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Autore: Elphie94    12/05/2017    2 recensioni
[Modern!AU] Considerato il più grandioso genio del nuovo secolo, Erik Danton vive recluso, nascondendo al mondo la ragione della sua volontaria segregazione. La sua vita cambia quando vi entra a far parte Meg Giry, una ragazza spavalda e apparentemente senza regole, che diverrà la sua nuova (quanto involuta) allieva. Tra i due non scorre buon sangue, ma nessuno, neanche Erik, può prevedere il futuro...
[Edit 2020: lievi correzioni e modifiche al testo.]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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v.


Accade quattro mesi dopo il loro primo incontro. Ormai è pieno Aprile, le foglie cristallizzate di rugiada sugli alberi riprendono colore e cominciano a sbocciare i primi tremuli fiori primaverili. È una stagione che Erik ha sempre apprezzato, per la sua dolce calma. In passato, gli ricordava Christine. Se invece dovesse paragonare Meg a una stagione, sarebbe l'estate: calda, quasi torrida, un uragano di cambiamenti atmosferici. E lui? Lui sarebbe l'inverno: gelido e insidioso e duro come le montagne dalle vette innevate. Freddo come la pioggia e la roccia infrangibile.
«É il mio debutto da solista. Ci sarai?» La voce di Meg ha un fondo d'incertezza, arduo da percepire se non per i sensi affinati di Erik. Questi annuisce: Meg debutterà come Regina delle Villi in Giselle. È solo una sostituta, ma alla sua età è un grande progresso.
«Sarò nel mio solito palco» le assicura.
«Ma certo, il palco numero 5. Mia madre te lo faceva riservare appositamente dalla direzione.» Meg si ferma, come per ponderare qualcosa che le ha attraversato la mente solo in quell'istante. «Eri tu!» Lo indica con un dito accusatore e la bocca a forma di oblò per la sorpresa. Probabilmente si chiede come abbia potuto non intuirlo prima.
Erik sorride, serafico. «Io cosa?»
«Tu, dannato!»
«Chi?»
Meg dà in un grugnito di insoddisfazione. «Il fantasma dell'Opera! Ma certo. Il palco del fantasma… Tutte noi allieve ballerine ci chiedevamo a chi appartenesse, visto che rimaneva sempre vuoto… E qualcuno che giurava di essere stato testimone di eventi paranormali diffuse in giro la voce che si trattasse di uno spettro. Io ovviamente non ci credevo, e prendevo in giro le mie compagne e le allieve più piccole con raccapriccianti storie sul famigerato fantasma…»
«Come la peste che sei.» Le arrufferebbe i capelli in un gesto di affetto, ma si limita a scuotere il capo, divertito.
«Quindi eri proprio tu.»
«Sì.» Erik non può fare a meno di sogghignare con aria saputa.
«Stronzo!» dice lei, e gli colpisce piano un braccio con il libretto degli spartiti. Lui sobbalza, ma è divertito.
«E questa cortesia a cosa è dovuta?»
«Scommetto che adoravi terrorizzare noi ragazzine alle nostre spalle.»
«Ebbene sì, mi hai scoperto. Ma tu non ti saresti comportata diversamente.»
Meg borbotta qualcosa di simile a una maledizione. Erik ride, con la sua risata che — lo sa — è incantevole all'udito. Non fa altro che irritarla di più, lungi dall'essere uno strumento di seduzione con lei.
«Ti notavo, sai.»
Meg è ora immobile, trasognata. «Come?»
«Eri la più mingherlina e bassa della compagnia. Ma anche quella che ballava con maggior tenacia.»
«Sapevi che ero la figlia di Antoinette Giry?»
«Ti ho individuata subito. Le somigliavi, ma portavi nella carnagione l'impronta indelebile di tuo padre…» Erik si ferma, ma l'accenno al genitore defunto non sembra toccare Meg, che lo guarda ancora con aspettativa.
«Verrai, sabato? Ti farò conoscere mia figlia. Spero solo che la maschera non la inquieti.»
«Non ho bisogno della maschera per uscire.»
Meg sbatte le palpebre. «No?» chiede, curiosa.
«Vedrai» risponde lui con un sorriso segreto. Poi ritornano alla loro lezione.


