v.
Accade quattro mesi
dopo il loro primo incontro. Ormai è pieno Aprile, le foglie
cristallizzate di rugiada sugli alberi riprendono colore e cominciano a
sbocciare i primi tremuli fiori primaverili. È una stagione
che Erik ha sempre apprezzato, per la sua dolce calma. In passato, gli
ricordava Christine. Se invece dovesse paragonare Meg a una stagione,
sarebbe l'estate: calda, quasi torrida, un uragano di cambiamenti
atmosferici. E lui? Lui sarebbe l'inverno: gelido e insidioso e duro
come le montagne dalle vette innevate. Freddo come la pioggia e la
roccia infrangibile.
«É
il mio debutto da solista. Ci sarai?» La voce di Meg ha un
fondo d'incertezza, arduo da percepire se non per i sensi affinati di
Erik. Questi annuisce: Meg debutterà come Regina delle Villi
in Giselle. È solo una
sostituta, ma alla sua età è un grande progresso.
«Sarò
nel mio solito palco» le assicura.
«Ma certo,
il palco numero 5. Mia madre te lo faceva riservare appositamente dalla
direzione.» Meg si ferma, come per ponderare qualcosa che le
ha attraversato la mente solo in quell'istante. «Eri tu!» Lo indica con un
dito accusatore e la bocca a forma di oblò per la sorpresa.
Probabilmente si chiede come abbia potuto non intuirlo prima.
Erik sorride,
serafico. «Io cosa?»
«Tu,
dannato!»
«Chi?»
Meg dà in
un grugnito di insoddisfazione. «Il fantasma dell'Opera! Ma
certo. Il palco del fantasma… Tutte noi allieve ballerine ci
chiedevamo a chi appartenesse, visto che rimaneva sempre
vuoto… E qualcuno che giurava di essere stato testimone di
eventi paranormali diffuse in giro la voce che si trattasse di uno
spettro. Io ovviamente non ci credevo, e prendevo in giro le mie
compagne e le allieve più piccole con raccapriccianti storie
sul famigerato fantasma…»
«Come la
peste che sei.» Le arrufferebbe i capelli in un gesto di
affetto, ma si limita a scuotere il capo, divertito.
«Quindi eri
proprio tu.»
«Sì.»
Erik non può fare a meno di sogghignare con aria saputa.
«Stronzo!»
dice lei, e gli colpisce piano un braccio con il libretto degli
spartiti. Lui sobbalza, ma è divertito.
«E questa
cortesia a cosa è dovuta?»
«Scommetto
che adoravi terrorizzare noi ragazzine
alle nostre spalle.»
«Ebbene
sì, mi hai scoperto. Ma tu non ti saresti comportata
diversamente.»
Meg borbotta qualcosa
di simile a una maledizione. Erik ride, con la sua risata che
— lo sa — è incantevole all'udito. Non
fa altro che irritarla di più, lungi dall'essere uno
strumento di seduzione con lei.
«Ti notavo,
sai.»
Meg è ora
immobile, trasognata. «Come?»
«Eri la
più mingherlina e bassa della compagnia. Ma anche quella che
ballava con maggior tenacia.»
«Sapevi che
ero la figlia di Antoinette Giry?»
«Ti ho
individuata subito. Le somigliavi, ma portavi nella carnagione
l'impronta indelebile di tuo padre…» Erik si
ferma, ma l'accenno al genitore defunto non sembra toccare Meg, che lo
guarda ancora con aspettativa.
«Verrai,
sabato? Ti farò conoscere mia figlia. Spero solo che la
maschera non la inquieti.»
«Non ho
bisogno della maschera per uscire.»
Meg sbatte le
palpebre. «No?» chiede, curiosa.
«Vedrai»
risponde lui con un sorriso segreto. Poi ritornano alla loro lezione.
La sera del debutto di
Meg come solista, Erik si sistema sulla faccia la protesi nasale, gli
enormi occhiali da sole che gli nascondono gli occhi infossati e
dorati, la sciarpa intorno alla bocca e il cappello ben calato sulla
fronte. Per il resto, è vestito come sempre: giacca e
cravatta, scarpe firmate e camicia di seta. Sì, è
quasi presentabile, se non assomigliasse a un malfattore per quanto
è coperto. Ma i malfattori non vanno in giro con guanti di
camoscio nero, e così esce di casa per la prima volta dopo
tanto tempo e prenota un taxi, diretto all'Opera Garnier.
