Capitolo
19.
NON
POSSO.
Pov Akito.
Versai altra tequila nel mio bicchiere. Guardai il
liquido scendere lentamente dalla bottiglia e riversarsi, altrettanto
lentamente, nel bicchiere di cristallo che avevo tra le mani.
Non
bevevo tequila, di solito. Preferivo cose come il whisky o la grappa,
ma era stata la prima cosa che Tsuyoshi era riuscito a procurarmi.
La stanza d'albergo in cui alloggiavo era bellissima, dormivo
in un letto a baldacchino, come lo avevo sempre desiderato da
bambino, le cameriere ripulivano la stanza ogni mattina, mentre io
scendevo al bar, e la sera mi portavano la cena in camera, come se
fossi un super ospite.
Cosa si può fare con i soldi… cosa si
fa per i soldi.
Tante cose. Persino distruggere la vita di
qualcun altro, come quella ragazza aveva distrutto la mia.
Non
riuscivo nemmeno più a nominarla. Il solo pensare a lei mi
provocava
conati di vomito, e non era solo la tequila ad aiutare il tutto. Ogni
volta che davanti ai miei occhi arrivava l'immagine di lei,
falsamente distrutta per quello che ci era capitato, che mi era
capitato, provavo un senso di disgusto che mai avevo sperimentato
nella vita.
Stare con lei mi aveva portato a provare emozioni
che mai mi sarei sognato di vivere: la gioia, pura, quella che ti
parte dal cuore e arriva alla più piccola particella del tuo
corpo;
la paura, di poterla perdere e di poter distruggere il nostro
rapporto; la rabbia, per non essere riuscito a preservare i nostri
sentimenti puri come sono sempre stati; infine l'odio, che non avrei
mai pensato di indirizzare alla ragazzina che avevo amato dalla
quinta elementare, ma che in quel momento mi stava distruggendo da
dentro. Sentivo il mio corpo bruciare a causa dell'odio che lei mi
aveva costretto a provare.
Fino a una settimana prima ero un
papà. O, almeno, stavo quasi per diventarlo. Oggi non sono
niente.
Né un marito, ne un papà, ne un uomo. Non sono
nessuno.
Mi
ci erano voluti due giorni per realizzare esattamente cosa fosse
successo. Mi ci erano voluti due giorni per capire che la mia bambina
era morta e che quella ragazza non aveva alcuna intenzione di
affrontare il lutto con me, suo marito, ma dietro a qualche macchina
fotografica mentre si muove dentro a quei maledetti costumi da bagno
che tutti vogliono vederle addosso.
Non aveva voluto più stare
con me. Un figlio avrebbe potuto rovinarle la carriera. Non aveva mai
voluto quella bambina. Lei l'aveva uccisa. E io l'avevo lasciata
fare, credendo veramente che avrebbe potuto amare qualcun altro oltre
a se stessa. Come avevo potuto essere così stupido? Come
avevo
potuto cadere nel tranello ancora e ancora per oltre dieci anni?
Eppure mi reputavo una persona abbastanza intelligente. Non un
genio, ovviamente, ma nella media. E non ero riuscito a capire nulla.
Ero ormai al sesto o ottavo bicchiere, non ero riuscito più
a
contarli dal quarto almeno, e non ero in grado di alzarmi dal divano
e arrivare al bagno.
Ci provai ugualmente. Nel tragitto pensai
a quanto dovessi sembrare patetico in quel momento, a quanto dolore
questa vita aveva riservato per una persona sola, a mia figlia e a
quanto sarebbe stata bella e felice se solo avesse avuto la
possibilità di nascere e, per la prima volta dopo una
settimana,
permisi a me stesso di crollare. Caddi sul pavimento, non reggendomi
più in piedi, non per il troppo bere – che
comunque aveva dato il
suo contributo – ma perché la mia anima si era
appena
definitivamente distrutta. Non mi importava più di vivere o
morire.
L'unica cosa che mi importava era che tutto quel dolore andasse via
perché, per quanto mi riguardava, ne avevo avuto abbastanza
anche
per la prossima vita.
*
Qualcuno stava
bussando, ma avrebbe potuto bussare per il resto della sua vita, non
era nemmeno contemplabile l'idea che io riuscissi a reggermi in
piedi.
Cercai di mettere forza sulle braccia e tirarmi su dal
pavimento della mia magnifica stanza al quarantaduesimo piano di un
hotel di cui non ricordavo nemmeno il nome, per arrivare a quella
dannatissima porta che non faceva altro che martellare dentro la mia
testa. Misi un piede dietro l'altro e, con fatica, arrivai alla
porta. Non l'avessi mai fatto. “Akito, devi vestirti, uscire
da
questa stanza e smetterla di comportarti così.”
Mia sorella
mise piede in camera prima ancora che potessi fermarla, la sua
riabilitazione ormai aveva fatto miracoli ed era tornata a
rincorrermi come faceva un tempo. Non sapevo se considerarla una cosa
positiva o una maledizione in quel momento.
Chiusi la porta
alle sue spalle, tornando a prendere il bicchiere completamente vuoto
dal pavimento per versarci altra tequila. Più tequila
avrebbe
sistemato tutto.
“Va via, Nat. Non voglio vedere
nessuno.”
Natsumi si piazzò davanti a me, mi rubò il
bicchiere dalle mani e si scolò l'intero contenuto proprio
di fronte
ai miei occhi, senza battere ciglio. “Ti ho appena detto di
vestirti. Usciamo.”
Mi trascinò fuori da quella stanza in
meno di mezz'ora. Non sapevo dove stavamo andando, ma sapere che
c'era mia sorella con me rendeva le cose molto più semplici.
Almeno
per un po'.
Pov Sana.
Tentavo di non mettermi
ad urlare di fronte a Rei che, minuziosamente, cercava di spiegarmi
il programma della giornata.
Erano ormai tre giorni che eravamo
a Nagoya e quello stesso giorno avrei preso un aereo che mi avrebbe
portato a Fukuoka. La mia vita era diventata un continuo andare su e
giù per il paese per la promozione di questo film.