La sera del debutto di Meg come solista, Erik si sistema sulla faccia la protesi nasale, gli enormi occhiali da sole che gli nascondono gli occhi infossati e dorati, la sciarpa intorno alla bocca e il cappello ben calato sulla fronte. Per il resto, è vestito come sempre: giacca e cravatta, scarpe firmate e camicia di seta. Sì, è quasi presentabile, se non assomigliasse a un malfattore per quanto è coperto. Ma i malfattori non vanno in giro con guanti di camoscio nero, e così esce di casa per la prima volta dopo tanto tempo e prenota un taxi, diretto all'Opera Garnier.


Al termine dello spettacolo, stuoli di fan adoranti si raggruppano attorno alla Sorelli, la prima ballerina, ma anche Meg ha i suoi elogi. Con un sorriso raggiante e il trucco che ancora le illumina il volto, accetta i fiori con profusi ringraziamenti, arricciando stranamente il naso. Poi lo scorge, un'ombra alta e magra appostata vicino a un lampione. Stringe gli occhi, come per assicurarsi che sia proprio lui; poi fa un cenno alle sue eccitate compagne e si allontana da loro, le suole delle comode sneakers che scricchiolano mentre lo raggiunge con la maggior flemma di cui è capace (che non è molta).
«Questo è quanto di più vicino alla mia faccia potrai mai vedere nella tua vita.»
La sua voce melodiosa la fa sospirare. Sì, è proprio il suo insopportabile maestro.
«Interessante. È finto, quel naso, mi chiedo?»
«Sì. Ma non dirlo in giro.»
Lei si apre in un sorrisetto, ed Erik la sorprende con un mezzo inchino; Meg sbatte le palpebre come un animaletto catturato sotto la luce del lampione.
«Sei stata regale, sul palco.»
Meg dissimula il rossore che le invade le guance incavate con una risata leggermente frettolosa e roca. «Oh, grazie mille.» Poi aggiunge, in un sussurro complice: «Non dirmi che mi hai portato dei fiori.»
«No, sfortunatamente. Avrei dovuto, lo so, ma…»
«Oh, grazie a Dio.» Meg sospira di sollievo. «Ne ho talmente tanti ora da riempire per intero il mio camerino.»
Erik sorride. «Sei una strana ragazza, Meg Giry.»
«Da che pulpito. Probabilmente le mie amiche si chiederanno chi sia l'alto e tenebroso  sconosciuto con cui sto intrattenendo una conversazione tanto interessante.»
Si avvicina, e lui deve inghiottire il bisogno istintivo di fare un passo indietro — o di accostarsi a lei ulteriormente. Entrambe le ipotesi suscitano in lui domande spaventose.
«Rapiscimi.»
Erik sbatte le palpebre. «Come?»
Meg ridacchia e scuote il capo. «Non voglio affrontare la festa con le mie amiche e le altre che non lo sono ma che fingeranno di esserlo solo per questa sera. Non mi piacciono i convenevoli.»
«Sarai gradevole come sempre.»
«Questo non mi rassicura affatto.» Poi aggiunge, sempre in quel tono complice: «Portami via di qui. Ti concedo il mio sacrosanto permesso. Mia figlia è con mia madre, loro torneranno a casa perché è troppo tardi — ma noi due potremmo…» Qui si ferma, ponderando. «Non so. Andarci a fare una bevuta insieme. Guardare nuove puntate de Il trono di spade a casa tua. Non sarebbe male.»
Erik si raggela. «Io—»
«Come amici» dichiara subito Meg con serietà. È ancora rossa in volto, però. «Ti prego, portami via da questo mortorio.»
Lui arretra, questa volta sul serio. Come amici. Come… «Non posso, Meg. Mi dispiace. E non posso neanche conoscere tua figlia. Non — non dovrei…»
«Ah.» Meg non fa trasparire la delusione, ma è comunque chiara ai sensi di Erik. Voleva trascorrere quella sera con lui. Come amici. Non sa che lui non ha mai avuto amici in vita sua, e l'unico che possa rientrare in questa definizione — il Daroga — in realtà lo tiene più d'occhio che altro, pentito (di questo Erik è certo) di avergli salvato la vita tanti anni prima. Di aver risparmiato il mostro.
«Perché?» Meg si stringe nel giubbotto di pelle, l'ombretto sulle palpebre che luccica alla luce del lampione. «Non capisco.»
«Perché…» Il cuore gli si stringe in petto, quel cuore saturo d'oscurità che si cela dentro. «Non dovrei essere tuo amico. Il tuo insegnante, d'accordo. Quello è possibile. Ma niente di più.»
