Erano
arrivate nella tarda mattinata di sabato 22 marzo 1879, una giornata
tiepida e caratterizzata da una brezza mite che preannunciava
l’arrivo della primavera alle porte: avevano preso alloggio
presso l’Albergo Italia, una costruzione molto elegante e
dagli arredi ricercati, che si affacciava sulla piazza del duomo.
Il
viaggio in carrozza fino alla stazione di Arona era stato piuttosto
breve e per nulla faticoso, mentre il tragitto in treno si era rivelato
rumoroso e fin troppo veloce, non permettendo di ammirare al di fuori
dei finestrini il paesaggio lacustre che si mescolava a case, alberi e
campi, in una danza vorticosa e quasi demoniaca, aggravata dal fumo
nero e denso del carbone che usciva dalla ciminiera del locomotore.
Quel
pomeriggio, dopo aver pranzato ed essersi riposate, Costanza aveva
portato Elena a fare un giro turistico della città: la donna
più grande aveva trovato una città completamente
cambiata e rinnovata in quasi trent’anni della sua assenza,
tanto da non riuscire a riconoscere i pochi posti che avevano fatto da
sfondo al periodo in cui aveva soggiornato a Novara.
Palazzo
Caccia Granieri era stato venduto molti decenni prima, quando don
Armando e donna Luisa si erano trasferiti a Santa Maria Maggiore, dove
tutt’ora, all’alba dei settant’anni,
vivevano: la dimora di famiglia era passata di mano ad una sconosciuta
coppia borghese, le cui trattative di vendita erano state concordate
dal primogenito Nicolò; palazzo Caccia continuava a
stagliarsi in prossimità del centro, sobrio e signorile come
se lo ricordava, ma le appariva estraneo e desolatamente chiuso:
nessuna presenza umana, infatti, calpestava da tempo gli eleganti
pavimenti di marmo e in parquet, né voce alcuna si sentiva
risuonare tra le stanze sapientemente affrescate.
“Tutti i bei momenti che ho
vissuto lì dentro fanno ormai parte del passato, e non
torneranno…”
Le
sembrava quasi di violare un luogo sacro, divenuto preda
dell’incuria e delle cascate di edera rampicante, che
sfacciatamente soffocavano i muri, per questo preferì non
sostare ulteriormente.
La
coppia di turiste proseguì dunque nel loro tragitto, e pochi
minuti dopo si soffermò davanti all’edificio che
una volta ospitava l’ufficio di don Armando,
anch’esso preso in affitto da estranei molti anni prima:
già ad una superficiale occhiata, corso Sempione si
presentava modernizzato, colmo ad ogni angolo di negozi di pasticceria
e di locali eleganti in cui le signore si trastullavano a sorseggiare
tè caldo o cioccolata, mentre la chiesa della Santissima
Trinità al Monserrato era stata abbellita da un geometrico
timpano che ne sovrastava la sommità, e che la faceva
apparire ancora più maestosa.
Costanza
portò la ragazza in pieno centro: entrarono meravigliate
nella Basilica di san Gaudenzio, ora completata dal cupolino che la
faceva assomigliare ad una delle moschee orientali, e rimasero sedute
ad ammirare la vertiginosa altezza delle pareti e del soffitto
magistralmente decorati*.
Uscirono
e si incamminarono verso il Circolo dei giovani aristocratici, dove suo
fratello Nicolò amava trascorrere intere giornate a
discutere di politica: sebbene all’esterno
l’edificio apparisse immutato, una sana curiosità
le imponeva di affacciarvisi, ma subito si rese conto
dell’assurdità di ciò che aveva
pensato, dal momento che era un ritrovo ad uso esclusivo degli uomini.
Quando
poco dopo si ritrovarono a costeggiare l’albergo svizzero, un
brivido scosse le spalle di Costanza: nonostante le pareti si fossero
ingrigite e tinte di un indecifrabile giallo rossastro, testimonianza
di varie scrostature che avevano danneggiato l’intonaco, la
donna manteneva ancora ben vivido il ricordo di quei giorni di marzo
inoltrato, quando era andata a supplicare Nicolò di lasciare
l’Armata Sarda e di far ritorno a casa; riusciva a rammentare
perfettamente il furore e l’alterigia che trapelavano dai
suoi occhi, il vociare indistinto e molesto degli ufficiali, i tavolini
apparecchiati per l’imminente pranzo, il breve colloquio con
il tenente Chiusano… esperienze e ricordi che avevano
solamente il potere di incupirla.