Non facevo
altro che sorridere e fingere che quello che avevo vissuto negli
ultimi giorni non fosse stato un inferno. Nessuno sapeva. Avevamo
fatto in modo di non far trapelare nessuna notizia ne della mia
gravidanza e del mio aborto.
Ancora mi sembrava strano dire
quella parola. Aborto. Era una parola semplice, una cosa che accada a
migliaia di donne. Ma tutte loro vivevano il dramma che stavo vivendo
io? Quella sensazione di sentirsi strappare il cuore dal petto ad
ogni respiro. Quella voglia di chiudersi in una camera e non uscirne
mai più. Non sapevo come affrontare quel vuoto. La mancanza
di Akito
non aiutava di certo. Almeno a lui era rimasto l'odio.
A
me cosa era rimasto?
Niente. Non avevo più mia figlia. Non
avevo più l'amore della mia vita. Non avevo più
nulla.
Guardavo
fuori dal finestrino, cercavo di trovare una nota positiva in tutto
quel grigio di cui la mia vita si era colorata.
“Sana?”.
Non
ero in grado di trovarla. Non c'era. Strinsi la borsetta tra le mani,
cercando un modo per distrarmi.
“Sana?”
Non esisteva
un modo per distrarmi. Come potevo distrarmi dalla mia vita che
andava in pezzi?
Sentivo che sarei potuta crollare da un momento
all'altro, mandare tutto all'aria, scappare da quella città
e
tornare da Akito. Ma non potevo. Non che non lo volessi, era forse la
cosa che più desideravo al mondo, ma condannarlo ad una vita
di
rinunce, solo per colpa mia, non era giusto.
“Sana?”
Improvvisamente mi ridestai dai miei pensieri, troppi in quei
giorni, e diedi ascolto a Rei che tentava di spiegarmi il programma
dei prossimi giorni.
Non avevo molta voglia di sentire tutte
quelle banalità, ma lo feci comunque perché non
volevo deludere
anche la mia famiglia come avevo deluso Akito. Non volevo
più
deludere nessuno.
Saremmo partiti il giorno dopo per Morioka e
poi, da lì, avremmo preso un volo per New York dove sarebbe
iniziato
il tour mondiale per la promozione del film.
Ero così stanca.
Desideravo così tanto tornare a casa mia e allo stesso tempo
era
l'ultima cosa che volevo al mondo. Mi sembrava di essere spezzata in
due, in ogni senso e circostanza, perché non ero capace di
vivere
una menzogna, non sapevo come conciliare l'enorme vuoto che provavo
al centro del cuore con quella vita sorridente e felice che dovevo
vivere. Dovevo resistere, in ogni caso. Era il mio lavoro l'unica
cosa che mi separava dall'impazzire e non potevo perdere anche
quello.
“Sei sicura di voler continuare con il tour? Possiamo
tornare a casa anche oggi se vuoi, e mandare all'aria tutto, se non
stai bene.”
Le parole di Rei risuonarono nella mia testa come
un eco. Avrei potuto lasciare tutto e, per la prima volta nella mia
vita d'attrice, era lui stesso a dirmelo, lui a consigliarmi di non
tirare troppo la corda perché avrebbe potuto spezzarsi.
Ma
lasciare tutto avrebbe significato tornare a casa e affrontare Akito.
Natsumi mi aveva detto che non stava più a casa nostra, che
aveva
preso una camera d'albergo due giorni dopo la mia partenza e non era
più uscito da lì. Mi aveva raccontato che aveva
distrutto tutto,
come fa sempre quando è furioso. La sua macchina, tutte le
cose che
avevamo comprato per la bambina, i giocattoli, i pupazzi. Aveva
raschiato via a forza un ricordo troppo doloroso.
Non volevo
essere lì mentre Akito si autodistruggeva per causa mia.
“No,
Rei, va tutto bene. Non preoccuparti per me.”
“Mi
preoccupo, invece. Non spingere troppo, bambina, non voglio vederti
crollare all'improvviso. Potresti prenderti una vacanza, lontano dai
riflettori...”
“Non ho bisogno di una vacanza. Ho bisogno
di lavorare, di non pensare e di andare avanti con la mia
vita.”
Rei non rispose, si limitò a continuare a guidare e anche io
rimasi in silenzio per tutto il tempo restante fino al nostro arrivo
in albergo.
*
Mi trascinai in camera mia,
chiedendo a Rei di chiamarmi solo per cose urgenti, presi il mio
cellulare e mi sdraiai a letto.
Non dovevo farlo, eppure ne
sentivo il bisogno. Afferrai il telefono dell'albergo e composi il
suo numero.
Volevo disperatamente sentire la sua voce.
Il
telefono squillò almeno cinque, sei volte, ma non rispose.
Non
riattaccai, quel suono mi rilassava perché era comunque un
contatto
con lui.
Quando ormai mi stavo rassegnando la sua voce riempì
la mia testa. “Pronto?”
Cercai di parlare, ma dalla mia
bocca non uscì nemmeno un suono. E forse fu meglio
così.
“Pronto?”
ripeté Akito.
Continuai a stare in silenzio, ad ascoltarlo
respirare, poi attaccai.
Rimasi immobile, apatica, incapace di
dire una parola o di provare qualsiasi tipo di emozione,
perché non
ero più in grado di entrare in contatto con quella profonda
parte di
me che amava Akito. Sapevo che mi avrebbe fatto male, che sarei
sprofondata nuovamente in quel baratro da cui avevo solo fatto finta
di uscire, ma non era facile lasciare indietro quella Sana felice e
soprattutto quell'Akito felice.
Nel buio della mia stanza
d'albergo, a chilometri di distanza da Akito e da quella vita che mi
ero lasciata alle spalle, non era facile respirare. Il peso che
costantemente sentivo sul petto si fece più grande, mi
schiacciò
con forza e non resistetti più.
Scoppiai in lacrime e,
cercando di non urlare per il dolore, presi il cuscino e me lo portai
alla faccia.
Era finita, io e Akito avevamo perso tutto, e io
non volevo più vivere in quel modo.
Non volevo più vivere
affatto.
Pov
Akito.