«Perché?» sibila ancora Meg, e questa volta la rabbia gocciola via dalla sua voce come pioggia calda d'estate.
«Non vuoi un amico come me, credimi. Non lo vuoi. Non sono… la persona che credi.»
«Perché, cosa credi che io pensi di te? Sei un insopportabile so–tutto. Sei arrogante e freddo, ma…» Meg china lo sguardo sui suoi stivali anfibi, ed Erik vorrebbe abbracciarla, stringerla a sé come l'uomo che non è e non sarà mai, non per lei, non per nessun altro.
«Sei anche il miglior insegnante che si possa desiderare. Lo dico sul serio, e mi costa, ma non importa. Fanculo l'orgoglio.»
«Non posso.»
Lui si volta, desolato, pronto a rientrare nel caldo abitacolo del taxi. Lei lo afferra per un gomito ossuto. «Aspetta.»
Erik si irrigidisce al tocco. Non vi è abituato; solo al Daroga a volte è permesso toccarlo, o meglio sfiorarlo. E non sfiora una donna da eoni.
«Mi spiegherai la vera ragione, dopo la prossima lezione?»
«Sì» le promette, e glielo deve. Nella sua voce risuona una nota di angoscia, limpida e cupa come quella notte. Sa che, insieme alla verità, giungerà la fine di questa strana amicizia. È un pensiero che odia, ma è meglio per lei. Lo è, davvero. Farebbe di tutto perché quella ragazza abbia il meglio. E lui non fa parte di quel meglio, assolutamente.
«Ci si vede, allora.»
Erik non sa se sente queste parole per l'ultima volta oppure no.


La tazza di tè gli riscalda le dita, come al solito gelate. Meg ne ha preparato un po' perché, appena entrata in casa e posato gli occhi su di lui, ha notato il suo bizzarro tic. Lo ha costretto a sedersi in cucina e a indicarle la pentola per il tè e le foglie verdi, e ha lasciato bollire il tutto divorando biscotti glassati con l'usuale fame rabbiosa. Se mangia in quel modo, si chiede perché sia così magra.
«Meglio, vero? Ora puoi parlare.» Meg gli si siede accanto, lanciando un ultimo sguardo nostalgico ai biscotti, e prende a sorseggiare il suo tè. Erik non solleva i bordi della maschera per sorbire la calda bevanda. Stringe solo la tazza tra le mani, così forte che teme andrà in pezzi.
Inizia il racconto della sua vita con un filo di voce. «Io non sono… una brava persona, Meg. Non nel senso che s'intende normalmente. Nella mia vita ho compiuto azioni che…» Scuote il capo, addolorato. Lei non scosta lo sguardo dal suo, oro contro carbone. È lì per avere una risposta, e ne ha tutto il diritto. «Tu non hai la minima idea di quello che ho fatto. Di cosa mi hanno… spinto a fare. Ma il biasimo è mio, solo mio. Avrei potuto scegliere un'altra vita e non l'ho fatto — perché ero così pieno di rabbia… L'odio e la rabbia mi nutrivano. La mia natura è oscura e contorta, ecco tutto.»
«E ti sentivi così perché…?» domanda Meg, serissima. Non l'ha mai vista tanto seria. È chiaro che lo sta prendendo in parola, ed è preoccupata.
Lui non risponde.
«Cosa sei di tanto terribile? Uno stupratore seriale?»
Erik sbatte le palpebre. La sua bocca — la sua specie di bocca — si contorce in una smorfia di disgusto e orrore. «Cosa…? No, per Dio, no!»
«Sei un serial killer?»
Lui rabbrividisce. Lei scatta in piedi, terrorizzata da quel silenzio quasi quanto lui.
«Sei davvero un serial killer?»
«No — no, santo cielo. Ma ci sei quasi arrivata.»
Lei comprende dopo una pausa gravosa. «Sei un killer. Un sicario.»
«Una sorta.» Erik si contorce le dita, abbandonando la tazza di tè sul tavolo. «Ero un mercenario all'ordine di alcuni servizi segreti mondiali… Ho lavorato per l'URSS, per l'Iran. Per gli Stati Uniti, naturalmente. Sono sceso in guerra molte volte. Ho anche ucciso. Per sopravvivere, principalmente, e poi per il mio lavoro. E non ti nascondo che non mi piaceva, non mi piaceva affatto. Ero il relitto e il vampiro di me stesso. Mi consumavo da solo nell'oppio, sperando di dimenticare a cosa la natura mi aveva destinato…» Fa un cenno al suo viso mascherato.
