sommato stava bene. Lavorava e trascorreva i
suoi giorni con i suoi tre vecchi amici, ai quali si univano di tanto
in tanto
Bartolomeo e i suoi, quando passavano di là.
I suoi compagni gli mancavano moltissimo e molte volte la
nostalgia era quasi insopportabile, ma quando era lontano lei gli
mancava come
l’aria e non vedeva l’ora di rivederla.
Fortunatamente, Kaya negli ultimi tempi
aveva avuto appena due ‘momenti’, come soleva
chiamarli Merry in mancanza di un
nome preciso alla malattia, curiosamente coincisi con i periodi duranti
i quali
Usop andava a fare visita ai compagni nel mare orientale e stava via
per
qualche giorno. Quando tornava, trovava Kaya in piena fase depressiva,
ma ormai
sapeva come prenderla e con poco la faceva tornare a sorridere e ad
alzarsi dal
letto.
Nell’ultimo anno non aveva più avuto alcun segno
della
malattia e Usop sperava sempre che fosse sparita del tutto
perchè non
danneggiasse più il suo fiore delicato. Ormai si
accontentava di vederla
sorridere in salute perché sapeva bene quanto la
felicità potesse essere
effimera. Arrivava quando si smetteva di lamentarsi dei problemi che si
aveva e
si ringraziava per tutti quelli che non si aveva e
lui la prendeva così
perchè non gli rimaneva che quello. Ringraziava per la
possibilità di starle
accanto sempre e comunque come in quell’assolato pomeriggio
primaverile, seduti
sull’erba fresca, guardando il mare, prendendosi una pausa
dal lavoro e dagli
studi di lei e scherzando tra loro come sempre.
Usop sospirò felice di essere con lei, di scorgerla
serena sfogliare il giornale che si era portata, senza pensieri brutti
a
rovinare il loro idillio, beandosi della sua presenza vedendola
accigliarsi e
sgranare gli occhi, guardand-… eh?
Usop si rizzò a sedere in allerta, fissandola dritto in
viso, improvvisamente ansioso. Era sul chi vive da anni e fremeva ad
ogni suo
irrigidimento del corpo come lo avesse vissuto sulla sua pelle.
Diede voce alla sua angoscia. “Che succede, Kaya?”
Ma lei non lo ascoltava, continuando a leggere il
giornale rapita ed Usop si ritrovò a sudare freddo.
Appurato che non stesse per avere uno dei suoi
‘momenti’,
doveva aver letto qualcosa di talmente sconvolgente da averla coinvolta
totalmente. Riprovò, esitante. “Kaya, che cosa hai
letto? Che succede?”
Lei si voltò verso di lui e lo sguardo che gli
lanciò gli
fece mancare il terreno sotto i piedi.
Cercò di sbirciare da sopra la sua spalla ma lei teneva
il giornale rivolto costantemente verso di lei e non dava segno di
volerglielo
far vedere, anzi lo fissava con uno sguardo che metteva i brividi. Usop
iniziò
a spazientirsi. “Kaya, insomma! Che ti prende?” le
chiese alzando i toni. Va
bene che l’amava, va bene che era fragile, ma si stava
preoccupando a
morte! Lei
d’altro canto, respirava
affannosamente ed aveva smesso di guardarlo, fissandosi le scarpe, il
viso
coperto dalla frangetta. Usop non riuscì a trattenersi,
allungò il braccio per
afferrare il giornale ma Kaya fu più veloce. Rapida, lo
strappò in più parti,
contorcendo le pagine sotto le sue mani, lacerando rabbiosamente i
fogli che
presero a cadere come coriandoli, disperdendosi nell’aria e
intorno a loro,
finché non ne rimasero che brandelli sparsi.
Il cecchino la guardava sconvolto. Ad occhi sgranati
fissava la ragazza che aveva davanti, palesemente infuriata, senza
riuscire a
capire cosa avesse scatenato quella furia. Di una cosa era certo,
però, quella
non era Kaya!
La dolce ragazza che conosceva da anni non aveva scatti
d’ira come quello senza motivo, anzi, non aveva proprio
scatti d’ira! In quel
momento realizzò che non l’aveva mai vista
arrabbiata, nemmeno con Kuro lo era
stata.
Ma che le prendeva?
La risposta non si fece attendere troppo. La giovane
dottoressa si alzò in piedi, guardando l’amico di
una vita ancora seduto a
terra con un espressione di sofferenza pura in volto.
“Rufy ha ripreso il mare ed ha fatto sapere che il vostro
tesoro è ancora nascosto da qualche
parte…” mormorò tremante, deglutendo
rumorosamente.
Usop la fissò sbigottito. Il suo capitano aveva detto di
dare la caccia al tesoro…?
Si spalmò una mano sulla faccia. Rufy era davvero un
idiota, si ritrovò a pensare innervosito.
Erano tutti d’accordo, perché si metteva a fare
cose così
stupide?? Usop alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
Non vedeva l’ora di
vedere l’ira di Nami abbattersi su di lui e, con quel
pensiero in mente, ghignò
tra sé e sè, facendo accigliare Kaya, che non si
perdeva una sua espressione.
Dal momento che stupida non era, aveva chiaramente capito
il motivo per il quale Rufy aveva deciso di indire una nuova
‘Era della
pirateria’ proprio in quel momento e la cosa la stava
devastando più di quanto
avesse creduto, perché sapeva cosa sarebbe successo. La
faccia felice di Usop
le sembrò solo un’ulteriore conferma ai suoi dubbi
e le provocò una stretta al
cuore talmente dolorosa che le sembrò venisse trafitto da
mille coltelli.
Strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche e cercò con
tutte le sue forze
di non piangere.