Io e Natsumi passeggiavamo da almeno un'ora, in
silenzio, nel parco che si trovava vicino al mio albergo. Non avevamo
bisogno di parlare, io non volevo essere consolato o sentire le
solite parole di circostanza perché non sarebbero servite a
farmi
ritrovare la serenità. Cosa poteva dirmi per farmi sentire
meglio?
Che la ragazza che era stata al mio fianco da praticamente tutta la
mia vita non voleva farmi del male e che il suo aborto era stato un
caso frutto della sfortuna? Che non era giusto distruggermi in quel
modo? Che dovevo tornare a vivere? Cosa poteva dirmi?
La
risposta era impossibile da trovare perché non c'era niente
che
potesse cambiare la realtà dei fatti.
Quella ragazza mi aveva
rovinato la vita e io ero stato così stupido da
lasciarglielo fare.
"L'hai sentita?"
Scossi la testa. "Credo
sia troppo impegnata con la promozione del film anche solo per
discutere i termini del divorzio."
Mia sorella si bloccò
improvvisamente, lanciandomi un'occhiata stupita. "Aspetta un
secondo! Divorzio? Siamo già così nella merda?"
Natsumi
non era solita parlare in quel modo, per questo fui veramente
sorpreso di sentire quelle parole uscire dalla sua bocca ma,
effettivamente, l'occasione richiedeva un po' di
drammaticità e
quelle espressioni erano abbastanza coerenti.
"Si, Nat.
Non accetterò mai e poi mai che lei abbia scelto la sua
carriera
invece che la nostra famiglia, invece che sua figlia. Non dopo averla
persa. Non così."
Le parole mi uscirono così velocemente
che non riuscii a contenerle. Prima era difficile parlare con
Natsumi, invece in quel momento mi sembrò la cosa
più naturale del
mondo.
"Akito... vieni qui." Disse guidandomi verso
una panchina vicino a noi. Dopo esserci seduti, riprese a parlare.
"Come puoi pensare che Sana abbia scelto la sua carriera invece
che la bambina?"
"Lei mi ha detto questo, non vuole
avere altri figli perché teme ripercussioni sulla sua vita
artistica. Io non posso obbligarla, ma permettimi almeno di odiarla."
Sospirai, sfinito da quel discorso e da quel dolore.
"Con
la bocca si possono dire tante cose, Aki.
Ma gli occhi non mentono. Anche se Sana è un'attrice, non
posso
credere che tu non abbia visto un briciolo di sofferenza nei suoi
occhi."
Ripensai a quella sera, lei a letto che mi dice di
non aver mai voluto quella gravidanza. Io che urlo. Lei che rimane
impassibile.
Era un'assurdità.
"Akito, Sana non ha
esitato a lasciare la sua carriera, l'università, la sua
vita per
prendersi cura di Kaori, mia figlia, trattandola come se fosse sua.
Era pronta a diventare sua madre se io non mi fossi svegliata mai
più. Come puoi pensare anche solo lontanamente che abbia
causato lei
stessa l'aborto o, peggio, che non volesse altri figli solo per il
suo lavoro?
Lei è una delle mie più care amiche, ti
è stata
accanto, ti ha sposato, per Dio! Non puoi credere veramente a cosa ti
ha detto!"
Rimasi immobile, ascoltando mia sorella che mi
urlava contro, e magari aveva ragione, ma lei non c'era quella sera.
Non aveva visto Sana scacciarmi, trattarmi come l'ultima
persona sulla faccia della terra che potesse amare, scegliere
qualcos'altro a me e a sua figlia, non aveva visto quanto dolore
avevo provato e non aveva sentito il mio cuore spezzarsi proprio in
quell'istante.
"Non lo so, Nat. Non posso dire che tu
abbia completamente torto, ma non hai idea dello sguardo che aveva
mentre mi diceva che non voleva più stare con me."
Mia
sorella si alzò, portandosi le mani alla testa come se
stesse
impazzendo. "Ma ci deve essere qualcosa sotto, Akito! Non è
possibile, mi rifiuto di crederlo!"
"Basta Natsumi,
basta. Lei ha preso la sua scelta, io la mia. Non so se c'è
qualcosa
sotto, non mi interessa nemmeno saperlo, se non ha voluto
condividerla con me e se non ha cercato di superarla con me
evidentemente non mi amava come diceva. Quindi, ti prego, smettila di
difenderla, di ripetermi continuamente le stesse cose. Io sono
stanco, sono distrutto, e non voglio sapere più nulla di
lei."
Mi alzai da quella panchina e cominciai a correre, lasciandomi
alle spalle le urla di mia sorella che mi chiedeva di fermarmi, i
rumori di una città che avrei volentieri abbandonato in
quell'istante, le occhiate della gente che non sapeva nulla, non
conosceva la mia storia o ciò che provavo. Mi lasciai alle
spalle
quel momento, quella sofferenza, quel desiderio di lasciarmi andare
che non mi lasciava in pace nemmeno per un attimo e corsi. Corsi
più
forte che potevo, spezzandomi il fiato, rischiando di farmi male
perché non lo facevo da molto tempo, sudando come mai prima
di quel
momento e fregandomene della pioggia che aveva cominciato a bagnarmi
il viso.
L'universo continuò a prendersi gioco di me,
perché
mi ritrovai senza nemmeno sapere come, al gazebo. Sotto quel piccolo
tetto, che mi aveva fatto da casa durante molte cene passate da solo,
immaginando una grande tavola e la mia famiglia attorno ad essa,
finché lei non mi aveva fatto vedere che poteva esserci di
più di
un gazebo, che potevo avere di più, sentii che le forze mi
venivano
meno. Urlai con tutta la forza che avevo in corpo, urlai per
liberarmi da quel dolore dilaniante, perché non sapevo
più come si
parlava senza gridare, perché era l'unico modo che trovavo
per non
impazzire, anche se forse non avevo fatto un buon lavoro.
Improvvisamente il mio telefono squillò, risposi senza
nemmeno
guardare il mittente.
"Pronto?". Ascoltando la mia
voce sentii immediatamente che sembravo davvero sconvolto.
Dall'altro lato non parlò nessuno, solo qualche respiro ogni
tanto, ma avevo memorizzato anche quello di lei. Il suono del suo
respiro.