«Ad essere un mostro» conclude lei per lui, ed è incredibile come legga i suoi pensieri in modo rapido e profondo — che le loro menti siano collegate? Non ha mai conosciuto una tale connessione intellettuale con nessuno. Pensa alle affinità elettive di Goethe, e si morde un labbro a sangue.
«Cosa mai ti hanno fatto perché tu abbia scelto di percorrere un sentiero simile?» dice lei, ed Erik si irrigidisce, preda dei ricordi.
«Mi hanno tolto la libertà» risponde semplicemente. Si gratta i polsi dove ancora sopravvivono le cicatrici di quando, quarant'anni prima…
E le parla. «Nacqui in un villaggio di campagna e poche anime vicino Rouen. Non conobbi mai mio padre, morì prima della mia nascita. Mia madre mi costringeva ad indossare la maschera; senza, non riusciva nemmeno a guardarmi in volto. Non uscivo mai di casa, ma lì imparai a suonare il pianoforte e il violino, a cantare, le prime basi dell'architettura… Non piacevo alla gente del villaggio. Di notte fuggivo di casa per sgattaiolare nella chiesa del paese e suonare l'organo — un vero organo — ma quando la plebaglia cominciò a spettegolare al riguardo, a mia madre dissi che il colpevole era un fantasma, non io. Quante volte mi picchiò per le mie fughe notturne? A me non importava. Quando il sacerdote — Padre Mansart, l'unico che fosse rimasto vicino a mia madre dopo che ebbe partorito me — mi consolò per la morte prossima di Sasha, la mia unica amica (il cane), mi rivelò anche che non l'avrei più rivista, perché gli animali non hanno un'anima. Fu un colpo tanto duro per me che esplosi in una crisi di rabbia isterica di cui fino ad oggi non ho mai compreso la natura. Ruppi tutti i soprammobili del salotto, agitai l'attizzatoio contro mia madre e il sacerdote… Mi mandarono in manicomio. Alla fine guarii. Non avevo più attacchi di follia, momenti nei quali perdevo il controllo di me stesso. Ma in cambio divenni un morto vivente. Fu estremamente doloroso. Sai, allora non esistevano le cure di adesso… E io ero solo un bambino. Frattanto, continuavo i miei studi — musica, arte, letteratura, scienza, architettura — tutto quel che volevo era a portata di mano. Pensavano che un orrore come me sarebbe rimasto chiuso lì dentro per sempre, in isolamento. Si sbagliavano.»
«Sei cresciuto in un manicomio?» Nella voce di Meg vige l'orrore.
Erik annuisce. «Ma presto scappai. A nessuno importava del mio avvenire, avevano tutti orrore di me. I medici volevano scoprire cosa c'era dietro la mia deformità; dicevano che ero un genio, e che in qualche modo quel genio sarebbe uscito allo scoperto, prima o poi… Non avevano torto. Quando mi resi conto delle mie potenzialità, fu una liberazione. Una nuova nascita. Scappai e viaggiai con una compagnia di circensi che mi accettò tra le loro schiere, a patto che suonassi e cantassi per i loro spettacoli. Facevo quello e molto altro: ero un quattordicenne prodigio, un grande illusionista, e cominciai ad essere noto come “la Morte Vivente”… per il mio aspetto, capisci. Vivevo così, nei circhi, come artista di strada. Ero conosciuto nell'ambiente. Poi vennero i russi.»
Qui Erik si apre in un sorriso triste che è come una ferita sanguinante sulla sua pelle livida. «Avevano sentito delle mie singolari abilità. In particolare, col laccio del Punjab.»
«Il cosa?» Meg a quel punto è quasi senza voce.
«Il laccio del Punjab. È un elastico simile a una garrota, ma più lungo. Un'arma che imparai ad usare magnificamente durante un viaggio in India. Mi promisero che, al loro servizio, sarei stato potente. Fu questo a farmi accettare la proposta: da troppo tempo mi sentivo debole, senza controllo sulla mia vita. La natura o Dio o chi per Lui mi aveva plasmato senza che io potessi far nulla per contrastare il mio destino. O così credevo.» Fa di nuovo un cenno verso la maschera. Meg è paralizzata, ma continua ad ascoltare.