“Se sei davvero così felice di andartene,
perché sei
tornato? Non potevi restare dov’eri e non tornare mai
più qui??” gli chiese
velenosa, senza riuscire a frenare i tremiti che la scuotevano e non
certo per
l'aria fredda.
Usop, che in tutto questo pensava ancora alla faccia
cianotica di Rufy mentre veniva soffocato da Nami, non aveva afferrato
la cosa
più importante e sgranò gli occhi alle parole di
Kaya. Andarsene…? Lui…?
Tentò di articolare una domanda ma la ragazza era ormai
un fiume in piena. “Io non sono mai abbastanza per te!
PERCHÈ IO NON SONO MAI
ABBASTANZA PER TE, OTTUSO NASONE??” era terrorizzata glielo
leggeva negli
occhi, ma Usop non riusciva a capire, la fissava basito completamente
senza
parole.
Lei che lo chiamava ottuso nasone?? Ma che stava dicendo?
Era impazzita??
Dagli occhi di Kaya avevano preso a scorrere le lacrime,
ormai incapace di trattenerle. “NON NE POSSO PIÙ,
USOP!! NON NE POSSO PIÙ DI
SENTIRTI DIRE CHE SONO UN DELICATO E DOLCE FIORELLINO!! NON CAPISCI CHE
È PER
COLPA TUA CHE STO MALE?? SONO ANNI CHE MI RACCONTI DELLE TUE AVVENTURE
PER
MARE, DI QUANTO TI MANCANO I RAGAZZI E NAVIGARE CON LORO! SAPEVO CHE
PRIMA O
POI SAREBBE SUCCESSO, ME L’HAI DETTO TU CHE RUFY VOLEVA
RIUNIRVI UN GIORNO, E
OGNI DANNATA VOLTA CHE TU PRENDEVI IL MARE PER ANDARE A COCO, AL
BARATIE O
CHISSÀ DOVE, IO MORIVO DENTRO, TERRORIZZATA CHE NON TORNASSI
PIÙ! CHE UNO DI
LORO TI CONVINCESSE A RIPRENDERE IL MARE!! ORMAI PENSAVO CHE NON
SAREBBE PIÙ
ACCADUTO E INVECE ADESSO È SUCCESSO DAVVERO! RUFY STA
VENENDO A PRENDERTI E IO
DOVRÒ LASCIARTI ANDARE UN’ALTRA VOLTA!”
Scoppiò in un pianto a dirotto sotto lo sguardo
sbigottito del cecchino che non sapeva bene cosa fare. Se ne stava
lì fermo a
farsi vomitare addosso parole amare per lei, ma senza senso per lui,
mentre
Kaya cercava in ogni maniera di chetare la crisi che l’aveva
colta dopo aver
letto quella notizia sul giornale.
Non poteva farci nulla, l’equilibrio faticosamente
conquistato in tanti anni si basava unicamente sulla presenza o meno di
Usop al
suo fianco. Le c’era voluto tanto tempo per accettare
l’idea di non poter
essere considerata più di un’amica da lui, si
accontentava di stargli accanto
ma ora, sapendo che se ne sarebbe andato un’altra volta,
qualcosa si era
spezzato dentro di lei, il sottile filo della ragione era rotto e la
bocca
correva a briglia sciolta come non era mai riuscita a fare prima.
Sempre sotto gli occhi del cecchino, che sembrava esser
diventato una statua di sale, riuscì miracolosamente a
calmarsi e con voce
malferma continuò a parlare, decisa ormai a vuotare del
tutto il sacco, sapendo
che sarebbe forse stata l’unica occasione che aveva per
riuscire a dichiararsi.
“Col tempo ho raggiunto la consapevolezza che la mia malattia
è strettamente
collegata a te. Ricordi quando ci siamo rivisti sei anni fa? Stavo male
e non
sapevo perché ma ora si. Io sapevo che stavi per tornare su
Shirop e che non
eri più quello di un tempo… eri un eroe! Venivi
addirittura chiamato ‘Dio’ sul
tuo avviso di taglia. Eri diventato un uomo forte, coraggioso, un
pirata di
fama, del tutto irraggiungibile.
Non
avevamo più nulla in comune e ho avuto paura di rivederti,
perché sapevo che un
uomo come te non avrebbe mai visto niente di più di
un’amica in una ragazzina
anonima come me. Se avessi permesso ai miei sentimenti per te di
uscire, avrei
fatto una figuraccia colossale, perché ero sicura che tu non
avresti mai
contraccambiato il mio amore e questo mi ha fatto ammalare. Sono sempre
stata
cagionevole ed è bastato poco, la mia mente ha fatto il
resto… Ma poi ti ho
rivisto ed eri meraviglioso con me, grazie alla tua presenza riuscivo a
stare
meglio.” Usop la fissava ad occhi spalancati, troppo sorpreso
per riuscire a
rispondere in qualche modo, lei gli si avvicinò, sedendosi
nuovamente al suo
fianco e guardandolo fisso. “…Tu mi facevi stare
bene con la tua sola presenza!
Non eri cambiato, eri lo stesso ragazzino dolce che amavo, ma eri
diventato
anche un uomo meraviglioso, quello che ogni donna sognerebbe, e ogni
giorno di
più io mi innamoravo di te, pur sapendo di non avere
speranze, perché tu eri
buono con tutti e aiutavi sempre gli amici in difficoltà! Io
non potevo ambire
ad altro…” Kaya tirò su col naso,
asciugandosi gli occhi rossi di pianto. “…Ma
adesso non potrò più fare affidamento nemmeno
sulla tua amicizia… Rufy verrà a
prenderti e so che tu non aspetti altro da anni… devo
lasciarti andare e questa
cosa mi sta distruggendo…” mormorò,
l'ultima frase rivolta più a se stessa che
a lui.