"Pronto?" Ripetei, sperando che parlasse,
che mi chiedesse di poter tornare, che mi pregasse di perdonarla
perché avrei fatto qualsiasi cosa se lei me l'avesse
chiesto, che mi
dicesse anche solo una parola... sarebbe stata sufficiente.
Ma
lei non disse nulla. Allora anche io rimasi in silenzio, per almeno
due minuti ascoltammo l'uno il respiro dell'altro finché lei
non
attaccò.
Avrei potuto dire e fare qualsiasi cosa, avrei potuto
arrabbiarmi, distruggere tutto quello che mi capitava a tiro, urlarle
che la odiavo, ma la verità era che se Sana fosse stata con
me in
quel momento non avrei saputo far altro che abbracciarla.
Non
ragionavo quando si trattava di lei, e a volte quel sentimento mi era
sembrata una condanna, altre volte una benedizione.
In quel
momento mi sembrò la cosa più pericolosa che
potessi tenere dentro
me, perché non solo mi aveva tolto tutto, ma mi aveva anche
privato
di me stesso.
Cosa poteva esserci di peggio?
Cinque
mesi dopo.
Pov Sana.
Tornare a casa era stata una
tortura, ma necessaria. Non potevo trattenermi ancora all'estero,
come il mio lavoro mi aveva condotta oltreoceano così mi
aveva
prepotentemente riportato in patria, facendo tornare con me i
ricordi.
Non mi ero permessa spesso di pensarci, dopo la
telefonata in piena notte che gli avevo fatto non ero più
riuscita a
sentire la sua voce. Avevo ascoltato tantissimi suoi messaggi in
segreteria, piangendo fino ad addormentarmi, poi avevo smesso. Non
perché non lo amassi più o non sentissi
più la sua mancanza, ma
perché mi stavo consumando fisicamente. Avevo smesso di
mangiare,
ero dimagrita così tanto che i giornali avevano cominciato a
parlare
di me come anoressica, facendo congetture sul fatto che non si
vedesse più nessuna foto mia e di Akito. Era stato
difficile. Lo era
ancora, ma non potevo più permettermi di vivere in quel
modo. Non
sarebbe stato giusto per nessuno, per Rei e per mia madre
soprattutto, che contavano su di me, che mi amavano nonostante tutto
e che non meritavano di guardarmi mentre mi lasciavo morire.
Perciò
avevo raccolto tutta la forza che mi era rimasta, poca ma comunque
presente, e mi ero rialzata. Con fatica, grandissima fatica, avevo
scelto di vivere, anche se avesse significato vivere in un modo
totalmente diverso da come mi sarei aspettata e da come avrei voluto.
Erano passati pochi giorni da quando ero tornata a casa,
ritrovarmi di nuovo in camera mia, soprattutto da sola, non era stato
semplice e vedere ciò che Akito aveva lasciato dietro di se
era
stato anche peggio. La stanza della bambina era stata completamente
distrutta, con una mazza presumo, e per terra c'erano anche delle
piccole tracce di sangue, quindi doveva essersi ferito.
Avevo
buttato tutto, stando attenta a non tralasciare nulla, per non dover
tornare lì e immaginare di nuovo quei momenti. La sua parte
d'armadio era vuota, e la sua parte di letto troppo fredda. Sul
comodino c'era il libro che gli avevo regalato per la festa del
papà.
Non perché fosse chissà quanto importante, ma
vederlo in libreria
mi aveva fatto pensare ad un modo scherzoso per festeggiare per la
prima volta quella ricorrenza.
Avevamo riso tanto quel giorno,
pensando che l'anno dopo avremmo festeggiato con un bambino che
scorrazzava per casa.
Non era andata così.
In attesa che
le ragazze di servizio dessero una pulita, uscii di casa e mi diressi
al supermercato visto che le uniche cose che avevo in frigo erano
yogurt andato a male e due bottiglie d'acqua, nessuna delle due
piena. Camminavo tra gli scaffali in cerca della salsa di soia
perché
quella sera avevo intenzione di cucinare tonno scottato e di condirlo
con un po' di salsa. Non avevo la cuoca personale, purtroppo, e per
la maggior parte delle volte era Akito a cucinare, quindi dovevo
arrangiarmi in qualche modo.
Andavo avanti e indietro per il
reparto sughi pronti e condimenti finché non mi resi conto
di
esserci passata davanti per lo meno tre volte. Mi alzai sulle punte
per raggiungere lo scaffale ma, nello stesso momento in cui la stavo
per afferrare, una mano più grande della mia fece lo stesso.
Quando
abbassai lo sguardo per sorridere di quel gesto maldestro da parte di
entrambi, ciò che vidi mi lasciò senza respiro.
"Sei
tornata." Fu tutto quello che riuscì a dirmi.
Akito era
di fronte a me, stringevamo entrambi quella bottiglia di salsa, le
nostre dita si sfioravano appena eppure sentii in quel contatto
un'urgenza che mi era mancata in quei cinque mesi.
Riuscii solo
ad annuire. Poi deglutii e cominciai a parlare. "Da cinque
giorni." Risposi senza distogliere lo sguardo dal suo.
Anche
lui era più magro, si era tagliato i capelli e i suoi occhi
sembravano di porcellana, come se ci si potesse vedere attraverso.
Aveva sofferto, ne ero certa, così come avevo sofferto io.
Forse non
era giusto condannarci a quella tortura, ma a lui prima o poi sarebbe
passata, avrebbe trovato una donna in grado di dargli una famiglia e
di renderlo felice. Lei gli avrebbe dato ciò che io non
potevo più
dargli.
"Come stai?" Gli chiesi, di riflesso alle
miliardi di volte in cui quella frase significava ancora qualcosa.
Akito fece una smorfia, lasciò nelle mie mani la bottiglia e
fece un passo indietro. "Benissimo, non si vede? A proposito,
ora che la grande star ha fatto ritorno a casa potremmo discutere
della questione divorzio? Mi servirebbe il numero del tuo avvocato
così da farlo contattare dal mio, se non ti dispiace."
