(8) – [ Figlie del fuoco ]
Kushina si guardava attorno con vaga curiosità.
Seduta sulla branda, con il volto ancora assonnato, sembrava intenta a
perlustrare con gli occhi la sala in cui si trovava.
Non sembrava intenzionata a reagire in alcun modo:
forse, si disse Mebuki, avevano ecceduto con le benzodiazepine. Meglio
così.
Sbuffò, un po’ delusa dai suoi pensieri che di
giorno in giorno si facevano più egoisti e cinici. Minato sbirciava dal
cucinino, in attesa.
Lei si sentiva ancora addormentata.
Non le era ben chiaro dove si trovasse, ma la cosa
non sembrava turbarla – e così non si turbò. Lasciò che il tempo passasse, che
i suoi sensi riprendessero a funzionare, anche se aveva la continua sensazione
di essere cieca, sorda, priva di olfatto e di tatto. Eppure, le informazioni
arrivavano: odori, colori, il calore del sole che filtrava dalla finestra.
Osservò la donna: vestiva in modo strano, non con la
toga dei Philosophi, non con le vesti dei Custodes, ma nemmeno sembrava una
mercante – ed era troppo curata per essere Agricola.
“Come stai?”
Parlava la lingua, e lei la capiva. Che sapesse
rispondere era un altro discoso.
Tacque.
Eppure stava bene.
Continuava a guardarsi attorno, finché non incrociò lo
sguardo con un paio di occhi azzurri come lo era stato, il giorno prima, il
cielo.
La bambina dai capelli rossi si bloccò a guardarlo.
Dapprima Minato tentò di non reagire, impaurito
all’idea di farla svenire una seconda volta: perché era collassata, poi? Forse
era esausta?
Poi iniziò a sentirsi a disagio.
Che voleva?
Anche Mebuki era a disagio.
L’idea che quei due si avvicinassero anche solo di
un centimetro in più la faceva angosciare. Kankuro, però, avrebbe voluto così.
Fece uno sforzo. Tacque, e non si mosse. E si
costrinse a non muoversi se non strettamente necessario.
Poi, come al solito, Minato cedette. Di nuovo, e
ancora – sembrava che cedere fosse ciò che gli riusciva meglio.
“Ciao.”
“Ciao.”
Il bambino si scostò dallo stipite della porta, e si
fece vedere nella sua intera figura, con la sua sciatta casacca e i capelli
biondi disordinati. Kushina arricciò le labbra, come interdetta, ma non smise
di fissarlo.
“Come stai?” chiese lui, senza più sapere se e come
proseguire.
“Bene.”
Perché adesso parlava?
“Io mi chiamo Minato.”
Quella lo guardò, muta.
“... tu ti chiami Kushina, vero?”
“Kushina è il mio Nomen.”
Mebuki deglutì.
“Il mio è Minato.” rincarò quello.
Lei sembrava non reagire a quella notizia. Minato
guardò la madre, guardò la bambina, decise di fare un passo avanti. Mebuki deglutì di nuovo, ma l’effetto fu inaspettato: Kushina mise i
piedi scalzi a terra, e si issò in piedi.
Era molto strano. Continuava a guardare e continuava
a non vedere.
Mancava qualcosa, mancava qualcosa, mancava
qualcosa...
questo risuonava nella testa di Kushina.
Bussarono.
“Nonna!” Mebuki parve avere cinque anni, in
quell’affermazione: finalmente – finalmnete! Sua nonna – Sakura , un aiuto,
anzi: L’aiuto!
“Sono Obito.”
La donna rimase interdetta: volle mangiarsi la
lingua per il tono con cui aveva squittito poco prima, davanti al cugino,
sperando – cos’era, una bambina? – di incontrare sua nonna.
Il ragazzo, varcata la soglia, si guardò attorno:
eccola, la rossa. Ed ecco anche Minato.
“Immagino che l’anziana Sakura non sia ancora
arrivata. Ciao, Kushina.”
La bambina si volse verso l’uscio – e, in
automatico, si batté il petto con il pugno destro.
Niente da fare, ancora insisteva. Mebuki cercò di
contenere la rabbia: “Kushina, noi non...” iniziò a dire, il più
tranquillamente possibile.
Ma Obito le parlò sopra: “Ignis Regionibus.”
proruppe, pacato e saldo.
“Patriae Fratres. Fati Fratres.” rispose la bambina,
pacata e salda a sua volta, rivolgendogli lo sguardo.
“Devo farti delle domande.”
Quella annuì.
“Che fascia sei?” domandò.
“Blu.”
“E quante stelle hai?”
“Due.”
“E dove si trova tutto ciò?”
“Sulla sopravveste.”
“Che non hai. Perché non hai la sopravveste,
Kushina?”
Kushina parve tentennare un attimo. Abbassò gli
occhi su di sé e sulla casacca che portava indosso, sbattè gli occhi, e disse: “Me
l’avete tolta voi.”
“No.”
“L’ho lasciata nella stanza, allora.” Concluse. Dopodiché, fece
spallucce.
Obito scrutò la bambina perplesso da quel tocco vagamente
irriverente nel discorso, dopo le serrate battute che si erano scambiati.
“Quale stanza?” insistette lui.
“La mia stanza.”
Mebuki si avvicinò al cugino – pregandolo, all’orecchio, di
smettere.
Ma Minato non si sarebbe lasciato sfuggire quel momento di
loquacità della rossa: si infilò nel discorso in quello che entrambi gli adulti
ritennero il peggiore dei modi: “Tu vivi al Ludus?”
Quella annuì senza scomporsi.
“Ma non c’è nessuno, al Ludus.” insistette Minato.