Lui che aveva ormai il cuore che scoppiava nel petto e
che aveva creduto di essere morto per un attimo dopo averla sentita
dire
chiaramente che era innamorata di lui da sempre.
Il respiro gli si fece accelerato di colpo, mentre con la
mente rimetteva insieme i pezzi e capiva perché negli anni
non aveva mai visto
differenze nei suoi comportamenti da quando avevano 17 anni.
Semplicemente
perché per lei non ce n’erano, amava il ragazzino
che era stato, amava l’uomo
che era diventato, e questa consapevolezza era difficile da descrivere.
Scoprire di essere ricambiato dalla donna che amava da tutta la vita lo
aveva
sconvolto, atterrito e allo stesso tempo fatto sentire in paradiso.
Kaya sollevò lo sguardo su di lui, vedendo la confusione
sul suo viso e si morse una guancia per l'agitazione.
Lo sapeva, lo sapeva che lui non provava nulla per lei.
Cosa sperava di ottenere? Una scusa? Una promessa che non l'avrebbe
lasciata
sola? Lo sapeva che sarebbero arrivati solo deboli e patetici
farfugliamenti
per levarsi dall'impiccio, se l’era cercata. Ne moriva ma
allo stesso tempo si
sentiva in colpa per averlo messo a fronte di un problema del genere.
Se
davvero non l'amava non avrebbe mai potuto fargliene una colpa ed ora
cominciava a vergognarsi anche per lo sfogo di poco prima. Avrebbe
dovuto stare
zitta, Usop non ne poteva nulla se lei si era fatta dei castelli in
aria, ma
ormai non si poteva tornare indietro. Sostenne il suo sguardo,
all'improvviso
senza più nessuna voglia di combattere e preparandosi ad
attutire il colpo.
Quando Usop finalmente riprese l'uso della parola le si
rivolse con un tono esitante e incerto “Per-Perchè
non me l'hai mai detto
prima?”
Lei lo guardò mestamente, voltando poi il viso e fissando
gli alberi in lontananza. “Perchè sapevo che non
sarebbe cambiato nulla. Avrei
dovuto stare zitta anche oggi.” commentò
amaramente.
Usop si accigliò, gli faceva male vederla così.
“Tu credi
davvero che io non provi niente per te?”
Kaya si voltò, gli occhi fiammeggianti, la determinazione
ancora viva in lei nonostante il cuore a pezzi. “Ne sono
certa! Altrimenti mi
avresti fatto
capire qualcosa in sei
anni!”
Lui deglutì, preso in contropiede, allontanandosi
impercettibilmente da lei e sfuggendo al suo sguardo indagatore.
Aveva ragione. Dio se aveva ragione. Da anni si vantava
di essere diventato un valoroso pirata che incuteva timore e rispetto,
conosciuto in tutti i mari e sfidato da molti nemici potenti senza
provare mai
paura, quando bastava un'occhiata dolce di Kaya diretta a lui per far
crollare
tutte le sue certezze e ritornare ad essere il pivello che era sempre
stato
davanti al primo amore. Il coraggio che aveva dimostrato in battaglia
spariva
di fronte al fatto che in sei anni non era mai stato in grado di farsi
avanti
con lei, troppo timoroso di un rifiuto.
“I-io... no, non è vero... i-io... insomma tu
stavi male!
Eri sempre malata, avevo paura di rompere...”
“Che cosa? Il mio delicato equilibrio?” lo
interruppe
astiosa. “Smettila di mentire Usop. Se davvero avessi provato
qualcosa per me
una cosa del genere non ti avrebbe fermato!”
Usop tentò di spiegarsi rapido “Non era questo
che... oh,
io...” si bloccò e fece un respiro profondo.
“Io... io pensavo di non essere
corrisposto!” mormorò a fatica chiudendo gli
occhi, mentre lei spalancava i
suoi per la sorpresa.
Un codardo, ecco come si sentiva. Un maledetto codardo
che si era trincerato dietro la sua paura rischiando di perdere la cosa
più
bella che avrebbe mai avuto al mondo e c'era voluto vederla in lacrime
col
cuore spezzato per fargli realizzare quanto era stato idiota! Ma ora
non lo
sarebbe stato più!
Riaprì di scatto gli occhi e li puntò nei suoi,
facendosi
coraggio con la speranza che le leggeva nello sguardo. “Io
non ti voglio come
amica Kaya. Da sempre io ti voglio in un altro modo...” ma
Kaya continuava a
fissarlo dubbiosa.
“Non mentire.” lo avvertì sull'orlo del
pianto.
“Non sto mentendo...” mormorò roco, il
cuore in gola
“...sono stato un bugiardo per troppo tempo, ma era a me che
mentivo! Convinto
che mi bastasse rimanerti accanto per essere felice e non provare a
chiedere
altro, come ora mi rendo conto avrei dovuto fare, ma avevo paura...
paura di
non essere abbastanza forte o bravo per chiedere di
più...” Usop
deglutì, la gola in fiamme ma gli occhi
determinati puntati su di lei che lo guardava esterrefatta.
“Hai ragione, se Rufy verrà a prendermi io
andrò con
lui.” Kaya abbassò lo sguardo, gli occhi lucidi
che premevano per dare nuovo
sfogo alle lacrime, ma Usop le sollevò delicatamente il viso
con una mano
costringendola a guardarlo. “...se Rufy verrà, io
andrò con lui e tu… tu verrai
con me!” la ragazza trattenne il fiato ad occhi spalancati.