Rimasi
di stucco nel sentire quelle parole, ma alla fine non dovevo
sorprendermi così tanto. Akito mi odiava, io lo avevo
portato a
provare quel sentimento ed era naturale che volesse lasciarmi anche
legalmente il più presto possibile. Infondo erano cinque
mesi che
eravamo lontani, non una settimana, quindi immaginai fosse la cosa
più sensata da fare. Gli avrei restituito la sua vita.
"Non...
non ho ancora richiesto l'inizio delle pratiche, ma ti farò
contattare." Dissi cercando di non piangere.
"Wow, e
io che pensavo che fossi già pronta per firmare le carte. Va
bene,
Kurata. Stammi bene."
Detto ciò si voltò e trascinò il
carrello e la sua energia negativa lontano da me.
Rimasi ferma
per almeno qualche secondo, incapace di muovermi, con quella
bottiglia tra le mani e il gelo nel cuore.
Ero stata io a
costringerlo a quello, io avevo voluto che mi odiasse, che smettesse
di amarmi.
Ma allora perché la parola divorzio mi stava
facendo mancare la terra sotto ai piedi?
Pov
Akito.
Uscii dal supermercato con un senso di soffocamento che
non avevo mai provato. Mi sentivo come in quei film in cui le pareti
di una stanza sembrano avvicinarsi fino a schiacciarti, solo che io
non venivo distrutto dalle mura bensì da quella donna. Era
lei che
mi uccideva, che rideva di me mentre cercavo una boccata di aria
pulita in un luogo completamente chiuso. Aveva un aspetto diverso,
meno curato ed era molto più magra. Le avevo guardato il
collo e,
nonostante fossero visibili anche prima, le ossa delle clavicole
erano come degli spigoli sotto la sua pelle.
Mi aveva chiesto
come stavo. Che sfacciata. Stavo male, ma mi ero buttato a capofitto
sul mio lavoro, sulle lezioni e sulle gare, che vincevo una dopo
l'altra, e avevo tentato disperatamente di non pensare a lei.
Era
difficile comunque, ma adesso che era tornata sarebbe stato anche
peggio. In più a breve avremmo dovuto partecipare al
matrimonio di
Tsuyoshi e Aya e, sicuramente, lei sarebbe stata la testimone, il che
significava che me la sarei ritrovata sempre accanto. Non sapevo se
sarei stato in grado di affrontare una giornata del genere, guardarla
sorridere, magari accanto al suo accompagnatore – anche se
non
pensavo che avrebbe avuto la faccia tosta di presentarsi con qualcuno
– e forse anche ballare con qualcuno, non curandosi
minimamente di
chi la guarda alle sue spalle. Avrei voluto poter evitare quella
tortura, ma era il matrimonio del mio migliore amico e non potevo
mancare, non per lei.
Avevo lasciato l'albergo e mi ero
trasferito di nuovo a casa di mio padre, ma era una sistemazione
temporanea. Comunque ero felice di poter passare più tempo
con mia
nipote, che era diventata una bambina veramente dispettosa –
mi
domando da chi abbia potuto prendere quella caratteristica, se non
per osmosi da Sana – e soprattutto con mio padre che era
uscito
molto provato dalla storia di Natsumi ed era diventato ansioso e
paranoico. Cercavo di rasserenarlo ogni volta che potevo, ma non era
facile per me mettere a posto il casino che era diventata la mia vita
e occuparmi di lui contemporaneamente. Per fortuna c'era Natsumi a
darmi una mano e, praticamente come non avevamo mai fatto, ci
sostenevamo a vicenda. Era bello avere Natsumi, mi dava la sensazione
di poter affrontare qualsiasi cosa, anche se non era esattamente
così.
Non mi sentivo in grado di fronteggiare niente in quel
preciso istante, eppure era arrivata al momento. Tornai a casa il
più
velocemente possibile e, senza dire niente, salii le scale e mi
chiusi in camera mia. Mi sentii di nuovo quel bambino di dodici anni
che non riusciva a sopportare l'idea che Sana recitasse con quel
damerino di Kamura.
“Cos'è successo?”. Natsumi
entrò in
camera mia e chiuse la porta alle sue spalle. Benissimo, adesso ero
diventato la sua amichetta del cuore e avrei dovuto raccontarle tutti
i miei segreti.
“Non ne voglio parlare, Nat. Ti prego,
lasciami in pace.”
“So che Sana è tornata.” disse lei,
mentre faceva le giravolte nella sedia della scrivania.
“Bene,
allora mi risparmi la fatica. Ora vattene Natsumi, voglio rimanere da
solo.”
Mia sorella non se lo fece dire una terza volta, si
alzò dalla sedia e uscì dalla camera.
Dieci secondi dopo ero
fuori anche io, con la tuta e le cuffie nelle orecchie,
perché non
volevo sentire nulla, né i rumori della città
né quelli del mio
cervello. C'era troppa confusione dentro di me, troppo affollamento
di pensieri, di ansie e paure che non riuscivo a debellare.
Dovevo
correre. Correre verso di lei, anche se lei non era più la
ragazza
che avevo amato per tutta la mia vita. Era solo il riflesso di lei,
una sagoma vuota che aveva cancellato tutto ciò che di bello
avevamo
vissuto.
Lei non era più la mia Sana.
Era solo Sana
Kurata.
Pov
Sana.
Camminavo
per le strade della mia città come se mi fossi trovata in un
luogo
sconosciuto. Tutto mi era familiare, ma non mi sentivo più a
casa.
Avrei saputo descrivere ogni particolare, ma solo con la mente, non
ero più in grado di vederlo con il cuore.
Durante i mesi in
tour avevo sviluppato quella strana abitudine – strana per
me,
visto che ero sempre stata una pigra cronica – di fare una
passeggiata la sera. Mi rilassava vedere le città nel loro
momento
di calma, mi faceva sentire ancora padrona di qualcosa. Ormai non lo
ero più di nulla, nemmeno di me stessa. Sarebbe stato facile
essere
di nuovo felice: avrei potuto dire ad Akito che avevo inventato
tutto, che lo avevo fatto per non farlo soffrire ma sarebbe stato il
gesto più egoista da fare. Non era la vita che lui volevo,
accanto a
qualcuno che lo avrebbe privato di una parte fondamentale del
matrimonio.
Chi ero io per fargli questo?