“Vi
sentite bene?” Elena appoggiò con tenerezza una
mano sul braccio della sua accompagnatrice, la quale si
sistemò meglio la mantellina marrone e annuì
nella maniera più convincente possibile.
Proseguirono
a braccetto, soffermandosi davanti a qualche vetrina, quindi
oltrepassarono il Teatro Nuovo, vicino al quale era stato costruito nel
1855 il Teatro Sociale, luogo di incontro per ballare: a pochi metri di
distanza, il negozio di sartoria della signora Leviani, quello in cui
l’ex signorina Granieri aveva comprato l’abito di
seta blu cobalto per il suo debutto in società il giorno in
cui era stato denunciato l’armistizio tra Piemontesi e
Imperiali, si era ingrandito e pullulava di dame che si affaccendavano
a scegliere stoffe e accessori da sfoggiare al prossimo ballo che si
sarebbe tenuto in qualche dimora altolocata.
Davanti
a loro, non troppo lontano, oltre piazza Castello si affacciavano le
Regie Carceri Mandamentali, e di nuovo, come era successo di fronte
all’albergo svizzero, Costanza ebbe un tuffo al cuore: quel
luogo era stato fonte della sua angoscia, quasi quanto
l’ospedale* in cui era stato ricoverato l’adorato
fratello, un’angoscia profonda e cupa, che nei primi di
maggio del 1849 l’aveva fatta sprofondare in un abisso di
tristezza.
Erano
infatti i giorni in cui il conte Pietro Caccia, il cugino che tanto si
era prodigato per lei e la sua famiglia, si trovava rinchiuso nei
sotterranei del castello Sforzesco, in balìa di una
imputazione per tradimento ai danni del sovrano e della patria, che
avrebbe potuto trasformarsi in una condanna assai dannosa per la sua
incolumità.
Dopo
il duello con Federico, l’altro cugino, il ferimento ad una
spalla e ad un ginocchio, Pietro era caduto preda di un torpore durato
quattro giorni, un torpore dettato dalla febbre alta, diretta
conseguenza delle lievi infezioni che erano derivate dalle ferite
subite.
Venerdì
4 maggio, il giorno prestabilito per l’interrogatorio, Pietro
era stato condotto dall’infermeria alla stanza adibita a sala
udienza, il corpo ancora debole: qui, il tenente della Guardia Civica
che lo aveva arrestato e che era stato incaricato di svolgere le
indagini, aveva appena cominciato a porgli le prime domande di routine,
quando un soldato semplice irruppe nel locale e consegnò una
busta sigillata all’ufficiale.
L’uomo
guardò l’imputato, al cui fianco si stagliava la
figura rassicurante e caparbia di Eugenio Maffucci, amico ed avvocato
del conte, quindi ruppe il sigillo di ceralacca e tirò fuori
un foglio di carta, che aveva tutta l’aria di essere una
lettera.
Passò
qualche secondo, forse un minuto, poi il tenente fece cenno al soldato
che gli aveva portato la misteriosa comunicazione di avvicinarsi:
bisbigliò qualche parola all’orecchio, poi
l’altro annuì ed uscì
sull’attenti.
Poco
dopo il ragazzetto tornò in compagnia di un capitano, un
sessantenne alto e massiccio, e dai folti baffi bianchi: i due
ufficiali confabularono ancora per un istante, fino a quando il
più anziano si allontanò ed uscì di
scena, lasciando la parola al tenente.
Nel
frattempo, nel cortile del castello, Costanza e il maestro Paolo
Rossini, l’insegnante di musica che era diventato un punto di
riferimento per la giovane, attendevano pieni di speranze e di ansia il
verdetto parziale dell’interrogatorio: erano ben consapevoli
che la difesa preparata da Eugenio non fosse abbastanza solida per
scarcerare da ogni accusa Pietro, tuttavia dovevano e potevano
aggrapparsi a quell’unica possibilità, ovvero
all’arringa del valido avvocato, dal momento che i biglietti
che la ragazza aveva trovato nella camera da letto di Federico erano
prove insufficienti –se di prove si poteva parlare- da
mostrare in un eventuale processo.
