CAPITOLO 5
Castiel quella mattina era di buon umore.
“Strano”
gli sussurrò la sua coscienza, sospettosa e allerta, ma lui
la ignorò,
appoggiando sul fornello una pentola, pronto per fare i pancake. Ci
mise una
noce di burro, aspettò che si sciogliesse e unì
ad essa la pastella, formando
dei cerchi concentrici degni di un grande chef. Sorrise compiaciuto,
saltellando tra il fornello e il lavandino, felice come un bambino che
ha
appena vinto delle caramelle. Appena pronti, li depose su un bel piatto
blu che
con estrema attenzione e meticolosità si curò di
appoggiare al centro del
tavolo e si mise a fare la spremuta. Sentì la porta aprirsi
e il suo sorriso
divenne ancora più grande, se possibile.
“Papi, dove sei?” Un tenera voce giunse alle suo
orecchie e si sporse
dalla porta della cucina.
“Qui!” Claire guardò il
padre con un sorriso a 32 denti e gli corse
incontro, saltandogli in braccio. Zeke apparve dietro di lei, per
niente
entusiasta, e si sedette a tavolo, pronto ad addentare i pancake.
“Si
aspetta tutti!” gli urlò Claire, ricevendo da
Castiel un’occhiata compiaciuta.
Era fiero della piccola donna che sua figlia stava giorno dopo giorno
diventando ed era ancora più fiero del fatto che fosse lui
il padre biologico.
“Per fortuna che non è Zeke” pensava a
volte, vergognandosene un po’. Ma in
fondo, perché nascondere ciò che pensava? Zeke
non era più l’uomo con cui aveva
deciso di crescere un bambino: era diventato sgarbato, nervoso e non
aveva
alcun rispetto per ciò che per lui era importante, ovvero la
famiglia.
Cresciuto in una grande, con tanti fratelli e sorelle, per Castiel era
indispensabile avere una bella famiglia felice, in cui poter discutere
delle
più svariate cose e dove poter trovare sempre un caldo
rifugio. Gli doleva
dirlo, ma con Zeke ormai non era più così. A
malapena riuscivano ad avere una
conversazione senza urlarsi addosso, Zeke era sempre al lavoro o seduto
sul
divano a vedere stupide sit-com, Claire si era allontanata da uno dei
suoi due
padri e Castiel era sfinito. Quando la figlia non era a casa e lui non
doveva
andare in negozio, prendeva la macchina e se ne andava in giro per ore
pur di
non tornare a casa da Zeke. Forse è per questo che aveva
deciso di invitare
fuori a pranzo il bel dottore: per passare un paio di ore in
serenità, senza la
paura di dire la cosa sbagliata e iniziare a litigare.
Accompagnato
dalla figlia, si sedette a tavola e iniziarono tutti a mangiare.
“Il dottor Winchester ha detto
che dovrà prendere l’antibiotico ancora per due
settimane ma per il resto va
tutto bene” disse Zeke, cercando di recuperare. Castiel
annuì, distratto.
“Si chiama signor Smeraldo”
ribattè Claire, per nulla in sintonia quel
giorno con il padre.
“Chiamalo come ti pare.” Castiel scoccò
al compagno un’occhiata gelida
che lo fece alzare dal tavolo.
“Io vado al lavoro” disse Zeke,
sporgendosi verso il moro per dargli un
bacio sulla guancia, “Ci vediamo stasera.” Claire
lo salutò debolmente e
continuò a mangiare soddisfatta. Castiel annuì,
accompagnandolo alla
porta.
“A
che ora torni?” chiese.
“Dopo
cena.”
“Come mai?” Zeke si guardò la punta dei
piedi con fare agitato.
“Ho la cena con il
capo” ammise e se ne andò.
Tornato a
tavolo, Castiel venne accolto da un bigliettino appoggiato sul suo
piatto.
“Me lo ha dato il signor Smeraldo
per te” disse Claire, per poi scomparire in camera sua. Il
padre sorrise, curioso,
e lo prese in mano, leggendolo:
“Spero ti piaccia la carne. Ci vediamo alle 13,00 alla Road
House. Dean”
“Gabriel, mi devi fare un favore” disse
Castiel al telefono con il fratello maggiore.
“Tutto quello che vuoi,
dolcezza.”
“Oggi a pranzo dovrei uscire con un amico. Mi potresti tenere
Claire che
è a casa dall’asilo?” Il fratello
iniziò a ridere.
“Un
amico, eh?”
“Si, Gabriel, un amico e per favore rimani
concentrato.”
“Ok,
farò finta di crederti.”
“Quindi
me la tieni tu?”