“…non ho più
intenzione di soffocare quello che provo e vorrei tanto che tu
rimanessi con me
per il resto dei miei giorni!” Usop chiuse gli occhi un
istante, cercando di
frenare il battito impazzito del suo cuore, prima di riaprirli
determinato e
ardito come un uomo dovrebbe sempre essere nel momento più
importante della sua
vita. “Ti amo Kaya... ti ho sempre amata... Voglio che tu
parta con me, con la
Sunny, e lì in presenza dei nostri Nakama… voglio
fare di te mia moglie...”
esalò sicuro, con un coraggio che non credeva di possedere e
senza abbassare lo
sguardo incrociato con quello lucido di lei, illuminato dal sorriso
innamorato
che le stava nascendo sulle labbra.
Prima che potesse rendersene conto, Kaya l'aveva
afferrato per il bavero della giacca e l'aveva attirato a
sé, coinvolgendolo in
bacio che sapeva di lacrime mal trattenute ma anche di amore e
speranza, e che
durò il tempo di un battito d’ali, ma fece
strabuzzare gli occhi al cecchino e
soprattutto aumentare in maniera preoccupante la sua tachicardia.
Ci volle la risata dolce di Kaya, di quella che ora
avrebbe potuto -finalmente- chiamare la sua donna, per fargli riavere
coscienza
di sé. Ma dovette far forza sul proprio autocontrollo per
non accasciarsi al
suolo pur essendo già seduto, quando la vide annuire rossa
in volto ma serena e
innamorata, alla sua proposta, incatenando i loro occhi.
Per l’emozione avevano preso a tremargli anche le
ginocchia.
Usop le sorrise, avvicinandola a lui e unendo di nuovo le
loro labbra per suggellare la promessa.
In un ultimo barlume di lucidità realizzò che ci
aveva
messo davvero tanto tempo -troppo-
per
cancellare del tutto la paura dalla sua vita e doveva ringraziare solo
lei per
questo. Sentendola totalmente abbandonata a lui con il cuore finalmente
sereno,
approfondì il bacio, giurando a sé stesso sul suo
onore di pirata che non
avrebbe mai più sprecato nemmeno un secondo di questa sua
nuova vita.
°
La vita era meravigliosa.
Se avevi fortuna, poteva essere come volevi tu, potevi
costruirla un passo alla volta, senza strafare.
Nessuno ti insegnava come fare, stava a te tirar fuori
sempre il meglio da ogni situazione avversa, dalle più lievi
alle più pesanti.
Nascevi solo e morivi solo, ma l'intermezzo era una scoperta continua.
Se accettavi il fatto che la vita non avrebbe mai potuto
essere perfetta, ti accorgevi che era lo stesso meravigliosa.
Se accoglievi tutti gli eventi indistintamente, e ne
facevi tesoro, erano esperienze guadagnate.
Se avevi la speranza, la salute e l'amore, era
meravigliosa, perchè la vita era troppo breve per avere
rimpianti o sperare che
accadesse qualcosa di meglio e sprecare ogni attimo nell'attesa.
Se credevi fermamente che tutto dovesse accadere per un
motivo preciso riuscivi a vivere più serenamente. Affrontavi
con tranquillità
anche i problemi più complicati.
Se riuscivi ad essere sempre pronto, gli imprevisti della
vita ti scivolavano addosso come acqua.
Si, la donna in cima alla scogliera credeva fortemente in
ciascuno di questi principi.
Meditava sui misteri della vita mentre, seduta a gambe
incrociate, osservava il mare piatto, sotto il sole caldo del mattino,
con i
lunghi capelli rossi che svolazzavano liberi nel vento.
Meditava e rifletteva. Rifletteva e meditava. Occhi
aperti, occhi chiusi. Un occhio aperto ed uno chiuso.
Dopo nemmeno dieci minuti si diede per vinta, aprendo
entrambi gli occhi e decidendo senza indugio che tale arte non fosse
adatta a
lei. Non era capace di reggere i ritmi del tipo strambo che le stava
seduto a
fianco ad occhi chiusi, gambe incrociate e schiena dritta, ormai
divenuto un
tutt'uno con la natura che li circondava.
Sbuffò piano, per evitare di disturbare almeno la sua di
concentrazione, e prese a guardarsi intorno.
A pochi passi da lei si ergeva una modesta tomba bianca
con dei fiori freschi. La girandola attaccata alla lapide girava veloce
per il
vento che arrivava dalla baia e riuscì a catturare la sua
attenzione per
qualche secondo, prima di spostare nuovamente lo sguardo di fronte a
sé, al
mare sconfinato, e sbuffare di nuovo.
Niente, non ce la faceva. Nami, detta Gatta Ladra,
navigatrice di Cappello di Paglia, autrice dell'unica cartina che
conteneva la
mappa completa del mondo, nonché detentrice del premio
'pazienza estrema', non
riusciva a rilassarsi!
Non ce la faceva, non era nelle sue facoltà!
Ringhiò tra
i denti. Poteva raccontarsi quanto voleva che la vita era bella, che
doveva
fare tesoro di ogni cosa, che le avversità rendevano
più forti, ecc... ma la
verità era che l'unica cosa che l'avrebbe fatta felice in
quel momento sarebbe
stato mettere le mani attorno al collo del suo più vecchio
amico, nonché
capitano, fino a renderlo cianotico e, a quel punto, l'avrebbe lanciato
in mare
e che l'acqua facesse il suo dovere. Altro che le zucchine, sarebbe
stato
terrorizzato da ben altro, quell'idiota!
Una mano grande si posò leggera sulla sua chiusa a pugno
che stringeva spasmodica. Sussultò, girandosi a guardare
Zoro, al suo fianco,
evidentemente riemerso dalla seduta di meditazione a causa dei suoi
continui
grugniti.
Sospirò piano, osservandolo in silenzio infonderle con il
solo sguardo la calma che non lo aveva ancora lasciato.