In
quel mentre, Maffucci uscì da una delle porte in legno
massiccio, e sorrise andando loro incontro:
“E’
salvo, è salvo!” riusciva solo a ripetere, mentre
abbracciava i due amici.
La
missiva che era giunta durante l’interrogatorio, infatti,
scagionava Pietro da qualsiasi accusa mossa nei suoi confronti, e lo
liberava seduta stante: in realtà, a nessuno fu permesso di
leggerne il contenuto, ma tanto bastava per tirare un sospiro di
sollievo e preparare il rientro a casa del cugino.
Un’ora
più tardi, il conte Caccia, ancora zoppicante e con una
lieve febbricola, fu scarcerato: Rossini propose di farlo soggiornare
per qualche giorno nel palazzo della nobildonna che lo stava ospitando
negli ultimi due mesi, dal momento che l’uomo doveva
riprendersi dai recenti avvenimenti e, soprattutto, don Aldo e la
contessa Rosa non sapevano ciò che era accaduto al
primogenito: lo credevano infatti lontano per questioni economiche
circa alcuni possedimenti da amministrare, come Federico aveva
abilmente propinato ai genitori.
Sebbene
nessuno volesse parlarne apertamente, la ragazza e i tre uomini
sospettavano che dietro quell’improvvisa liberazione ci fosse proprio
lo zampino di Federico, la stessa persona che aveva denunciato il
fratello.
Nonostante
fossero passati trent’anni, Costanza continuava a provare
verso di lui un’avversione profonda, che rasentava
l’odio, l’opposto della dolorosa consapevolezza che
aveva spinto il maggiore a cercarlo inutilmente: si erano infatti perse
le sue tracce la sera stessa della scarcerazione di Pietro, quando il
secondogenito aveva preparato i bagagli in tutta fretta e aveva scritto
una lettera ai genitori, in cui diceva loro di non preoccuparsi, che
doveva allontanarsi per qualche mese per via di certe questioni amorose
che gli erano sfuggite di mano, e che si sarebbe riparato in Svizzera;
poi da lì, se fosse stato necessario, sarebbe partito alla
volta della Francia, ma avrebbe fatto avere al più presto
sue notizie.
A
parte la disperazione iniziale dei generosi conti, il figlio scrisse
regolarmente ogni mese, senza mai specificare dove si trovasse: la
busta, infatti, recava solamente l’indirizzo del
destinatario, nessun riferimento al mittente e nessun timbro che
potesse far risalire alla città in cui era stata imbucata.
Mentre
meditava su tutto ciò, Costanza rifletté che
adesso il cugino avrebbe dovuto avere cinquantasette anni, tuttavia
dopo la morte del padre, cinque anni prima, nessuno aveva ricevuto
altre lettere da parte dell’uomo.
“Possiamo
andare?” Elena risvegliò dai ricordi la donna, che
fu subito pronta a proseguire verso l’ultima tappa, corso di
Porta Genova, dove sapeva da Nicolò che Eugenio Maffucci
abitava quando soggiornava in città.
Il
palazzo di inizio secolo appariva ancora elegante e ben tenuto,
tuttavia il terzo piano aveva le finestre sprangate: Costanza
bussò alla porta un paio di volte, ma non vi fu risposta,
quindi si allontanò sconsolata, ritornando con la sua
accompagnatrice alla vettura che le avrebbe riportate
all’albergo.
In
realtà, a distanza di un anno dagli avvenimenti narrati,
l’uomo si era trasferito a Firenze e poi a Torino, dove si
era affermato come magistrato; nel 1877, inoltre, a cinquantotto anni,
si era sposato con una donna molto più giovane di lui, che
assomigliava incredibilmente a Costanza: l’ex avvocato,
infatti, aveva avuto un debole per la ragazza fin dal loro primo
incontro, ma non le si era mai dichiarato apertamente, tanto che quando
nel 1852 la sorella di Nicolò si trasferì
definitivamente a Santa Maria Maggiore e prese ad abitare in
un’ala di palazzo Mellerio insieme all’adorata
nonna Maria, l’uomo lo prese come un gesto del destino, e
lasciò perdere ogni interesse fisico nei suoi confronti.