Obito mimava un violento ‘shhhhhht!’ a denti stretti nella sua
direzione, sperando che quel gesto bastasse a dissuadere il bambino dal
continuare: no, macché – non lo vedeva nemmeno. Gli occhi di Minato erano tutti
per Kushina. Avido, insisteva: “Vivi da sola?”
“No, vivo con gli altri del Ludus.” Tirò sul col naso. “… Dove sei
vissuto, Agricola? O sei Agricola per davvero?”
Eccolo – si disse Obito.
Il disprezzo, ma non l’Odio.
La supponenza, ma non l’Odio.
La tracotanza. Ma non l’Odio.
Minato rispose con straniante limpidezza: “No, io vado a Scuola.”
Di nuovo, bussarono.
I due bambini si zittirono, osservandosi l’un l’altro con viva
perplessità.
“Ah – nonna, meno male!”
I grandi occhi violacei di Kushina incontrarono le fessure stanche
e sottili delle palpebre di Sakura. Poi scivolarono sulle guance raggrinzite,
sulle rughe, sul naso, sulle labbra, e scorsero infine le sei cicatrici che la
vecchia portava sul volto. La bambina arricciò le labbra, indietreggiando con il capo, e
poi ritornò a fissare gli occhi della donna.
Sakura la vide allargare la narici.
Poi socchiudere gli occhi, come non ci vedesse bene.
Poi indietreggiare di nuovo.
Portare la mano al petto, e, ancora una volta, attendere di poter
salutare la Medicus.
Sakura avanzò lentamente nella stanza, la schiena che pareva
volersi raddrizzare nonostante le impossibilità dettate dal suo scheletro.
Obito, nuovamente, sentì quel senso di rispetto che aveva provato
davanti alla purezza di Kushina. Nuovamente, per quanto nascosta dietro
moltitudini di decine di anni, scorgeva la forza del Ludus materializzarsi in
una persona.
A Kushina non era servito fare né domande né osservare le vesti –
come avrebbe dovuto fare, o per lo meno così pensava il ragazzo: le era bastato
vedere la donna per capire che davanti a lei c’era un Philosophus. L’ultima, dei Philosophi.
Per l’ennesima volta Obito si ripeté che no, questo, un reazionario,
non lo avrebbe mai potuto fare.
“Dunque il tuo Nomen è Kushina.” sussurrò l’anziana Sakura.
Quella annuì, senza spostare il pugno dal petto.
Gli altri tre non fiatavano, scrutando le due.
“Dimmi, Kushina.” Il tono dell’anziana Sakura era leggerissimo, ma
greve. Non lo aveva mi usato con lui – pensò Minato. Beh, lui non era mai stato
un reazionario, se era per quello. “Dimmi, sai dove ti trovi?”
“No.” Rispose la bambina, dritta, immobile. “Forse alle palazzine
mediche.” Osò.
Aveva senso, si disse Obito. Se fosse stata un’allieva del Ludus –
si corresse.
“Non ci troviamo alle palazzine mediche, Kushina. Siamo lontani da
dove credi di trovarti.”
La bambina accettò liberamente la notizia.
“Lo sai perché ti trovi qui?”
“No.” Rispose nuovamente la bambina. “So che non sono stata bene.”
“Non sei al Ludus.”
Kushina annuì, senza mai interrompere il contatto visivo con la
donna.
Minato, sconcertato, la fissava con tanta intensità da aver
scordato di sbattere le palpebre. Cercò prima la madre, e poi Obito, con gli
occhi ancora fissi, e d’un tratto decise di sgattaiolare verso il cugino.
Fece solo qualche passo silenzioso: Kushina gli lanciò una rapida
ma folgorante occhiataccia.
Cosa. Stai. Facendo.
Minato si paralizzò: come faceva ad averlo visto, se fissava la
bisnonna dritto negli occhi?
“Sei a Folii Pagus.” Continuò l’anziana Sakura, dopo una debita e
ben calibrata pausa. “Ma il nome che ha non è questo, adesso.”
Kushina corrugò la fronte.
“Kushina.” la richiamò, ottenendo nuovamente tutta la sua
attenzione: la mente della bambina, si era visto, aveva vagato per un istante
nel comprendere il significato di quell’affermazione – ma non appena la
Philosophus aveva pronunciato il suo nome, si era bloccata. Ed era tornata,
quieta, ad ascoltare le sue parole – avida. Avida di sapere, ma non tanto
Agricola da chiederlo esplicitamente.
“Non tornerai all’altipiano del Ludus per un po’. Resterai qui, fra
i Mercanti, gli Agricola, e tutti coloro che non sono Custodes o Philosophi.
Così è.”
Kushina, sotto lo sguardo sconvolto di Minato, annuì. “Sì.”
“Lei è Mebuki, ora sei sotto la sua tutela. Lui è Obito – in
assenza di Mebuki, sarà il tuo riferimento. Non fare nulla contro il loro
consenso.”
“Sì.”
“Questo ti permetterà di rimettere piede al Ludus nel modo più
giusto.”
“Sì.”
“E questa sarà l’ultima volta – fino a nuovo ordine – in cui eseguirai
il saluto dei Custodes. Qui, di Custodes, non ce ne sono. Non c’è nessun altro,
oltre a me, da salutare – a me, di saluto, ne basterà uno per sempre.”
E prima che Kushina potesse realizzare che invece, qualcuno, in
quella stanza – più volte, sino ad allora – il Saluto lo aveva usato, Sakura
sfiatò: “Ignis Regionibus.”
“Patriae Frates! Fati Fratres!”
____
NDA
(ma la commozione di vedere gente che ancora legge, dopo
anni e anni – non so descriverla. Grazie çOç )
Kimmy