Sembrò funzionare perchè Nami riprese a respirare
normalmente. Lo ringraziò con un cenno del capo.
Zoro rise guardandola e lo stomaco della ragazza fece una
capriola all'indietro.
Dopo anni quella familiare stretta era ancora
onnipresente ogni volta che lui le sorrideva.
“Non avevi detto che ci avresti almeno provato?” le
chiese lui con un sopracciglio alzato.
Lei sospirò. “Ci ho provato,
ma non fa me! Non
riesco a calmarmi così... preferisco ancora il mio
metodo!”
Zoro la guardò scettico. “Fare shopping sarebbe un
metodo
per calmare gli istinti omicidi verso Rufy?”
Lei annuì convinta. “Altrochè! Ma non
hai imparato niente
in tanti anni con me??”
Il ragazzo fece spallucce, poco incline ad approfondire
l'argomento. “Come vuoi... io c'ho provato a proporti
un'alternativa più
economica...”
Nami sorrise teneramente. “Lo so e per questo ti
ringrazio, ma facciamola finita. Tu ti tieni la meditazione, io lo
shopping
sfrenato!”
Zoro ghignò incrociando le braccia. “Basta che mi
giuri
di non rendere Ace orfano e Robin vedova.”
La cartografa si imbronciò. “Non posso
promettertelo....”
Lo spadaccino ridacchiò “Lo sai
com'è... I cretini sono
sempre più ingegnosi delle precauzioni che si prendono per
impedirgli di
nuocere.” sussurrò sdraiandosi a terra ed
estraendo due buste dalla tasca,
porgendogliele. “Queste me le ha date Nojiko prima che
arrivassi qui e ti
trovassi da sola in preda alla rabbia a incenerire alberi e
cespugli...”
Alla vista delle buste bianche gli occhi della donna si
illuminarono, battendo le mani tra loro come una bambina.
“Oh! Sono già
arrivate? Hanno fatto prestissimo!” commentò
guardando il mittente, mettendole
poi in tasca senza aprirle.
Zoro la fissò curioso. “Non le leggi?”
“Oh, non c'è fretta. Carrot e Momo possono
aspettare
qualche minuto.” mormorò suadente al suo orecchio,
avvicinandosi a lui
sull'erba e posandogli una mano all'altezza del cuore. Zoro
sogghignò sereno
già pronto a stringere a sé la sua donna, quando
si accorse in ritardo di un
particolare. Si alzò a sedere di scatto, guardandola con gli
occhi spalancati.
“Momo?? Intendi Momonosuke? Perchè diavolo ti
scrive ancora quello??”
Nami da sdraiata si mise un braccio a sostenere la testa
squadrandolo tranquilla dal basso. “Non mi dirai che sei
geloso di un
ragazzino...”
Zoro soffiò nervoso dal naso, stringendo gli occhi.
“Ma
quale ragazzino! Ormai avrà quasi 18 anni!!”
“Appunto. È un ragazzino per me...”
ribadì serena. “...E
poi non darti pensiero, lo sai che sono tua.”
precisò, con una naturalezza
disarmante che lasciò un attimo interdetto lo spadaccino,
prima di scuotere la
testa e ridistendersi al suo fianco dove venne accolto a braccia
aperte. “Si,
sei mia...” mormorò divertito vicino al suo
orecchio. “Vedi di ricordarglielo,
però...” Nami ridacchiò contro la sua
spalla, accoccolandosi meglio.
Lo osservò qualche secondo in viso, ascoltando il rumore
del vento tra gli alberi e delle onde sotto di loro, prima di
infrangere
nuovamente il silenzio. “Quando hai intenzione di
tagliarlo...?”
Lui la fissò di rimando, sorpreso. “Che
cosa?”
La cartografa si accigliò. “Come che cosa?
Parlo
di questo!” dichiarò toccandogli il mento.
“Con questo pizzetto e i capelli più
lunghi assomigli a Mihawk sempre di più ogni
giorno!”
Zoro sbuffò. “Non è vero, il suo
è diverso!” affermò
deciso, come fosse la milionesima volta che lo ripeteva.
Nami assottigliò lo sguardo storcendo la bocca.
“Di
diverso avete solo il colore! E non lo penso solo io, lo dice anche
Perona!”
Lo spadaccino schioccò la lingua. “Dovete
piantarla di
fare comunella alla mie spalle voi due...”
Nami rise, stringendolo di più a sé, beandosi
delle sue
coccole e della calma che le infondevano le sue mani attorno alla vita.
Capitavano di rado momenti di intimità placida e tenera tra
di loro,
solitamente si comportavano come cane e gatto, ma qualche volta uno dei
due, se
non entrambi, sentiva il bisogno di esternare l'amore in maniera
più dolce ed
affettuosa. Da anni si capivano al volo, senza bisogno di parlare, come
due
perfette metà di un'anima sola ed in fondo era pure normale,
erano così simili
loro due. Zoro non era tipo da effusioni in pubblico e lei per prima
non le
amava particolarmente da chiederglielo, ma l'uno capiva quando l'altro
ne
avesse particolarmente bisogno. E Nami preferiva di gran lunga tenere
per sé il
lato dolce che il suo uomo faceva uscire solo con lei e, ovviamente,
con Ren
quando non ne aveva combinata un'altra delle sue.
Come se le avesse letto nel pensiero, Zoro prese ad
accarezzarle con movimenti circolari e lenti il ventre piatto, come
aveva preso
a fare spesso quando era rimasta incinta e anche dopo, facendola
diventare una
dolce abitudine nei loro momenti intimi rubati alla
quotidianità.
“Dov'è Ren?” le chiese, come lei si
aspettava. Sorrise.
“Dove vuoi che sia... in giro per il paese.”
rispose,
trattenendo una risata.