Quello
stesso anno, la signorina Granieri divenne la baronessa Andreoli, dal
momento che sposò il barone Elia Andreoli, un nobile di un
paio d’anni più grande di lei: nel 1854 nacque la
loro prima figlia, Margherita, nel 1856 fu la volta di Odoardo e nel
1861 di Elena, la terzogenita che aveva portato con sé in
quel viaggio della memoria.
Adesso
Costanza aveva quarantotto anni, era una donna raffinata e generosa,
presidentessa delle medesime istituzioni caritatevoli che aveva fondato
la marchesa Maria, deceduta dieci anni prima: si poteva definire largamente soddisfatta
dell’esistenza che aveva vissuto e che stava vivendo,
tuttavia avrebbe voluto che tutti i suoi affetti non si fossero
allontanati come invece era accaduto.
A
partire da Nicolò, ormai cinquantacinquenne, che era
diventato un discreto scrittore a Parigi, dove si era trasferito nel
1851: dopo mesi, infatti, aveva recuperato completamente la vista,
grazie anche all’intervento a cui era stato sottoposto in una
clinica privata svizzera, si era riavvicinato al suo amico ed ex
commilitone Stefano Gardina, e aveva continuato ad interessarsi di
politica, sebbene in maniera meno diretta e pericolosa.
Non
si era mai sposato, anzi, ancora viveva come un libertino parsimonioso
ed idealista, ma amava sinceramente la sua famiglia
–soprattutto la sorella- e non aveva perso di vista
Eugenio Maffucci, con il quale sovente si incontrava.
Lo
stesso aveva fatto Pietro, un sessantenne scapolo sempre in giro per il
mondo, con la passione per la natura, tanto da diventare esploratore:
si era trasferito anni prima in Inghilterra, dove aveva conosciuto un
certo Charles Darwin, con cui aveva svolto studi
sull’evoluzione ed era partito alla volta di numerose quanto
esotiche destinazioni.
Al
rientro in albergo, il sole ormai stava calando: affacciata alla
finestra della camera, mentre Elena si preparava per la cena, Costanza
proseguì a ritroso il viaggio che si era imposta di fare, e
subito ritornò a pensare a Pietro: erano quasi tre anni che
non lo vedeva, da quando era tornato dall’India.
Dal
momento che palazzo Caccia era stato venduto dopo la morte di don Aldo
e della contessa Rosa, avvenuta rispettivamente a novantatré
anni nel 1874 e a ottantotto anni nel 1878, il cugino era stato
invitato a Santa Maria Maggiore, a palazzo Andreoli, per una cena in
suo onore.
Vi
era stato un tempo in cui la baronessa era convinta di provare una
forte attrazione per l’uomo, quasi una passione amorosa, e
anche nei rari momenti in cui avevano la fortuna di continuare ad
incontrarsi, le appariva difficile sostenere lo sguardo limpido dei
suoi occhi azzurri.
Parlavano
di letteratura, di pittura e di fiori, sentendosi perfettamente a loro
agio, ed era naturalmente affascinata dalla padronanza e dalla
scioltezza con cui narrava le abitudini e i popoli di terre
lontanissime e sconosciute, tanto da permetterle di sfiorare con la
mente quei luoghi.
Ma
quelle erano state solamente delle convinzioni giovanili e passeggere,
aveva cercato di convincersi, che non erano sfociate in nulla di fatto.
E
per la prima volta da quando aveva deciso di partire, Costanza non
riusciva a confessare a se stessa il motivo sottinteso che
l’aveva spinta a ritornare a Novara: certo, il giorno dopo ci
sarebbe stata l’inaugurazione della Piramide monumentale, lo
aveva letto sul giornale del marito la settimana precedente, tuttavia
la verità era che ciò che era accaduto in quella
stessa città nei giorni di fine marzo 1849,
l’aveva talmente scossa da non riuscire a condividerne il
ricordo con nessuno, solo con la carne della sua carne, appunto con la
piccola Elena, anch’ella diciottenne come lo era lei durante
le settimane burrascose di trent’anni prima.