“Si, vengo da te alle 12,30 e poi io e la
piccola ci diamo alla pazza
gioia.” Castiel sollevò gli occhi al cielo.
“Per
favore non distruggetemi casa!”
Giunto davanti alla
Road House, Castiel si specchiò nelle vetrate: i capelli
erano spettinati con
cura come sempre e il trench ricadeva con eleganza sulle sue spalle.
Era
pronto. Entrò nel ristorante con calma e si
guardò attorno, in cerca del
dottore. Era un posto molto curato, in legno, con luci soffuse rosse e
si
respirava un pungente profumo di carne alla griglia. Una bionda
ragazza, molto
carina, gli si avvicinò.
“Salve, ha prenotato un tavolo?”
“Dovrei essere con il signor Winchester.” La
ragazza sbarrò gli occhi,
sorpresa.
“Sei Castiel?” Il
moro annuì, inquietato.
“Io
sono Jo, una grande amica di Dean” rispose lei,
sorridendogli, “Vieni, il
tavolo è di qui.” Castiel seguì la
ragazza con impazienza; quella situazione
iniziava a non piacergli. Sentiva l’ansia iniziare a
diffondersi in tutto il
corpo.
“Eccoci qui.” Jo si fermò davanti a un
piccolo tavolo, in un angolo
appartato della sala, circondato da grandi finestre e se ne
andò, dopo aver
fatto l’occhiolino a Dean, che comodamente se ne stava seduto
su una delle due
sedie. Castiel lo osservò per qualche secondo prima di
salutarlo. Inutile dire
che fosse bello; avrebbe potuto indossare perfino un sacco
dell’immondizia e risultare
tale. Ma quella camicia blu, che stringeva leggermente sulle sue
braccia,
donava al biondo un non so che di divino e Castiel si perse ad
osservare quei
due occhi verde smeraldo che lo stavano fissando con un po’
di imbarazzo.
“Ehm…ciao
Castiel” sussurrò Dean, un po’ rosso in
viso, “Qualcosa non va?” Il moro si
riscosse dai suoi pensieri e gli si sedette di fronte.
“No, scusa…ciao
Dean.” Il biondo gli sorrise, prendendo in mano il
menù.
“Allora Cass, cosa vuoi
mangiare?” Castiel alzò gli occhi dal tavolo,
stupito, e sorrise.
“Sei tu di casa, quindi scegli
tu.”
“Già
ti fidi di uno scapestrato come me?”
“Sei un pediatra. Non sarai poi così
male.” Dean sorrise appena,
abbassando lo sguardo e ordinò delle bistecche ai ferri per
entrambi,
accompagnate da patatine fritte.
“Allora, la piccola Claire è arrivata a casa sana
e salva?” chiese il
dottore, sentendosi un po’ agitato. Non aveva mai avuto
problemi con gli
appuntamenti: ammagliava con il suo sorriso e faceva stupide battutine
per
smorzare la tensione. Ma con Castiel sapeva che non sarebbe stato
così
semplice. Le battutine non le avrebbe apprezzate, anzi, lo avrebbero
solo fatto
etichettare come “infantile” e diciamo che quello
non era proprio il suo
intento. Mentre, per quando riguardava il suo sorriso, quello del
pasticcere
era in grado di farlo sciogliere, quindi non riteneva il suo
all’altezza di
tale opera d’arte. Così si buttò sulla
conversazione, domande di routine, con
l’intento di giungere molto più in là e
con la speranza che Castiel ricambiasse
l’interesse.
“Claire sta benissimo e solo grazie a te” ammise
Castiel.
"Vorrei
tanto prendermi questo merito ma devo dissentire. Sono stato cresciuto
con
l’idea che tutto ciò che può aiutare
qualcuno non potrà mai essere opera mia.
Per questo cedo il merito alla mia equipe.”
“Famiglia
severa o infanzia difficile?” Solo dopo aver formulato la
domanda Castiel si
accorse di aver azzardato troppo.
“Oh,
perdonami, non volevo essere invadente.” Ma Dean sorrise,
apprezzando il
coinvolgimento del moro.
“Padre bastardo.” Castiel strinse i
pugni, abbassando lo sguardo, preso
da vecchi ricordi e ferite non del tutto emarginate. Lo capiva, lo
capiva
eccome.
“Cass, tutto
ok?” Dean si accorse subito di quel repentino cambio
d’umore e per un secondo
si sentì in colpa.
“Se ho
riportato a galla brutti ricordi mi disp…”
“No,
non ci provare nemmeno a scusarti. Non è colpa
tua” lo interruppe l’altro. Dean
appoggiò i gomiti al tavolo e lo guardò negli
occhi, senza mettergli alcuna
fretta o pressione, solo perdendosi in quel mare blu, un po’
spento in quel
momento ma sempre custode di un mondo che a quel semplice dottore
pareva
divino.