Al termine dello
spettacolo, stuoli di fan adoranti si raggruppano attorno alla Sorelli,
la prima ballerina, ma anche Meg ha i suoi elogi. Con un sorriso
raggiante e il trucco che ancora le illumina il volto, accetta i fiori
con profusi ringraziamenti, arricciando stranamente il naso. Poi lo
scorge, un'ombra alta e magra appostata vicino a un lampione. Stringe
gli occhi, come per assicurarsi che sia proprio lui; poi fa un cenno
alle sue eccitate compagne e si allontana da loro, le suole delle
comode sneakers che scricchiolano mentre lo raggiunge con la maggior
flemma di cui è capace (che non è molta).
«Questo
è quanto di più vicino alla mia faccia potrai mai
vedere nella tua vita.»
La sua voce melodiosa
la fa sospirare. Sì, è proprio il suo
insopportabile maestro.
«Interessante.
È finto, quel naso, mi chiedo?»
«Sì.
Ma non dirlo in giro.»
Lei si apre in un
sorrisetto, ed Erik la sorprende con un mezzo inchino; Meg sbatte le
palpebre come un animaletto catturato sotto la luce del
lampione.
«Sei stata regale, sul palco.»
Meg dissimula il
rossore che le invade le guance incavate con una risata leggermente
frettolosa e roca. «Oh, grazie mille.» Poi
aggiunge, in un sussurro complice: «Non dirmi che mi hai
portato dei fiori.»
«No,
sfortunatamente. Avrei dovuto, lo so, ma…»
«Oh, grazie
a Dio.» Meg sospira di sollievo. «Ne ho talmente
tanti ora da riempire per intero il mio camerino.»
Erik sorride.
«Sei una strana ragazza, Meg Giry.»
«Da che
pulpito. Probabilmente le mie amiche si chiederanno chi sia l'alto e
tenebroso sconosciuto con cui sto intrattenendo una
conversazione tanto interessante.»
Si avvicina, e lui
deve inghiottire il bisogno istintivo di fare un passo indietro
— o di accostarsi a lei ulteriormente. Entrambe le ipotesi
suscitano in lui domande spaventose.
«Rapiscimi.»
Erik sbatte le
palpebre. «Come?»
Meg ridacchia e scuote
il capo. «Non voglio affrontare la festa con le mie amiche e
le altre che non lo sono ma che fingeranno di esserlo solo per questa
sera. Non mi piacciono i convenevoli.»
«Sarai
gradevole come sempre.»
«Questo non
mi rassicura affatto.» Poi aggiunge, sempre in quel tono
complice: «Portami via di qui. Ti concedo il mio sacrosanto
permesso. Mia figlia è con mia madre, loro torneranno a casa
perché è troppo tardi — ma noi due
potremmo…» Qui si ferma, ponderando.
«Non so. Andarci a fare una bevuta insieme. Guardare nuove
puntate de Il trono
di spade
a casa tua. Non sarebbe male.»
Erik si raggela.
«Io—»
«Come
amici» dichiara subito Meg con serietà.
È ancora rossa in volto, però. «Ti
prego, portami via da questo mortorio.»
Lui arretra, questa
volta sul serio. Come
amici. Come… «Non posso, Meg. Mi
dispiace. E non posso neanche conoscere tua figlia. Non — non
dovrei…»
«Ah.»
Meg non fa trasparire la delusione, ma è comunque chiara ai
sensi di Erik. Voleva trascorrere quella sera con lui. Come amici. Non sa che lui non ha mai
avuto amici in vita sua, e l'unico che possa rientrare in questa
definizione — il Daroga — in
realtà lo tiene più d'occhio che altro, pentito
(di questo Erik è certo) di avergli salvato la vita tanti
anni prima. Di aver risparmiato il mostro.
«Perché?»
Meg si stringe nel giubbotto di pelle, l'ombretto sulle palpebre che
luccica alla luce del lampione. «Non capisco.»
«Perché…»
Il cuore gli si stringe in petto, quel cuore saturo
d'oscurità che si cela dentro. «Non dovrei essere
tuo amico. Il tuo insegnante, d'accordo. Quello è possibile.
Ma niente di più.»
«Perché?» sibila ancora Meg,
e questa volta la rabbia gocciola via dalla sua voce come pioggia calda
d'estate.
«Non vuoi un
amico come me, credimi. Non lo vuoi. Non sono… la persona
che credi.»