Era
un evento che sentiva di appartenerle intimamente, al punto tale di
aver ingannato il buon Elia, al quale aveva detto che sarebbe andata a
trovare un’amica di vecchia data: in ventisette anni di
matrimonio, non aveva mai mentito al consorte, e questa consapevolezza
la destabilizzava non poco.
Improvvisamente
si sentì stanca, affranta, disorientata, tanto da domandarsi
se avesse fatto la scelta giusta a ritornare nei luoghi che le stavano
provocando così tanta sofferenza.
“Madre,
io sono pronta… Andiamo?”
Elena
le toccò con delicatezza una spalla: Costanza si
voltò e ammirò la figlia in tutto il suo
splendore, dimenticandosi dei dubbi che l’avevano assalita
pochi istanti prima.
Notò
con soddisfazione che somigliava a lei alla sua età: gli
stessi capelli lunghi e ricci, il medesimo volto affilato e la stessa
bocca carnosa, solamente gli occhi non erano verdi ma tendenti al
grigio, come quelli del padre.
La
abbracciò, scostandole una ciocca rimasta fuori
dall’acconciatura, poi uscirono mano nella mano, orgogliosa
della ragazza e felice che non avesse dovuto patire ciò che
lei aveva subito.
Alle
dieci della mattina seguente, le due donne avevano già
raggiunto la sede della manifestazione nel quartiere della Bicocca,
un’area colma di campi coltivati, distese d’erba e
cascinali per il ricovero di cavalli e contadini, innaffiata dalle
sorgenti del torrente Arbogna.
Vi
era una nutrita folla che sostava in piedi, perlopiù formata
da ufficiali, soldati e commilitoni ora in congedo, che discutevano
animatamente tra di loro; uno sparuto gruppo di rappresentanza stava
intrattenendo gli ospiti illustri, ovvero il Prefetto, il sindaco, il
vescovo e parte degli esponenti del Consiglio provinciale, oltre ad una
delegazione proveniente da Roma, la capitale**.
I
giornali davano per certo l’arrivo del duca Genova, Tommaso
Alberto Vittorio di Savoia, nipote del defunto Vittorio Emanuele II**.
La
baronessa si guardò intorno, alla ricerca di qualche volto
amico, rendendosi conto di quanto fosse vuota quella speranza, dal
momento che in quella città non frequentava più
nessuno da molti, forse troppi anni.
Lei
e la terzogenita si fecero largo in mezzo ad un gruppetto di
nobildonne, probabilmente le mogli degli ex soldati, e si avvicinarono
ai cannoni con il vessillo del Regno d’Italia posto alla
sommità, pronti a sparare a salve al momento opportuno.
Le
armi erano protette da alcuni membri della Guardia Civica a cavallo,
fieri nelle loro alte uniformi, e sorvegliavano con impassibile ed
immutato sguardo le mosse di Elena, che ammirava la lucentezza di quei
pezzi di artiglieria.
Costanza
ne approfittò per avvicinarsi di qualche passo in direzione
della solenne costruzione a forma di piramide, l’Ossario
monumentale, che conservava i resti umani dei caduti piemontesi ed
asburgici della battaglia del 23 marzo 1849. Dalla sua postazione,
riusciva ad intravedere l’aquila in bronzo con due corone di
alloro tra gli artigli, che sovrastava la porta di ferro e vetro che
fungeva da ingresso: vi era anche una scritta collocata su una tavola
in marmo, ma la distanza non le permetteva di leggerne le
parole***.
In
mezzo a tutta quella folla che la sfiorava appena e
l’accarezzava con sguardi disinteressati, Costanza si
sentì all’improvviso sperduta ed estranea: avrebbe
tanto voluto che accanto a lei ci fosse almeno Nicolò, ma
aveva compreso il suo desiderio di non partecipare alla manifestazione,
per timore che ciò rappresentasse un rinnovato dolore a
rivivere quel fatidico giorno.