“Da solo??”
“Ovviamente no, scemo. Con tuo padre e tua
sorella...”
mormorò, ancora contro la sua spalla.
Zoro alzò gli occhi al cielo. “Piantala,
Nami!”
Lei rise di gusto, mai stanca di prenderlo in giro. “Dai,
devi ammettere che lo sembrano davvero!”
Lo spadaccino si imbronciò. “Non so
perchè dobbiamo
continuare con questa farsa...”
Nami si sollevò sui gomiti, guardando il mare. “E
io non
so perchè me lo chiedi ogni volta! Lo so, lo abbiamo detto
quasi per gioco, ma
ha funzionato! Non sarebbe stato affatto semplice spiegare ad un
paesino
tranquillo come questo chi fossero i due strani individui che venivano
spesso a
farci visita... ammettiamolo, Mihawk e Perona non sono due che passano
facilmente inosservati! E lo sai meglio di me che dopo il periodo con
gli
uomini-pesce quest'isola è diventata molto diffidente con i
forestieri…”
Zoro grugnì. “Lo so, però devo fare
comunque un
discorsetto a Perona! Va bene in pubblico, ma ormai recita anche tra di
noi a
casa!”
Nami lo guardò di sbieco con un sorrisino. Sapeva a cosa
si riferiva ma sarebbe stato inutile, la ragazzina fantasma non avrebbe
perso
facilmente la naturalezza con cui aveva preso a chiamarlo 'fratellone'
ad ogni
occasione buona. In tanti anni Nami aveva imparato che Perona era
capace di
avere una discussione fruttuosa anche con le pareti di casa, oltre che
a farsi
filmini mentali su chiunque, e non avrebbe mai avuto cuore di
risvegliarla
dalla gioia palese che provava nel considerare tutti loro la sua
famiglia
allargata. Sapeva bene che anche a Zoro non dispiaceva poi molto, ma
era
certamente più difficile farglielo ammettere.
“Non mi sembra dia così fastidio a Mihawk essere
chiamato
papà da lei...” mormorò furba, sapendo
di toccare il tasto giusto, Zoro non sarebbe
mai andato contro il volere del suo vecchio maestro. “Tra
l'altro Ren li adora
e devo dire che Occhi di Falco mi ha stupito! Sembra proprio un nonno
amorevole
con lui, almeno quando è sicuro che nessuno lo guardi...
Genzo sta iniziando a
diventare geloso...”
Fu il turno di Zoro di ridacchiare. Non era scemo, se
n'era accorto pure lui e la cosa non gli spiaceva affatto!
Fin da quando aveva saputo che Nami era rimasta incinta
aveva sperato che l'essere lo spadaccino più forte del mondo
sarebbe stato un
ottimo elemento per invogliare il futuro figlio (o figlia) ad
apprendere l'arte
della spada e seguire le sue orme, ma aveva dovuto arrendersi presto
all'evidenza.
Per qualche motivo, al suo bambino di quasi quattro anni,
di esercitarsi con le katane giocattolo che gli regalava dalla nascita
non
poteva interessare di meno, anzi preferiva di gran lunga stare ore e
ore
nell'agrumeto della mamma a rincorrere farfalle o a disegnare sdraiato
sull'erba.
Zoro non riusciva a capacitarsene. Spesso in quei momenti
gli tornava alla mente quando Nami, ormai prossima al parto, aveva
preso
l'abitudine di immaginare come sarebbe stata la sua creatura una volta
messa al
mondo, fantasticando senza sosta sdraiata con lui nel loro letto. Con
un'esaltazione da imminente mamma cercava di coinvolgerlo nei suoi
sogni ad
occhi aperti con poco successo. Zoro non riteneva necessario creare
tali
fantasie dal momento che non era interessato a sapere come sarebbe
stato caratterialmente
o fisicamente, l'unica cosa che bramava era tramandare le sue
conoscenze
sull'arma bianca a quello che considerava già il suo erede.
Nami accettava relativamente questa sua mancanza di
curiosità verso il nascituro ma una volta non ce l'aveva
più fatta, era
scoppiata. “Nessuno ha mai deciso che il mio bambino debba
per forza essere un
samurai. Magari da grande vuole fare l'artista!” gli aveva
detto, nervosa. Zoro
aveva sollevato lo sguardo scoccandole un’occhiata piena di
compatimento.
Davvero Nami pensava che suo figlio potesse anche
solo contemplare
l’idea di una vita priva di spade e sfide mortali?
Si, a quanto pareva... ragionò lo stesso Zoro.
Lo pensava davvero e quel che era peggio era che dopo
quattro anni era arrivato al punto da non poter evitare di rifletterci
pure
lui. Nami ci aveva visto lungo, o forse era opera sua.
Non c'era verso di coinvolgere il bambino nei suoi
esercizi, ci aveva provato tanto. Ogni volta tirava fuori qualche
debole scusa,
ridacchiava in un modo che somigliava in maniera impressionante a Nami,
e si
sedeva composto per terra, entusiasta di guardarlo mentre si allenava.
Ecco si,
almeno era riuscito ad affascinarlo, adorava guardare il suo
papà fortissimo
mentre faceva i suoi esercizi, ma il suo interesse si fermava
lì, non aveva
intenzione di provare, al contrario sprizzava energia da tutti i pori
quando qualcuno,
di solito zia Nojiko che ci aveva visto lungo, gli regalava un nuovo
albo per
disegnare.