L'unico modo per
rendere Akito felice era tenerlo lontano da me, e lo avrei fatto.
Quell'opzione sarebbe stata alquanto difficile se avessimo
continuato ad incontrarci ovunque. “Due volte in un giorno,
sono
proprio una donna fortunata.” dissi quando lo vidi correre al
mio
fianco. Non potevo stare con lui, ma se volevamo sopravvivere indenni
al matrimonio di Aya e Tsuyoshi avremmo dovuto almeno non urlarci
contro ad ogni conversazione. Poi avremmo potuto anche non vederci
più, ma lo dovevo ad Aya. Era la mia migliore amica e non
potevo
rovinarle il giorno più importante della sua vita.
Akito mi
rivolse uno sguardo quasi disgustato, poi si tolse una cuffietta
dall'orecchio. “Non immagini quanto sia fortunato
io.”
“Aspetta.” Stava per andarsene quando lo fermai,
trattenendolo per un braccio. “Ti prego, resta.
Non… devo dirti
una cosa.”
Si piazzò davanti a me con le braccia incrociate,
fingendo di ascoltarmi.
“Non voglio che tra di noi ci sia…
questo.” indicai lo spazio, troppo grande, che ci separava.
“E
cosa vorresti che ci fosse? Io non voglio sapere nulla di te. E ora
se non ti dispiace...”. Fece per andarsene, ma lo bloccai di
nuovo. Le lacrime lottavano per uscire, tentai invano di trattenerle.
“Non avrei mai voluto tutto questo. Lo sai, vero?”
Akito
abbassò lo sguardo, sciolse le braccia, si
avvicinò a me. Il cuore
mi scoppiava. “Non l'ho scelto io. Ora è il
momento di pagarne le
conseguenze.”
Detto ciò si rimise le cuffie e tornò alla
sua corsa. In poco più di due minuti aveva trovato il
coraggio di
distruggermi di nuovo.
Ma in fondo non potevo pretendere
diversamente.
Pov
Akito.
Frugavo
da giorni nel mio armadio alla ricerca di un mio vecchio kimono, ma i
risultati erano piuttosto scarsi.
Kiroji, un bambino a cui
insegnavo in palestra, non aveva la possibilità di comprarne
uno
nuovo, visto che il suo si era strappato durante un incontro, e avevo
pensato di regalargli il mio che, anche se non era nuovissimo, poteva
ancora andar bene fino alla fine delle competizioni.
Avevo
cercato ovunque e, puntualmente, cercavo di scacciare quella vocina
che mi diceva che potesse essere a casa sua. Non volevo chiamarla per
poter controllare ne volevo trovarla lì quando ci sarei
andato,
quindi verso le dieci uscii da casa mia per andare da lei, per
controllare se fosse in casa o no. Avevo ancora una copia delle
chiavi di casa, quindi non avevo bisogno che ci fosse lei, ma la
paura di incontrarla era come un mostro che mi stava col fiato sul
collo costantemente. Temevo di combinare qualche casino con lei
attorno e la mia testa non era in grado di interiorizzare altri
problemi.
Fuori la sua macchina non c'era, quindi via libera.
Parcheggiai e presi le chiavi dalla tasca, per poi entrare in casa.
Entrarci di nuovo mi fece mancare il fiato. Era tutto buio e
non mi preoccupai di accendere le luci, visto che dovevo rimanerci
per poco più di cinque minuti. Guardai alla mia sinistra e
la camera
della bambina era proprio lì, a fissarmi, completamente
vuota se non
per qualche scatola qui e lì. Percorsi il corridoio e mi
diressi
verso la stanza da letto per prendere ciò che mi serviva.
Nella
fretta avevo lasciato molte cose lì, me ne resi conto solo
quando,
aprendo l'armadio, trovai una serie di mie magliette e anche un paio
di scarpe. Cominciai a frugare tra la mia roba, ma del kimono neanche
l'ombra. Dove cavolo l'avevo messo?
Mi voltai per cercare un
borsone dove mettere le cose che avevo trovato e, improvvisamente,
sentii un fortissimo dolore al naso e, portandomi le mani al viso,
caddi a terra.
“Ho chiamato la polizia, se non te ne vai
subito ti spacco la testa!”. Sana continuava ad urlare,
dimenando
il mattarello che aveva tra le mani. Mi aveva colpito così
forte che
il sangue cominciò ad uscirmi dal naso, e non riuscivo a
fermarlo.
“Sono...” Tentai di parlare, ma il sangue mi era
finito in
bocca e per poco non vomitai. “Sono io, Sana…
fer… ferma!”
riuscii a dire infine, alzandomi in piedi e afferrandole il polso,
cercando di fermarla.
Lei corse ad accendere la luce, mi guardò
stupita e poi mi colpì un'altra volta sulla testa, meno
violentemente stavolta. “Cosa diavolo ti è venuto
in mente? Volevi
farmi venire un infarto? Pensavo che fossi un ladro o
peggio!”. Mi
colpì di nuovo, e mi sembrò per un attimo di
essere tornato alle
elementari, quando usciva dalla tasca quel martelletto solo per
darmelo in testa.
“Sana, io mi starei dissanguando qui.”
dissi andando verso il bagno. Solo allora si rese conto che ero tutto
imbrattato di sangue e che non riuscivo neanche a parlare.
Gettò il
mattarello per terra e mi seguì. “Scusami! Cavolo,
ti ho colpito
proprio forte. Scusa, Aki.” disse, forse senza pensarci,
senza
dargli peso o forse per la forza dell'abitudine. Eppure sentirmi
chiamare in quel modo da lei, dopo tanto tempo che non le sentivo
più
pronunciare il mio nome era stato strano. Mi fermai per un attimo,
guardandola dritta negli occhi, poi continuai a lavarmi il
viso.
“Stai fermo, Akito. Prendo qualcosa per fermare il
sangue.”
Si allontanò un attimo e poi mi passò un po' di
carta igienica arrotolata e, per un attimo, smettemmo di essere
marito e moglie in rotta e tornammo quei due bambini di tanto tempo
prima. Scoppiammo a ridere insieme nel momento in cui mi mise quella
carta su per il naso. Era surreale, era forse la cosa più
inopportuna che sarebbe potuta capitarci, eppure il destino ormai
sceglieva per noi.
