Nickname su EFP e sul forum: _Vintage_
in entrambi
Titolo: L’oro, infausta vergine
Fandom: Lo Hobbit (Film)
Personaggi: Thorin
Scudodiquercia, Smaug
Pairing: Nessuno
Sindrome: Inserzione nel
pensiero
L’ORO,
INFAUSTA VERGINE
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“Siedi
qui in queste vaste sale, con una corona sulla tua testa e sei meno ora
di quanto tu non lo sia mai stato.”
“Vattene,
prima che io ti uccida.”
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Ripensava
alle sue parole, all’odio, al rancore che aveva serbato così aspramente
ai suoi camerati. Si chiese come fosse stato possibile che lui, proprio
lui avesse pronunciato un verdetto tanto ostico nei confronti
dell’amico fidato, leale presenza, devota solo all’unico vero Re sotto
la Montagna.
Sentiva
pesargli la corona, mentre la sua immagine si rifletteva violenta
contro il pavimento dorato, sbattendogli in faccia una figura che non
sentiva appartenergli. Si piegò a sfiorare il volto di quello
sconosciuto, con la mano tremante, così poco confacente alla salda
levatura morale del sovrano di Erebor.
Io non mi separerò da una sola moneta,
pensò, e nel cogitar meschino patì la sofferenza di quelle parole,
macchiate dal viscido sibilare del drago ormai morto.
"Tu
non sei più il nano che ho incontrato a casa Baggins!
Sei cambiato! Il Thorin che conoscevo io non si sarebbe
mai rimangiato la parola data!”
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Camminava
per il vasto salone il grande re, col pesante mantello di tenaci
filamenti setosi che strisciava silente lungo il pavimento,
ricordandogli lo spietato serpeggiare del maligno ospite. Il passo
divenne più pesante, il respiro affannoso.
Thorin
sentiva la presenza di Smaug ovunque: per terra, attorno alle salde
colonne, nelle sculture idolatrate. Non riusciva a vederlo, ma mai
l’aveva percepito così vicino, tanto che gli parve di vederlo riflesso
nella sua immagine, quando ritrovò il coraggio di guardar la sua
persona specchiata nell’oro.
Dov’era lui?
Dov’era il valente Scudodiquercia?
Non
s’interrogò a lungo: era certo che non vi fosse alcuna volontà nella
sua mente ormai, giacché ciò che pensava era una menzogna, un parlar
fasullo, l’eco del mostro ch’era sopravvissuto all’ultimo scoccare di
Bard l’Ammazzadraghi.
Bard no, non
l’aveva ucciso.
Perché la
bestia vagava or ora per la sua mente, plasmandola a suo piacimento,
nel rimbambimento di un re ch’aveva perso il senno.
Si prese la
testa fra le mani, confuso. Quei pensieri erano i suoi? O l’architettar
ingegnoso del drago ancora lavorava per distruggere la poca lucidità
rimastagli? Non trovò alcun responso lecito al suo quesito. S’appoggiò
ad una colonna, respirando a fatica; il mostro stava sottraendogli
persino il respiro, giacché non si può pensar senza ossigeno che irrori
la mente.
«Va’ via»
sibilò, con rabbia, mentre s’inginocchiava esausto.
Aveva mal di
testa. Era ovvio che poco fosse rimasto del suo ragionare, ma non si
diede per vinto fino a quando il drago non avesse abbandonato la sua
mente annebbiata. Gli aveva ghermito il cuore, stillandogli nelle vene
l’infida malattia di chi ha il mal dell’oro, la cui paura di perderlo
supera ogni lealtà, ogni nobiltà d’animo.
“Io vi prometto una
cosa: se riusciremo, tutti condivideranno le ricchezze della montagna.”
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Dov’era la
sua promessa? Dov’era il suo onore?
Questo tesssoro è tutto mio. Ancora
quella voce, ancora quella strana sensazione di non esser padrone del
proprio intelletto. Si lasciò sfuggire un gemito di rabbia, mentre
serrava la mascella e ricordava le promesse infrante e le false
speranze e la rovina imminente, poiché presto sarebbe sopraggiunta la
guerra e, con essa, la morte di chi aveva riposto in lui ogni fiducia.
Cadde sulle
ginocchia, ansante, madido di sudore. I suoi occhi sembravano fissare
il suo corpo dall’esterno, il corpo di un re consumato dalla cupidigia,
la confidente ingannatrice che gli aveva accigliato lo sguardo e
irretito i sensi.
«Io non sono
come mio nonno» sussurrò, stridendo con le unghie la pavimentazione
ambrata.