Nel
mentre, le sembrò di scorgere la figura nera e dinoccolata
del maestro Rossini, ora ottantenne e ricoverato in un ospizio per ex
musicisti, e sorrise tra sé e sé a
quell’idea assurda: era da quasi un mese che non andava a
trovarlo, e decise seduta stante che appena rientrata a Santa Maria
Maggiore sarebbe andata a fargli una visita ad Orta, dove appunto
soggiornava da una decina di anni.
Costanza
stava andando a recuperare la figlia, dal momento che le fanfare
stavano risvegliando l’attenzione dei presenti per indurli a
mettersi sull’attenti al momento dell’esecuzione
dell’inno, quando la baronessa si sentì toccare un
braccio, una vibrazione gentile, quasi timida.
La
donna si voltò e si rese conto di trovarsi di fronte ad un
volto che aveva già visto, ma che ormai da decenni non
incrociava: gli occhi erano sempre neri, profondi, interrogativi, forse un
po’ più acquosi di come se li ricordava; i capelli
erano più corti e meno neri, però quei baffetti
irriverenti –seppure ingrigiti dal tempo- restavano
inconfondibili nella sua memoria.
Costanza
sorrise al nuovo venuto, gli strinse una mano, e poi si abbracciarono,
mormorando l’uno il nome dell’altra: in mezzo alla
confusione che stava velocemente scemando, cercarono di parlare
sottovoce per non disturbare.
L’uomo
le chiese se fosse venuta da sola, ma la baronessa gli rispose che era
in compagnia della figlia Elena, a pochi passi da loro.
“Io
invece non ho accompagnatori: la mia dolce metà è
rimasta a Torino, così non so con chi trascorrere il resto
della mattinata… A proposito, cosa ne dite se più
tardi andiamo a pranzo insieme? Mi fermerò in
città per qualche giorno e mi farebbe piacere riprendere la
nostra vecchia amicizia, cara Costanza”
“Non
chiedo di meglio: abbiamo molte cose di cui discutere, e sono contenta
di poter passare del tempo con voi”
“Molto
bene! Allora portatemi a conoscere la vostra Elena: Nicolò
mi decanta la bontà e l’intelligenza dei nipoti
come se fossero suoi figli!”
Lei
gli sorrise ed annuì orgogliosa e felice: era da tanto tempo
che non incontrava un volto amico.
NOTE
STORICHE E DELL’AUTRICE
* Costanza si
ritrova a passeggiare per le vie di una città molto diversa
da come se la ricordava.
Nel 1854, ad esempio, venne
costruita la caserma Perrone, intitolata al generale deceduto
nella battaglia della Bicocca, e sempre nello stesso anno la stazione
ferroviaria, all’interno di un’arena immersa in un
giardino.
Tra il 1856 e il 1864 venne
ampliato l’ospedale: l’architetto
Antonelli mise mano alla costruzione di una nuova e imponente ala,
grazie alla generose elargizioni da parte dei cittadini più
abbienti.
Nel 1858 venne fondato il
Civico Istituto Brera, voluto per opera del maggiore Fedele Brera, per
dotare la città di una scuola musicale.
Tra il 1854 e il 1863 venne
costruito il porticato esterno del Duomo; tra il 1864-69 venne
ricostruito l’edificio portante del Duomo, dopo che era stato
volutamente distrutto, ad eccezione del presbiterio e del coro: nel
1876 venne completato il cupolino, tuttavia il cantiere
terminò solamente nel 1888, alla morte
dell’Antonelli.
Nel 1865 ci fu la delibera da
parte del Consiglio provinciale per la creazione del
manicomio cittadino, i
cui lavori cominciarono nel 1870 grazie all’intervento
economico delle opere pie e del municipio; venne inaugurato nel 1875 in
concomitanza con una grande mostra agraria.
Infine, nel 1871 nacque la
Banca Popolare di Novara,
che inglobò la Banca del Piccolo Credito Novarese, chiusa
nel 1869.
**
Nei
trent’anni che dividono la narrazione, le guerre per
l’indipendenza non cessarono.