«Perché,
cosa credi che io pensi di te? Sei un insopportabile
so–tutto. Sei arrogante e freddo, ma…»
Meg china lo sguardo sui suoi stivali anfibi, ed Erik vorrebbe
abbracciarla, stringerla a sé come l'uomo che non
è e non sarà mai, non per lei, non per nessun
altro.
«Sei anche
il miglior insegnante che si possa desiderare. Lo dico sul serio, e mi
costa, ma non importa. Fanculo l'orgoglio.»
«Non
posso.»
Lui si volta,
desolato, pronto a rientrare nel caldo abitacolo del taxi. Lei lo
afferra per un gomito ossuto. «Aspetta.»
Erik si irrigidisce al
tocco. Non vi è abituato; solo al Daroga a volte
è permesso toccarlo, o meglio sfiorarlo. E non sfiora una
donna da eoni.
«Mi
spiegherai la vera ragione, dopo la prossima lezione?»
«Sì»
le promette, e glielo deve. Nella sua voce risuona una nota di
angoscia, limpida e cupa come quella notte. Sa che, insieme alla
verità, giungerà la fine di questa strana
amicizia. È un pensiero che odia, ma è meglio per
lei. Lo è, davvero. Farebbe di tutto perché
quella ragazza abbia il meglio. E lui non fa parte di quel meglio,
assolutamente.
«Ci si vede,
allora.»
Erik non sa se sente
queste parole per l'ultima volta oppure no.
La tazza di
tè gli riscalda le dita, come al solito gelate. Meg ne ha
preparato un po' perché, appena entrata in casa e posato gli
occhi su di lui, ha notato il suo bizzarro tic. Lo ha costretto a
sedersi in cucina e a indicarle la pentola per il tè e le
foglie verdi, e ha lasciato bollire il tutto divorando biscotti
glassati con l'usuale fame rabbiosa. Se mangia in quel modo, si chiede
perché sia così magra.
«Meglio,
vero? Ora puoi parlare.» Meg gli si siede accanto, lanciando
un ultimo sguardo nostalgico ai biscotti, e prende a sorseggiare il suo
tè. Erik non solleva i bordi della maschera per sorbire la
calda bevanda. Stringe solo la tazza tra le mani, così forte
che teme andrà in pezzi.
Inizia il racconto
della sua vita con un filo di voce. «Io non sono…
una brava persona, Meg. Non nel senso che s'intende normalmente. Nella
mia vita ho compiuto azioni che…» Scuote il capo,
addolorato. Lei non scosta lo sguardo dal suo, oro contro carbone.
È lì per avere una risposta, e ne ha tutto il
diritto. «Tu non hai la minima idea di quello che ho fatto.
Di cosa mi hanno… spinto a fare. Ma il biasimo è
mio, solo mio. Avrei potuto scegliere un'altra vita e non l'ho fatto
— perché ero così pieno di rabbia… L'odio e la
rabbia mi nutrivano. La mia natura è oscura e contorta, ecco
tutto.»
«E ti
sentivi così perché…?»
domanda Meg, serissima. Non l'ha mai vista tanto seria. È
chiaro che lo sta prendendo in parola, ed è preoccupata.
Lui non risponde.
«Cosa sei di
tanto terribile? Uno stupratore seriale?»
Erik sbatte le
palpebre. La sua bocca — la sua specie di bocca —
si contorce in una smorfia di disgusto e orrore.
«Cosa…? No, per Dio, no!»
«Sei un
serial killer?»
Lui rabbrividisce. Lei
scatta in piedi, terrorizzata da quel silenzio quasi quanto lui.
«Sei davvero un serial killer?»
«No
— no, santo cielo. Ma ci sei quasi
arrivata.»
Lei comprende dopo una
pausa gravosa. «Sei un killer. Un sicario.»
«Una
sorta.» Erik si contorce le dita, abbandonando la tazza di
tè sul tavolo. «Ero un mercenario all'ordine di
alcuni servizi segreti mondiali… Ho lavorato per l'URSS, per
l'Iran. Per gli Stati Uniti, naturalmente. Sono sceso in guerra molte
volte. Ho anche ucciso. Per sopravvivere, principalmente, e poi per il
mio lavoro. E non ti nascondo che non mi piaceva, non mi piaceva
affatto. Ero il relitto e il vampiro di me stesso. Mi consumavo da solo
nell'oppio, sperando di dimenticare a cosa la natura mi aveva
destinato…» Fa un cenno al suo viso mascherato.
«Ad essere
un mostro» conclude lei per lui, ed è incredibile
come legga i suoi pensieri in modo rapido e profondo — che le
loro menti siano collegate? Non ha mai conosciuto una tale connessione
intellettuale con nessuno. Pensa alle affinità elettive di
Goethe, e si morde un labbro a sangue.