Mi fece sedere sul water, intimandomi di
nuovo di stare fermo. Volevo andarmene. Non ero pronto a starle
così
vicino.
“Che ci fai qui?”. Le sue domande arrivarono prima
ancora che pensassi ad un motivo valido da darle. Lei
sciacquò un
asciugamano e poi cominciò a passarmelo sul viso per
togliere le
macchie di sangue. “Non… non devi
farlo.” Cercai di
toglierglielo dalle mani, ma lei mi bloccò.
“Voglio farlo.”
Gli sguardi che ci scambiammo erano inequivocabili. Avrei
voluto così tanto baciarla… e sapevo che lo
voleva anche lei, ma
nessuno dei due si mosse di un millimetro.
“Quindi… perché
sei entrato in casa nost...” si bloccò
immediatamente prima di
dire di più. “Perché sei qui,
Akito?” concluse infine,
tagliando corto.
“Ho lasciato delle cose qui che mi
servivano.”
“E non potevi semplicemente chiedermele?”. Lo
chiese come se vederci fosse la cosa più normale del mondo,
come se
non ci fossimo distrutti a vicenda prima di quel preciso momento.
“Non ho visto l'auto fuori e ho pensato che sarebbe stato
meglio per noi evitare qualsiasi contatto.”
La guardavo dal
basso scrutare ogni singolo angolo del mio viso, come se non lo
conoscesse abbastanza, come una drogata in astinenza dall'eroina.
Tutto in lei mi faceva capire che mi amava. E allora perché
aveva
distrutto la mia vita?
“Ho dovuto prestare l'auto a Rei, la
sua aveva un problema al cambio. Avresti dovuto chiamarmi, potevo
farti trovare tutte le tue cose da Tsuyoshi se proprio non volevi
vedermi.” disse con la voce calma. Quella voce calma che mi
stava
facendo uscire di testa da cinque mesi, la stessa con cui mi aveva
cacciato dalla sua vita.
“Puoi biasimarmi per questo?”. Non
volevo chiederglielo davvero, le parole erano semplicemente uscite
dalla mia bocca senza il mio consenso.
Sana scosse la testa e
non disse più nulla. Rimanemmo in silenzio per un po',
finché lei
non mi ripulì la faccia da tutto il sangue. Quando mi disse
che
aveva finito restai lì, a guardarla mentre lei non si
allontanava.
Erano cinque mesi che non sentivo il suo profumo. Cinque mesi che la
sua immagine mi tormentava come il peggiore dei miei incubi.
“C'erano giorni in cui avrei voluto ucciderti...”
dissi
tutto d'un fiato, aspettandomi la sua solita reazione esasperata.
Invece non disse nulla per un po'.
“Forse avrebbe fatto meno
male di tutto questo.”
Non riuscivamo a staccarci l'uno
dall'altro, e non perché eravamo masochisti – o
forse io lo ero
almeno un po' - ma perché tra di noi c'era sempre stato quel
tacito
accordo.
Se
vuoi che io non dica nulla, non dirò nulla. Ma lascia che io
sia qui
per te.
E
avevamo mantenuto quell'accordo per tutti quegli anni.
Finché lei
non l'aveva tradito, tradendo me e i nostri sentimenti.
Improvvisamente l'atmosfera cambiò e Sana si
allontanò da me,
facendomi uscire da quello stato di trance in cui mi aveva
portato.
“Dovresti andare, Akito. Ti farò sapere quando non
sono in casa così potrai venire a prendere le tue
cose.”
Mi
alzai, senza toglierle gli occhi di dosso. Mi sentivo sporco a
volerla ancora. Ma l'avevo amata per tutta la mia vita, come potevo
pretendere che il mio cuore perdesse la memoria così, da un
momento
all'altro?
Mi sarei fatto uccidere per lei.
“Si…
vado.” dissi, dirigendomi verso la porta d'ingresso.
Da una
parte avevo paura che uscendo da lì non l'avrei
più rivista, che si
sarebbe smaterializzata davanti ai miei occhi, dall'altra speravo di
non vederla mai più, perché la sua presenza mi
dilaniava.
Mi
sentivo come se un coltello si spingesse sempre più a fondo
dentro
al mio petto.
Potevo sopportare tutto quello, ancora?
Uscii
da quella casa, che era diventata quella perché aveva smesso
di
essere anche mia, e quando la porta si chiuse sentii che anche dentro
me si stava chiudendo qualcosa.
Non ero certo di cosa fosse
esattamente, ma ero più che sicuro che quel qualcosa non mi
avrebbe
più permesso di amare qualcuno ed essere distrutto. Non
l'avrei più
permesso a nessuno.
Pov
Sana.
Cercai di non piangere. Cercai di non correre da lui nel
momento stesso in cui ebbe oltrepassato quella porta. Non potevo. Ero
riuscita a resistere per cinque mesi, potevo sopportare qualche altra
settimana.
Potevo davvero sopportarlo? Potevo impormi quella
tortura? Potevo davvero imporla ad entrambi?
Avevo scelto io
per entrambi, questo poteva davvero essere giusto? Forse no, ma io
cercavo solamente di proteggerlo.
Ma era davvero quello il modo
giusto?
*
La sera dopo Fuka
si era presentata a casa mia
con un paio di birre, usando la scusa del troppo tempo passato
separate. Sapevo che voleva solamente controllare come stavo, che si
preoccupava per me e per la mia salute mentale, avendo lei assistito
a tantissimi miei crolli causati da Akito, ed era carino da parte
sua.
“Quindi, fammi capire: tu gli hai detto che non volevi
bambini per preservare la tua carriera?”
Annuii, aprendo la
seconda birra. Non avevo voglia di raccontarle la verità.
Non perché
non mi fidassi di lei, ma parlarne avrebbe significato ricordare
quegli orribili momenti e, visto che non c'era alcuna
possibilità
per me e Akito era inutile farmi del male e farmi compatire dalle mie
amiche. Bastava ciò che le stavo raccontando per capire
ciò che
provava Akito, anche se non del tutto.
“Sei stata proprio una
stronza.”