«Mi addestrarono. Divenni un soldato modello. Le mie naturali abilità fisiche progredirono. Ero rapido, forte, implacabile. Cominciai a lavorare per i servizi segreti russi, a diciott'anni. E per altri regimi e governi. Per qualche tempo divenni una macchina da guerra, sebbene con un codice severo e tutto mio. Nell'ambiente mi guadagnai un nome; o meglio, me lo affibbiarono, poiché io avevo ormai da tempo cambiato nome. Dicevano che ero un fantasma, imprendibile. Fu il Daroga a fermarmi: durante una missione segreta per l'Iran — lui era a capo della polizia, lì — fui gravemente compromesso. Mi avevano avvelenato; me lo dovevo aspettare. Sapevo troppe cose, ero a parte di troppi segreti. Nadir Khan mi salvò la vita, mi risparmiò, a patto che non commettessi più delitti. Accettai. Non desideravo più quella vita. Avevo dimenticato chi ero, e ora stavo riacquistando la mia identità. Non volevo essere… un mostro. Non volevo morire come tale. Così tornai in Francia insieme al Daroga, che mi convinse a pubblicare alcune delle mie composizioni, a registrare la mia voce e le mie sonate in studio. Lui aveva dei contatti… Ovviamente, nessuno poteva vedermi in viso. Acquistai la fama di genio recluso e poi, sei anni dopo il mio ritorno alla vita, qui a Parigi, dove mi ero costruito una casa tutta mia…»
Gli si incrina la voce. Si prende la testa fra le mani. «Tua madre mi riservava un posto tra i palchi dell'Opera Garnier, cosicché ogni tanto vi facevo visita per assistere ad alcune delle mie opere preferite. Fu su quel palco che udii cantare Christine Daaé per la prima volta.» Erik prende lentamente fiato. Inspira, espira. Adesso viene il peggio. «Chi era quell'angelo? M'innamorai di lei all'istante. La sua voce era serafica, ma cantava senza passione! Cantava come una di quelle graziose bambole con una chiave conficcata nella schiena: a comando. Con umiltà, la incontrai e le proposi di darle lezioni di canto. Lei, conoscendo la mia fama, ne fu onorata. Si stabilì un rapporto di grande intimità tra noi due: lei mi raccontò che dalla morte di suo padre non riusciva più a godere della musica come una volta. Che Monsieur Daaé le aveva detto che, dopo la sua scomparsa, l'Angelo della Musica le avrebbe fatto visita. Che amabile sciocchezza. “Siete voi il mio angelo, Erik” mi diceva lei, e mi riempiva il cuore. Furono i mesi più belli della mia vita, almeno fino ad allora.
Poi venni a saperlo.
Christine aveva compreso i miei sentimenti per lei e non desiderava ferirmi, ma non poteva proteggermi per sempre. Era fidanzata da anni con un certo visconte de Chagny, Raoul, di cui era innamorata fin dall'infanzia, e presto sarebbero convolati a nozze. Ero maledetto: amavo la donna di un altro! Allora le feci atroci scenate di gelosia. Le dicevo che avrei smesso di darle lezioni se si fosse sposata, e lei mi pregava, con le lacrime agli occhi, di restare al suo fianco. Era chiaro che non potevo essere un uomo normale per lei, né ero suo padre: ma potevo essere il suo angelo. Evidentemente mi associava al ricordo del genitore defunto, ed ero un amico prezioso: nient'altro. Il peggio arrivò quando decise di togliermi la maschera. In realtà, come compresi in seguito, non fu da parte sua una decisione deliberata, poiché era ipnotizzata dalla mia voce: cantavamo un duetto dell'Otello di Rossini, ed era così presa dalla musica che il suo desiderio di conoscere il volto dell'angelo la sopraffece. E così mi sfilò la maschera e…»
Erik seppellisce il viso tra le mani.