«Cosa mai ti
hanno fatto perché tu abbia scelto di percorrere un sentiero
simile?» dice lei, ed Erik si irrigidisce, preda dei ricordi.
«Mi hanno
tolto la libertà» risponde semplicemente. Si
gratta i polsi dove ancora sopravvivono le cicatrici di quando,
quarant'anni prima…
E le parla.
«Nacqui in un villaggio di campagna e poche anime vicino
Rouen. Non conobbi mai mio padre, morì prima della mia
nascita. Mia madre mi costringeva ad indossare la maschera; senza, non
riusciva nemmeno a guardarmi in volto. Non uscivo mai di casa, ma
lì imparai a suonare il pianoforte e il violino, a cantare,
le prime basi dell'architettura… Non piacevo alla gente del
villaggio. Di notte fuggivo di casa per sgattaiolare nella chiesa del
paese e suonare l'organo — un vero
organo
— ma quando la plebaglia cominciò a spettegolare
al riguardo, a mia madre dissi che il colpevole era un fantasma, non
io. Quante volte mi picchiò per le mie fughe notturne? A me
non importava. Quando il sacerdote — Padre Mansart, l'unico
che fosse rimasto vicino a mia madre dopo che ebbe partorito me — mi
consolò per la morte prossima di Sasha, la mia unica amica
(il cane), mi rivelò anche che non l'avrei più
rivista, perché gli animali non hanno un'anima. Fu un colpo
tanto duro per me che esplosi in una crisi di rabbia isterica di cui
fino ad oggi non ho mai compreso la natura. Ruppi tutti i soprammobili
del salotto, agitai l'attizzatoio contro mia madre e il
sacerdote… Mi mandarono in manicomio. Alla fine guarii. Non
avevo più attacchi di follia, momenti nei quali perdevo il
controllo di me stesso. Ma in cambio divenni un morto vivente. Fu
estremamente doloroso. Sai, allora non esistevano le cure di
adesso… E io ero solo un bambino. Frattanto, continuavo i
miei studi — musica, arte, letteratura, scienza, architettura
— tutto quel che volevo era a portata di mano. Pensavano che
un orrore come me sarebbe rimasto chiuso lì dentro per
sempre, in isolamento. Si sbagliavano.»
«Sei
cresciuto in un manicomio?» Nella voce di Meg vige l'orrore.
Erik annuisce.
«Ma presto scappai. A nessuno importava del mio avvenire,
avevano tutti orrore di me. I medici volevano scoprire cosa c'era
dietro la mia deformità; dicevano che ero un genio, e che in
qualche modo quel genio sarebbe uscito allo scoperto, prima o
poi… Non avevano torto. Quando mi resi conto delle mie
potenzialità, fu una liberazione. Una nuova nascita. Scappai
e viaggiai con una compagnia di circensi che mi accettò tra
le loro schiere, a patto che suonassi e cantassi per i loro spettacoli.
Facevo quello e molto altro: ero un quattordicenne prodigio, un grande
illusionista, e cominciai ad essere noto come “la Morte
Vivente”… per il mio aspetto, capisci. Vivevo
così, nei circhi, come artista di strada. Ero conosciuto
nell'ambiente. Poi vennero i russi.»
Qui Erik si apre in un
sorriso triste che è come una ferita sanguinante sulla sua
pelle livida. «Avevano sentito delle mie singolari
abilità. In particolare, col laccio del Punjab.»
«Il
cosa?» Meg a quel punto è quasi senza voce.
«Il laccio
del Punjab. È un elastico simile a una garrota, ma
più lungo. Un'arma che imparai ad usare magnificamente
durante un viaggio in India. Mi promisero che, al loro servizio, sarei
stato potente. Fu questo a farmi accettare la proposta: da troppo tempo
mi sentivo debole, senza controllo sulla mia vita. La natura o Dio o
chi per Lui mi aveva plasmato senza che io potessi far nulla per
contrastare il mio destino. O così credevo.» Fa di
nuovo un cenno verso la maschera. Meg è paralizzata, ma
continua ad ascoltare.
«Mi
addestrarono. Divenni un soldato modello. Le mie naturali
abilità fisiche progredirono. Ero rapido, forte,
implacabile. Cominciai a lavorare per i servizi segreti russi, a
diciott'anni. E per altri regimi e governi. Per qualche tempo divenni
una macchina da guerra, sebbene con un codice severo e tutto mio.