In cuor suo, Zoro si stava placidamente abituando
all'idea di non vederlo mai con una katana in mano, ma non si dava
completamente per vinto. Magari era tutta una questione di
età, forse
l'interesse sarebbe giunto col tempo, non smetteva di sperarci e,
intanto,
spingeva il bambino a trascorrere quanto più tempo possibile
con Mihawk, ogni
volta che lui e Perona passavano a trovarli. Era sicuro che vedere
all'opera un
altro spadaccino abile e grandioso, come doveva ammettere fosse il suo
vecchio
maestro, avrebbe potuto dare un'ulteriore spinta al bambino. Certo, che
poi
passasse anche un sacco di tempo con Perona da aver quasi iniziato a
ridere
come lei e a giocare con i suoi ninnoli, erano dettagli...
“Non diventerà mai una sorta di Perona in
miniatura,
sappilo...” dichiarò Nami, che aveva intuito i
pensieri del compagno come se li
avesse espressi a voce alta. Lui la fissò giustamente
stupito, mettendosi
seduto come lei.
Alzò le spalle. “Sei un libro aperto per
me...” mormorò
al suo indirizzo, sorridendo. “Ren ha una
personalità tutta sua. Solo perchè
adora Perona e Mihawk non vuol dire che diventerà come uno
di loro due... anche
se tu speri nel secondo...” aggiunse con una faccia saputa.
Zoro ghignò. “Hai ragione, somiglia troppo a
quella
strega della madre!”
Nami si pavoneggiò come le avesse fatto un complimento,
mormorando un 'eh, che ci posso fare? Sono fantastica.' mentre lui
riprendeva
parola. “...in ogni caso mi piacerebbe smettesse almeno di
giocare con le
bambole...” mormorò lui storcendo la bocca e
incrociando le braccia.
Nami sbuffò una risata. “A parte che non ci
sarebbe nulla
di male in caso, ma non le puoi chiamare bambole! Sono le bamboline
voodoo di
Perona, dovresti essere felice che stia imparando a mutilare
più gente
possibile! Anche se non lo fa con una spada...”
esalò dubbiosa.
Zoro scosse la testa ridendo. Aveva smesso di tentare di
capire suo figlio da tempo e
si era rassegnato ad
amare incondizionatamente quello strano esserino vispo, nonostante non
riuscisse a trovare punti in comune con lui nemmeno a pagarne.
Sospirò
mestamente.
Nami lo guardò con
fare saputo,
ridacchiando nei suoi pensieri.
Chiunque quando conosceva Ren
lo additava subito come la sua fotocopia in miniatura e forse per certi
piccoli
evidenti aspetti era anche vero, come per il colore di capelli e la
passione
nel disegno, ma lei sapeva benissimo che le sfaccettature
più importanti del
suo carattere le aveva ereditate da qualcun altro.
Suo figlio era identico a Zoro.
Era vero non si somigliavano
fisicamente, né avevano gli stessi interessi, ma erano
uguali in tutti gli
altri aspetti.
Lo stesso spirito indomito
dell'uomo
lo vedeva nel bambino, ogni qualvolta affrontava una
difficoltà, che fosse un
disegno riuscito male o un'ingiustizia subita da uno dei suoi amichetti
al
villaggio, non si dava mai per vinto affrontando ogni cosa certo delle
proprie
capacità.
Aveva una curiosità
infinita
che spaziava ad ogni argomento, con una predilezione per le cose che
apprendeva
direttamente da Zoro. Ren era fiero dei suoi geni e non ne faceva
mistero,
idolatrando il padre sopra ogni cosa.
Mostravano la stessa
attenzione
e lo stesso amore nel prendersi cura delle cose a cui tenevano, fossero
una
spada o un gioco. Zoro non si era mai reso conto che all'inizio Ren
temesse
Mihawk, le sue cicatrici e il suo sguardo serio, ma una volta capito
che lo
spadaccino fosse qualcuno di molto importante per il suo fantastico
papà, lo
aveva rivalutato. Se Zoro lo ammirava, allora Occhi di Falco doveva
essere una
persona straordinaria e degna di essere presa in considerazione da lui.
Ora
solo Zoro riusciva a staccarlo da Mihawk!
Erano simili anche nel
preservare il loro ideale di giustizia e coerenza. Per quanto piccolo,
Ren ne
sapeva abbastanza da capire quando questi due suoi ideali venivano a
mancare e,
come Zoro, si impuntava perchè tutto si risolvesse.
Nami ridacchiò da
sola pensando
al fatto che avesse ereditato pure lo stesso senso dell'orientamento!
Ancora si
stupiva di come avesse fatto Zoro a raggiungerla da solo in cima alla
scogliera
prima (anche se forse i lampi che svettavano dal suo bastone avevano
fatto da
stella cometa), ma era capitato più volte che fosse toccato
a lei andare a
recuperare uno o l'altro finiti chissà come in cima a
montagne o in villaggi
vicini, senza che riuscissero a fornire alcuna spiegazione logica, come
non era
raro trovarli entrambi addormentati sotto gli alberi del suo agrumeto
mentre ne
raccoglievano i frutti per lei.
Forse, rifletté
Nami, avrebbe
dovuto correre ai ripari finché era in tempo e cercare di
raddrizzare almeno il
figlio...
Zoro, che nel frattempo non si
era perso una sua espressione, quando la vide contrarre le labbra, come
a
volersi trattenere dal ridere, gliene chiese il motivo, curioso.
“Stavo pensando a quando torneremo sulla Sunny. Vorrei
chiedere a Brook di dargli lezioni di violino...”
mormorò Nami pensosa, una
mano a sorreggere il mento.
Zoro si strozzò con la saliva. “ANCHE
QUELLO??”
Lei rise un sacco alla sua espressione sconvolta. Zoro si
imbronciò. “C'è già tua
sorella che lo vizia con albi da disegno e poesie... ci
manca solo la musica...”
Nami spalancò gli occhi come avesse ricordato qualcosa
all'improvviso. “A proposito... come sta Johnny?”