“Sono cresciuto in una grande
famiglia, con tanti fratelli e sorelle, non ti so dire di preciso
quanti…”
iniziò Castiel, guardando fuori dalla finestra e riportando
Dean alla realtà, “Ma
senza una figura paterna a guidarci. Mio padre si faceva vedere solo
due volte
all’anno, a Natale e a Pasqua, per poi sparire e ricomparire
l’anno successivo
con qualche altro figlio.”
“Ne
hai sofferto molto di questa mancanza.”
“E’
così evidente?” chiese Castiel, alzando il mento e
incontrando gli occhi di
Dean.
“Sono solo bravo a
riconoscere chi è rotto come me.” Si guardarono
per qualche secondo negli occhi
ed entrambi si chiesero se la persona che in quel momento avevano di
fronte
sarebbe stata in grado di riaggiustarli.
“Ecco a voi le vostre
ordinazioni!” esclamò Jo, rompendo quella
connessione di sguardi. Posò i piatti
e guardò un secondo i due ragazzi.
“Interrompo qualcosa?”
“No”
rispose Dean, dopo qualche secondo, senza togliere lo sguardo dal moro.
Jo se
ne andò e Castiel fece un lungo sospiro, scervellandosi per
cambiare argomento.
“E’ una tua amica o qualcosa di
più?”
chiese, riferendosi a Jo. Dean sorrise.
“Te l’ho già detto: non ho
legami al momento. Lei è come una sorella per me.”
Castiel mise in bocca un
pezzo di carne alla griglia, con l’intento di lasciarlo
continuare.
“Mio padre e sua madre erano amici di vecchia data e io e mio
fratello
abbiamo passato la maggior parte della nostra infanzia qui, a causa dei
viaggi
di lavoro di mio padre e del suo vizio per l’alcol. Ellen, la
mamma di Jo, è un
po’ come la mamma che non ho mai avuto.”
“Hai
un fratello?” Dean gli fu grato per non aver chiesto nulla di
sua mamma e
sorrise, pensando al fratellino.
“Si
chiama Sam, è più piccolo di me di qualche anno,
e studia a Stanford.”
“Non lo vedi spesso, quindi.”
Dean scosse la testa, dispiaciuto.
“Eravamo molto legati
da piccoli, poi abbiamo preso strade diverse e le cose sono un
po’ cambiate.”
“Cosa
studia?”
“Legge” disse Dean, amplificando la parola con un
gesto plateale delle
mani. Castiel scoppiò a ridere, abbandonando quella sua aria
rigida e tesa che
aveva sempre e Dean, come uno stupito, si perse ad ascoltare il suono
di quella
risata e ad ammirare le piccole rughe che si erano formate agli angoli
dei suoi
occhi. Sapeva che da quel pranzo non ne sarebbe uscito vivo.
“Io mi chiedo come
tu faccia a non avere legami” ammise Castiel, rilassandosi
sulla sedia.
“Cosa
intendi dire?” Il
moro sfoderò un sorriso malizioso e divertito.
“Dai, lo sai anche tu
di essere un buon partito: bello, carismatico e medico. Le donne come
fanno a
lasciarti libero?”
“Non
solo le donne…” sussurrò Dean,
mordendosi un labbro.
“Mi stai dicendo che…”
“Si” ammise il biondo, sorridendo, “Mi
piace definirmi di larghe vedute.
Perché avere solo una
parte dei due mondi, quando puoi avere il meglio di entrambi?”
“Non fa una piega” sorrise Castiel.
Mangiarono in silenzio, ma sereni, fino alla fine del pranzo, quando
Castiel si
alzò per pagare.
“Non ci
pensare neanche” disse Dean, prendendogli una mano per
bloccarlo. Castiel
trattenne un secondo il fiato, sentendo la pelle del biondo, calda e
liscia, a
contatto con la sua.
“Hai aiutato mia figlia, è il minimo che io possa
fare.”
“No, il minimo che tu possa fare è
invitarmi nella tua pasticceria a prendere una fetta di torta alle
mele.” Dean
si meravigliò della proposta che uscì dalle sue
labbra. Lo aveva proposto
veramente? Si diede dello stupito più e più volte
prima di sentire la risposta
del moro.
“Ok, ma quella te la offro io.”
Nota dell'autrice:
Scusatemi per il ritardo. Spero che questo capitolo via sia piaciuto e aspetto con ansia le vostre critiche e recensioni. Non siate timidi!
Baci |