«Le urlai contro maledizioni e deliri. Andai su tutte le furie. Ora che aveva visto la mia faccia, non avrebbe più voluto restare con me! Ed io sapevo che una parte di lei, fino a quel momento, lo aveva voluto. Lei era ai miei piedi, piangente… e anch'io singhiozzavo, mentre in me sentivo rinascere quell'odio che non percepivo più scorrermi come fiele nelle vene da tanto tempo. Questa volta era indirizzato verso l'innocente e ignaro visconte. Minacciai Christine che lo avrei ucciso — e lo avrei ucciso davvero, se me lo fossi ritrovato davanti in quel momento! Lo avrei ucciso, se lei non fosse rimasta con me. Cosa sceglieva? La sua vita o quella del fidanzato? Lei era furiosa, piena di una passione e una rabbia e una tristezza che non avevo mai visto in lei. “Mi hai tradita, mi hai ingannata!” Poi, piangendo: “Io mi fidavo di te!.” Le dissi che doveva compiere una scelta, e al più presto. Dopodiché la sentii mormorare queste parole: “Povera creatura… Cosa mai ti hanno fatto per arrivare a tanto? Dio, ti prego, dammi coraggio… Perché non sei solo, Erik. Non sei solo.” E mi abbracciò, e mi baciò sulla fronte — su questa mia fronte di morto! E piangemmo insieme. Capisci? Pianse con me, su di me, le sue lacrime sulla mia bistrattata faccia… e l'odio aveva cessato di pulsare. Allora la lasciai andare. Le dissi di ricordarsi del “povero Erik”, come mi aveva chiamato pochi istanti prima nella mia angoscia, e di essere felice col suo innamorato. Di non piangere più, e di vivere la sua vita. E così lei fece. Se ne andò. Venni a sapere che si sposò poche settimane dopo — un matrimonio modesto per una viscontessa — e che tornò con De Chagny nella sua patria d'origine. Poi più nulla; mi disinteressai a lei. Era meglio così. Ma non ho mai cessato di amarla.»
Erik inspira profondamente. Meg è raggelata al suo fianco, e non proferisce parola. «Capii di amarla davvero solo quando la lasciai andare: fu l'unico atto d'amore, di compassione, della mia esistenza. Lei avrebbe dato la sua vita per quella di Raoul. Quello — mettere la felicità di un altro al posto della propria, l'altruismo cieco di Christine — quello era amore. Ed era amore anche la sua compassione per me, perché sapeva che soffrivo, e che era la mia sofferenza a guidarmi verso il delirio. Il mio amore per lei era stato egoista, le aveva negato la sua libertà. Come avevo potuto essere tanto folle, tanto ottuso? L'avevo persa per sempre, e non avevo ricevuto che lacrime da lei…»
Il racconto è finito, e Meg sembra percepirlo. Ha orrore di lui, si chiede? Una mente logica ne avrebbe. Meg arretra, quasi inciampa sui propri piedi calzanti i soliti anfibi. Erik fa per afferrarla in tempo, ma lei si scosta dal suo tocco.
«Non… non toccarmi.» Non le fa orrore, no: prova disgusto. La guarda andarsene senza dire una parola, senza pregarla di restare come il suo cuore gli implora di fare. È giusto così.
Crolla di peso sulla sedia, facendola oscillare. Forse è ora di bere qualcosa di più forte del tè. È l'unica consolazione che gli sia rimasta.



Note dell'Autrice: Ops, ecco il draMMMa. Beh, dato il protagonista maschile, non poteva non esserci. Che ne pensate del passato di Erik? Ho preso qualche spunto per la sua infanzia dal Phantom di Susan Kay, come avrà notato chi lo ha letto. Per il resto, è mia fantasia – una versione moderna delle “ore rosa di Mazenderan” descritte da Leroux. In realtà, ora che ci faccio caso, somiglia vagamente alla storia del Soldato d'Inverno. Mmm.
Per quanto riguarda la reazione di Meg, mi pare totalmente giustificata. Se qualcuno mi confessasse (pur con tutte le buone intenzioni del mondo) di essere stato un sicario e uno stalker, io scapperei a gambe levate. E, credo, anche chiunque altro. Ma scoprirete di più nel prossimo aggiornamento. Ci tengo però a dire che Erik è mutato totalmente dopo il gesto d'amore di Christine (un po' come Paolo sulla via di Damasco), ed è sul sentiero della redenzione, come mostra spiegando la verità a Meg; non si sente meritevole dell'amicizia di quest'ultima in quanto ben consapevole delle sue cattive azioni passate.
Solo… per chi sta leggendo la fic, se c'è effettivamente qualcuno là fuori (mi sentite? Toc toc?), vi prego, recensite. Non perché sia ingorda, ma solo per sapere se ci sono delle critiche da smuovere, qualcosa che non va, anche eventuali errori di grammatica. Altrimenti mi sento più scoraggiata a postare, è naturale. Capisco che alcuni vogliano aspettare la fine per dare un giudizio, però. Apprezzo comunque che qualcuno legga, non sentitevi in obbligo.
Alla prossima! :)
   
 
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