Nell'ambiente mi guadagnai un nome; o meglio, me lo affibbiarono,
poiché io avevo ormai da tempo cambiato nome. Dicevano che
ero un fantasma, imprendibile. Fu il Daroga a fermarmi: durante una
missione segreta per l'Iran — lui era a capo della polizia,
lì — fui gravemente compromesso. Mi avevano
avvelenato; me lo dovevo aspettare. Sapevo troppe cose, ero a parte di
troppi segreti. Nadir Khan mi salvò la vita, mi
risparmiò, a patto che non commettessi più
delitti. Accettai. Non desideravo più quella vita. Avevo
dimenticato chi ero, e ora stavo riacquistando la mia
identità. Non volevo essere… un mostro. Non
volevo morire come tale. Così tornai in Francia insieme al
Daroga, che mi convinse a pubblicare alcune delle mie composizioni, a
registrare la mia voce e le mie sonate in studio. Lui aveva dei
contatti… Ovviamente, nessuno poteva vedermi in viso.
Acquistai la fama di genio recluso e poi, sei anni dopo il mio ritorno
alla vita, qui a Parigi, dove mi ero costruito una casa tutta
mia…»
Gli si incrina la
voce. Si prende la testa fra le mani. «Tua madre mi riservava
un posto tra i palchi dell'Opera Garnier, cosicché ogni
tanto vi facevo visita per assistere ad alcune delle mie opere
preferite. Fu su quel palco che udii cantare Christine Daaé
per la prima volta.» Erik prende lentamente fiato. Inspira,
espira. Adesso viene il peggio. «Chi era
quell'angelo? M'innamorai di lei all'istante. La sua voce era serafica,
ma cantava
senza passione!
Cantava come una di quelle graziose bambole con una chiave conficcata
nella schiena: a comando. Con umiltà, la incontrai e le
proposi di darle lezioni di canto. Lei, conoscendo la mia fama, ne fu
onorata. Si stabilì un rapporto di grande
intimità tra noi due: lei mi raccontò che dalla
morte di suo padre non riusciva più a godere della musica
come una volta. Che Monsieur Daaé le aveva detto che, dopo
la sua scomparsa, l'Angelo della Musica le avrebbe fatto visita. Che
amabile sciocchezza. “Siete voi il mio angelo,
Erik” mi diceva lei, e mi riempiva il cuore. Furono i mesi
più belli della mia vita, almeno fino ad allora.
Poi venni a saperlo.
Christine aveva
compreso i miei sentimenti per lei e non desiderava ferirmi, ma non
poteva proteggermi per sempre. Era fidanzata da anni con un certo
visconte de Chagny, Raoul, di cui era innamorata fin dall'infanzia, e
presto sarebbero convolati a nozze. Ero maledetto: amavo la donna di un
altro! Allora le feci atroci scenate di gelosia. Le dicevo che avrei
smesso di darle lezioni se si fosse sposata, e lei mi pregava, con le
lacrime agli occhi, di restare al suo fianco. Era chiaro che non potevo
essere un uomo normale per lei, né ero suo padre: ma potevo
essere il suo angelo. Evidentemente mi associava al ricordo del
genitore defunto, ed ero un amico prezioso: nient'altro. Il peggio
arrivò quando decise di togliermi la maschera. In
realtà, come compresi in seguito, non fu da parte sua una
decisione deliberata, poiché era ipnotizzata dalla mia voce:
cantavamo un duetto dell'Otello di Rossini, ed era
così presa dalla musica che il suo desiderio di conoscere
il volto dell'angelo
la sopraffece. E così mi sfilò la maschera
e…»
Erik seppellisce il
viso tra le mani.
«Le urlai
contro maledizioni e deliri. Andai su tutte le furie. Ora che aveva
visto la mia faccia, non avrebbe più voluto restare con me!
Ed io sapevo che una parte di lei, fino a quel momento, lo aveva
voluto. Lei era ai miei piedi, piangente… e anch'io
singhiozzavo, mentre in me sentivo rinascere quell'odio che non
percepivo più scorrermi come fiele nelle vene da tanto
tempo. Questa volta era indirizzato verso l'innocente e ignaro
visconte. Minacciai Christine che lo avrei ucciso — e lo avrei
ucciso davvero,
se me lo fossi ritrovato davanti in quel momento! Lo avrei ucciso, se
lei non fosse rimasta con me. Cosa sceglieva? La sua vita o quella del
fidanzato? Lei era furiosa, piena di una passione e una rabbia e una
tristezza che non avevo mai visto in lei. “Mi hai tradita, mi
hai ingannata!” Poi, piangendo: “Io mi fidavo di te!.” Le dissi
che doveva compiere una scelta, e al più presto.