Il 26 aprile 1859 scoppia la Seconda
Guerra d’Indipendenza:
l’Austria dichiara guerra al Regno di Sardegna, le cui truppe
vengono comandate da Napoleone III, grazie all’alleanza tra
Piemonte e Francia.
Le
principali vittorie franco-sabaude si riscontrano a Montebello, San
Fermo (grazie alla guida di Garibaldi), Palestro e Magenta, che apre la
via per la capitale del Lombardo Veneto, Milano.
L’8
giugno infatti i Piemontesi entrano a Milano, e qualche settimana
più tardi gli Imperiali vengono sconfitti a Solferino.
Dopo sette mesi di guerra, il
10 novembre viene firmata la pace di Zurigo: la Lombardia entra
ufficialmente a far parte del regno di Sardegna.
Il 5 maggio 1860 parte da
Quarto (Genova) la spedizione dei Mille capitanati dal generale
Garibaldi: sbarcheranno a Marsala l’11 maggio.
Il 17 marzo 1861 il Parlamento subalpino
proclama il Regno d’Italia: Vittorio Emanuele II diventa
primo re d’Italia.
Nel 1865 la capitale del Regno
passa da Torino a Firenze, mentre l’8 aprile 1866
ha inizio la
Terza guerra d’indipendenza.
Il
24 giugno 1866 l’esercito italiano viene sconfitto a Custoza
e il mese successivo al largo dell’isola di Lissa.
Grazie a Garibaldi, in valle
Bezzecca (Trentino), le sorti si invertono, e i Piemontesi vincono una
battaglia decisiva: dopo sei mesi di guerra, il 3 ottobre viene firmata
la pace di Vienna,
che permette all’Italia di ottenere il Veneto.
Nel
1871, dopo Firenze, diviene capitale Roma, liberata dal potere
temporale del papa il 20 settembre 1870 dai bersaglieri, con la famosa
Breccia di Porta Pia: il Papa rifiuta ogni contatto con lo Stato
italiano, dichiarandosi suo prigioniero.
Nel 1878 muore Vittorio Emanuele II, a
cui succede il figlio Umberto I.
***
Domenica
23 marzo 1879 viene
inaugurato l’Ossario dei Caduti: l’edificazione fu
voluta da un comitato di cittadini che lanciò una
sottoscrizione, dopo che si seppe che a Custoza, teatro della pesante
sconfitta da parte dell’esercito italiano nel 1866, era stato
costruito un monumento analogo. Tra i 38 progetti presentati,
venne scelto quello dell’ingegnere Broggi, che prevedeva una
piramide realizzata in pietra dura di Sarnico e alta diciotto metri.
Tuttavia
non mancarono le polemiche: in primis, per l’assenza di
simboli religiosi (nel 1901 venne apposta una croce in marmo bianco) e
in secondo luogo per la forma della struttura, considerata un simbolo
massonico.
Sotto
la porta d’ingresso vi è una tavola in marmo con
la seguente iscrizione: AI CADUTI- NELLA BATTAGLIA DI Novara- IL XXIII
MARZO MDCCCXLIX.
Nel
1910 fu collocato il trittico con le effigi in bronzo di Carlo Alberto
e dei generali Perrone e Passalacqua.
Il
sacrario ospita i resti militari di entrambi gli eserciti.
Buonasera
a tutti!
Siamo
arrivati alla conclusione di questo lunghissimo racconto, durato
più di un anno: è stato faticoso scriverlo, mi
riferisco soprattutto alle parti storiche, ma sono piuttosto
soddisfatta, anche se rileggendo i capitoli ho già
modificato alcuni punti!
Ci
tengo molto a ringraziare tutti i lettori, soprattutto i
recensori fissi: grazie infinitamente, davvero, siete stati
preziosissimi, puntuali e gentilissimi! Un grazie anche ai recensori
che mi hanno lasciato un loro parere solo una volta: mi ha fatto tanto
piacere lo stesso.
Ringrazio
anche le persone che hanno inserito la storia in una delle liste: siete
state tantissime, grazie di cuore anche a voi!
Insomma,
grazie a tutti coloro che mi hanno sostenuto: spero di ritrovarvi in
qualche altro mio e/o vostro racconto.
Un
abbraccio
|