Il ragazzo alzò le spalle, visibilmente scocciato.
“Piuttosto bene direi, non era nulla di grave! È
il solito esagitato e tua
sorella gli da pure corda! Quell'idiota mi ha chiamato per aiutare
Nojiko col
negozio perchè lui ha il raffreddore! Cioè, un
semplice raffreddore! Da come mi
aveva chiamato in preda all'agonia pensavo l'avesse morso un mostro
marino!
E io sono stato pure gentile! Gli ho detto che li aiutavo
volentieri ma che non mi sembrava stesse così male, e sai
che mi ha risposto?
Che dovevo farmi i fatti miei e che non era un raffreddore ma una
febbre
mortale! L'ha salvato solo il fatto che al mio ringhio si è
nascosto dietro sua
moglie e Nojiko è incinta, non volevo farla agitare, ma un
giorno di questi lo
affetto!!”
“Oh, il mio spadaccino tenerone...” Nami rise,
guadagnandosi un'occhiataccia per la presa ingiro. “...ti
manca tanto Sanji,
vero?”
Zoro la guardò inorridito. “Che c'entra il
cuocastro
ora??”
Lei lo guardò furba. “Ti manca da morire litigare
con
qualcuno che sia capace di tenerti testa!” mormorò
suadente sotto il suo
sguardo oltraggiato. “Comunque tranquillo, ormai non credo
che ci voglia più
molto tempo...” disse fiduciosa gli occhi puntati sul mare.
Zoro ghignò in un modo che non aveva mai perso con gli
anni. “Ammetto che iniziavo a sentire la mancanza di questa
adrenalina...
Abbattere i cacciatori di taglie che arrivano sull'isola non
dà più lo stesso
brivido, ho una gran voglia di menare le mani!”
Nami sbuffò. “Rufy si è impegnato
parecchio, poteva anche
avvertirci in una maniera più semplice!”
sospirò “L'ho sempre detto che siamo
una ciurma di sbruffoni!” Il compagno sghignazzò
sereno.
Lì, seduti sulla scogliera più alta dell'isola,
godendo
l'uno della calda presenza dell'altro ed ammirando il mare isolati dal
resto
del mondo, era facile pensare che la vita fosse davvero meravigliosa.
Nami sapeva che non fosse esclusivamente un mantra per la
meditazione quello che qualche minuto prima l'aveva portata a
considerare la
sua vita sotto un’altra luce.
Sei anni avevano creato qualcosa in ognuno di loro e
difficilmente avrebbe ritrovato le stesse persone con cui era partita
da Coco
undici anni prima. Tutti erano cambiati e probabilmente qualcuno
avrebbe avuto con
sé un bagaglio emotivo più forte degli altri. Se
la storia metteva fine ad
un’epoca non si doveva viverla male, ma come il naturale
scorrere delle cose e
lei, dopo tanti anni di sofferenze, poteva vantare di aver raggiunto la
vera
felicità.
Non le sembrava più nemmeno una fine, guardare lo
sconfinato mare azzurro fondersi con l'orizzonte chiaro, ma un nuovo ed
emozionante inizio. Sorrise felice, sentendo l'aria venire da sud farsi
più
tiepida.
“Zoro?”
“Mh?”
“Il vento sta cambiando…”
E come un flash se li rivide tutti davanti agli occhi a
bordo della Sunny. Diversi nell’aspetto forse, ma con lo
stesso spirito di un
tempo.
Un esagitato capitano, una donna enigmatica, un curioso
cyborg, uno scheletro canterino, una piccola renna, un cuoco casanova,
un
cecchino nasone, uno spadaccino scorbutico, una ragazzina
isterica…
La vita insieme era da sempre la loro avventura migliore.
E l’orizzonte non le era mai parso più bello.
Angolo Autore:
…e dopo innumerevoli
mesi, ansie e angosce (mie), disastrose scene tagliate,
blocco dello
scrittore, impegni, ansie e angosce di nuovo, certezze di non riuscire
a
finirla…. ecco che finalmente riesce a pubblicare
l’ultimo capitolo!! Mi sono
emozionata da sola! ^^
I bambini sono stati i miei preferiti… li ho immaginati
così tanto che spero non siano sembrati troppo finti, fatemi
sapere se potete!
So che negli ultimi tre paragrafi mi sono un po’ lasciata
andare, ma sono i primi quattro membri! Era quasi obbligatorio che
avessero più
spazio...
E scusate per la lunghezza spropositata… L
avevo deciso di tagliare il capitolo in due parti, ma poi ho pensato,
perché devo
rompere le scatole ancora di più a quelle buone anime che
leggono dandogli la
rottura di star là a cambiare pagina? E in più ho
ricevuto un fantastico appoggio
da una donna meravigliosa che continua a sostenermi sempre e comunque
anche
quando non penso di essere riuscita a fare
granchè… Zomi, sei un mito!! Il pezzo
di Usop, Nami e Zoro è tutto per te, perché
leggendo le tue ultime storie (tra
tutte Caffè al ginseng) mi hai dato l’ispirazione
finale per terminare quando
credevo che il blocco mi avesse del tutto resa arida! Non
smetterò mai di
ringraziarti!
Ringrazio infinitamente dal profondo del cuore le belle
persone che mi hanno accompagnato fino alla fine… grazie
davvero a tutti per le
bellissime parole nelle recensioni, aggiungendo la storia tra i
preferiti,
ricordati, seguiti… non sapete quanto mi abbia reso felice
in questi mesi sapere
che la mia storia stava piacendo davvero! ^^
È una cosa bellissima e sono un po’ triste sia
arrivata
la fine, ma tutto finisce prima o poi!
Ancora grazie grazie grazie a tutti!
A presto,
momoallaseconda
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