Dopodiché la sentii mormorare queste parole:
“Povera creatura… Cosa mai ti hanno fatto per
arrivare a tanto? Dio, ti prego, dammi coraggio…
Perché non sei solo, Erik. Non sei
solo.”
E mi abbracciò, e mi baciò sulla fronte
— su questa mia fronte di morto! E piangemmo insieme.
Capisci? Pianse con me, su di me, le sue lacrime sulla mia bistrattata
faccia… e l'odio aveva cessato di pulsare. Allora la lasciai
andare. Le dissi di ricordarsi del “povero Erik”,
come mi aveva chiamato pochi istanti prima nella mia angoscia, e di
essere felice col suo innamorato. Di non piangere più, e di
vivere la sua vita. E così lei fece. Se ne andò.
Venni a sapere che si sposò poche settimane dopo —
un matrimonio modesto per una viscontessa — e che
tornò con De Chagny nella sua patria d'origine. Poi
più nulla; mi disinteressai a lei. Era meglio
così. Ma non ho mai cessato di amarla.»
Erik inspira
profondamente. Meg è raggelata al suo fianco, e non
proferisce parola. «Capii di amarla davvero solo quando la
lasciai andare: fu l'unico atto d'amore, di compassione, della mia
esistenza. Lei avrebbe dato la sua vita per quella di Raoul. Quello
— mettere la felicità di un altro al posto della
propria, l'altruismo cieco di Christine — quello era amore. Ed era amore anche
la sua compassione per me, perché sapeva che soffrivo, e che
era la mia sofferenza a guidarmi verso il delirio. Il mio amore per lei
era stato egoista, le aveva negato la sua libertà. Come
avevo potuto essere tanto folle, tanto ottuso? L'avevo persa per
sempre, e non avevo ricevuto che lacrime da lei…»
Il racconto
è finito, e Meg sembra percepirlo. Ha orrore di lui, si
chiede? Una mente logica ne avrebbe. Meg arretra, quasi inciampa sui
propri piedi calzanti i soliti anfibi. Erik fa per afferrarla in tempo,
ma lei si scosta dal suo tocco.
«Non…
non toccarmi.» Non le fa orrore, no: prova disgusto. La guarda andarsene senza
dire una parola, senza pregarla di restare come il suo cuore gli
implora di fare. È giusto così.
Crolla di peso sulla
sedia, facendola oscillare. Forse è ora di bere qualcosa di
più forte del tè. È l'unica
consolazione che gli sia rimasta.
Note
dell'Autrice:
Ops, ecco il draMMMa. Beh, dato il protagonista maschile, non poteva
non esserci. Che ne pensate del passato di Erik? Ho preso qualche
spunto per la sua infanzia dal Phantom di Susan Kay, come
avrà notato chi lo ha letto. Per il resto, è mia
fantasia – una versione moderna delle “ore rosa di
Mazenderan” descritte da Leroux. In realtà, ora
che ci faccio caso, somiglia vagamente alla storia del Soldato
d'Inverno. Mmm.
Per quanto riguarda la
reazione di Meg, mi pare totalmente giustificata. Se qualcuno mi
confessasse (pur con tutte le buone intenzioni del mondo) di essere
stato un sicario e uno stalker, io scapperei a gambe levate. E, credo,
anche chiunque altro. Ma scoprirete di più nel prossimo
aggiornamento. Ci tengo però a dire che Erik è
mutato totalmente dopo il gesto d'amore di Christine (un po' come Paolo
sulla via di Damasco), ed è sul sentiero della redenzione,
come mostra spiegando la verità a Meg; non si sente
meritevole dell'amicizia di quest'ultima in quanto ben consapevole
delle sue cattive azioni passate.
Solo… per
chi sta leggendo la fic, se c'è effettivamente qualcuno
là fuori (mi sentite? Toc toc?), vi prego, recensite. Non
perché sia ingorda, ma solo per sapere se ci sono delle
critiche da smuovere, qualcosa che non va, anche eventuali errori di
grammatica. Altrimenti mi sento più scoraggiata a postare,
è naturale. Capisco che alcuni vogliano aspettare la fine
per dare un giudizio, però. Apprezzo comunque che qualcuno
legga, non sentitevi in obbligo.
Alla prossima! :)
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