Voleva farlo
smettere di parlare, voleva che Smaug morisse, per davvero. Sfilò la
spada dalla cintola che teneva legata stretta alla vita e la puntò
contro il petto, con l’elsa avvinta da entrambe le pallide mani.
Morire.
Solo così
avrebbe vinto contro il drago, solo così avrebbe potuto credere
d’averlo sconfitto. E, forse, agli altri sarebbe rimasto un bel ricordo
del loro re, ch’era impazzito e s’era redento prima dello scoccar della
sua ora. Chiuse gli occhi, in attesa di trovare il giusto coraggio per
compiere l’ardua impresa.
Ssssi, bravo, ucciditi. Non prestò
più attenzione a quel vociare, mentre socchiudeva le palpebre alla
ricerca dell’ultima luce che avrebbe potuto vedere, prima del buio
della morte.
E pensò a
chi avrebbe potuto mai mostrare un po’ di compassione per quell’avido
re, chi sarebbe giunto alla sua tomba ricordando la sua nobile impresa,
chi avrebbe mai associato la grandezza d’Erebor alla sua immagine.
I
figli di Durin non sono inclini alle passioni, se queste non sono il
frutto di gentili imprese.
Ma
quell’oro, quell’oro era troppo bello, sensuale come una giovane
vergine dai vestiti adamantini, dal sorriso perlaceo, le cui labbra dal
color di rubini si piegano in dolce sorriso, mentre gli occhi ambrati
incatenano la mente al loro volere.
Thorin
immaginò di baciarla, quella puerile e fresca immagine. Sognò di
stringerla a sé, di spogliarla, d’assaggiarla. La voleva per sé, non
avrebbe mai permesso a nessuno di sfiorarla, né d’indugiar con lo
sguardo sulla sua fulgida figura. Ché lei era sua. L’oro era suo.
Strinse
l’elsa della spada con più decisione. Sarebbe morto, con la
disperazione di non aver potuto trascinare con sé le sue ricchezze.
«Mio dolce
incubo» mormorò, reprimendo un urlo. «Mio prezioso e bello e unico
desiderio. Devo io forse lasciarti andare?»
Fallo, ucciditi. Non riusciva a
comprendere chi gl’intimasse di farlo: era Smaug? Era l’oro?
Non aveva
alcun potere su di essi. Avevano una volontà propria, massiccia e
vigorosa, mentre la sua l’aveva di nuovo abbandonato al mero destino,
perché neppure la sua coscienza voleva aiutare un disgraziato come lui.
E, mentre
afferrava deciso la spada, pronto a punirsi per la sofferenza a cui
stava piegando i suoi compagni, un piccolo, delicato ricordo emerse
dall’oscurità della mente: una frase, giunta per caso, che non poteva
appartenere a Smaug, suo spietato carnefice.
“Non
sei costretto a farlo, puoi scegliere. Ti sei comportato con onore con
la nostra gente. Ci hai costruito una nuova vita sulle Montagne
Azzurre, una vita di pace e prosperità. Una vita che vale più di tutto
l’oro di Erebor.”
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Non
ricordava neanche più chi avesse pronunciato quelle parole, ma sapeva
di averle già udite in passato.
Esse erano
dolci, piene di gratitudine, speranza, aspettativa. Esprimevano la
serenità perduta; a poco a poco i ricordi tornarono ad affiorare, come
piccoli semi quiescenti sopravvissuti alla stretta del gelo.
E rivide le
Montagne Azzurre e il Verde Cammino e la Contea. Posò lo sguardo sui
visi pasciuti ed entusiasti dei suoi compagni di viaggio e il volto
sereno dell’amico Bilbo. Rivide Azog, percepì l’odio che lo riempiva e
la vittoria ch’egli avrebbe avuto se avesse deciso di uccidersi. No, pensò, non posso permetterlo.
Tra le
pareti della grande sala riecheggiò il tonfo della pesante spada
ferruginosa, la qual cadde come un avversario trafitto al petto. Come
sarebbe dovuto cadere Thorin, per mano di essa.
Strabuzzò
gli occhi, mentre sentiva l’aria tornare a riempirgli i polmoni e la
mente riappropriarsi dei propri pensieri. Ammesso che essi fossero mai
appartenuti realmente a qualcun altro.
Non sentì
più alcun sibilo intorno a sé, né percepì il richiamo dell’oro.
Era
libero.
Scagliò via
la corona che portava sul capo, facendola cadere rovinosamente a terra
con un sonoro tintinnio, nello stesso posto in cui si trovava lui
qualche istante prima. Poi si voltò, per non tornare più indietro.
“Noi
siamo figli di Durin.
E
quelli di Durin, non fuggono da una battaglia.”
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