Sorrisi d'impulso, pensando alla sua totale mancanza
di tatto nei miei confronti.
“E' la cosa migliore, Fuka. Non
posso renderlo felice, quindi perché fingere e distruggerlo
più
avanti? Non eravamo giusti l'uno per l'altra.”
Feci spallucce
e mandai giù un sorso di birra piuttosto lungo.
“Ma chi
diavolo sei tu?” urlò Fuka, alzandosi dal divano.
“Non ci posso
credere che tu sei Sana Kurata, la ragazza che io conosco, quella che
è mia amica! Senti, io ho rinunciato ad Akito per te,
perché
poteste essere felici insieme. Non puoi farmi questo!”.
Era
la prima volta che mi diceva una cosa del genere, che mi rinfacciava
quello che era successo ormai dieci anni prima.
Non distolsi lo
sguardo. “C'è solo una cosa che non potrei mai
fare in vita mia:
fare del male ad Akito.”
Fuka mi rivolse uno sguardo sconfitto
e non nominò più Akito per tutta la serata.
Mancavano due
giorni al matrimonio di Aya ed ero stata una pessima testimone, una
pessima amica. Ero pessima e basta.
Non mi meravigliava che
Akito non mi volesse più, ero la persona più
incasinata della
terra.
Nonostante quello lui mi aveva amata.
E io avevo
distrutto tutto.
Pov Akito.
“Akito!”.
La
voce di Natsumi era un suono lontano e ovattato, che diventava sempre
più forte man mano che lei si avvicinava alla mia camera.
Quando
entrò sentii un tonfo, mi voltai e la trovai con la mia
bottiglia di
vodka tra le mani.
“Di nuovo?” disse indicando la
bottiglia. Mi limitai a voltarmi dall'altro lato, non avevo voglia di
affrontare quella discussione. Ero ancora troppo provato
dall'incontro con Sana. Stavo tornando ad essere vulnerabile da
quando l'avevo rivista e la cosa non mi piaceva affatto. Volevo
smettere di essere il suo burattino, ma la verità era che da
quando
l'avevo conosciuta non avevo fatto altro che aspettare come un
cagnolino che mi degnasse di un briciolo di attenzione e, quando
finalmente l'aveva fatto, il prezzo dell'attesa aveva smesso di
essere così caro e io mi ero auto convinto che potesse
bastare per
tutti gli anni che avevo passato a cercare un suo sguardo. Mi ero
ripetuto mille volte che il fatto di essere sposati, di aver
costruito quella strana coppia fosse abbastanza, che avrebbe
compensato tutto il resto. Realizzai che non era così non
appena mi
lasciò.
“Ho bisogno dell'Akito lucido, ti prego.”. Mia
sorella proprio non voleva lasciarmi in pace. Sentivo Kaori piangere
al piano di sotto ma a lei sembrava non importare.
“Tsuyoshi
è in cucina, vuole vederti. Dice che rifiuti le sue chiamate
da un
paio di giorni, è preoccupato.”
Fantastico, ci mancava
solamente Tsu.
“Digli che scendo subito.”
Natsumi
uscì dalla mia camera portando con se la bottiglia di vodka,
ovviamente, intimandomi di sbrigarmi.
Presi la maglia dal
pavimento e la infilai alla meglio, per poi scendere le scale e
trovarmi Tsuyoshi davanti, con una faccia alquanto preoccupata.
“Ti
sei svegliato con la luna storta?” chiesi mentre mi dirigevo
in
cucina per fare colazione. Lui mi seguì a ruota.
“Io domani
mi sposo, Akito. E tu, in quanto testimone, dovresti impedire che mi
venga un attacco di panico o che ne so, portarmi in giro a fare
qualche pazzia con delle spogliarelliste scadenti oppure pagarmi una
cena, si credo che la cena sia l'opzione migliore perché le
spogliarelliste potrebbero essere un po' eccessive e io non voglio
che...”
Mi fiondai su di lui e lo bloccai per le spalle.
“Tsuyoshi smettila. Niente spogliarelliste, ma ti prego
smettila di
parlare.” Lo costrinsi a sedersi a tavola, gli piazzai una
tazza di
cereali davanti e gli versai un po' di latte.
“Adesso mangia.
Così avrai la bocca impegnata.”
Tsuyoshi obbedì senza fare
storie, e rimanemmo per un po' in silenzio, mentre Natsumi cambiava
la bambina e le faceva il bagnetto.
“Ti senti meglio?”
chiesi quando finimmo di mangiare.
“Si, diciamo di si,
grazie.”
“Scusa se sono stato un pessimo amico. Tu ci sei
sempre per me e io sono stato veramente poco presente.”
Tsuyoshi
mi tolse la tazza dalle mani e la portò sul piano cottura,
scuotendo
la testa. “Sei mio fratello, Akito. Non posso chiederti di
aiutarmi
quando non riesci ad aiutare nemmeno te stesso.”
Annuii. Tra
di noi non c'era bisogno di parlare più del dovuto, eravamo
fratelli, come aveva detto lui, e io sapevo di poter contare sempre
su di lui, anche se spesso io non avevo fatto lo stesso.
Passammo
la giornata così, tra chiacchiere di circostanza e ricordi
d'infanzia.
Non riuscivo a realizzare il fatto che il mio
migliore amico si stesse per sposare. Il matrimonio è un
casino, ma
lui non avrebbe avuto la mia stessa sorte. Aya non era una pazza
squilibrata come Sana, e amava Tsu. Si amavano da sempre.
Avrebbero
avuto una vita lunga e felice, esattamente il contrario della mia.
Pov
Sana.
Aya
non faceva altro che toccarsi i capelli, e io non facevo altro che
intimarle di stare ferma, perché aveva le mani sudate e
avrebbe
rovinato tutta l'acconciatura.
Che stress i matrimoni. Erano
una vera e propria tortura, chissà perché tutti
li designavano come
il giorno più bello della tua vita se poi l'unica cosa bella
è il
momento in cui torni a casa dopo una giornata piena di sorrisi finti?
“Fuka, ti prego, fagli una ramanzina delle tue
sennò finirà
per impazzire.”
Mentre Aya indossava l'abito, Fuka cominciò
a parlare, così mi presi una pausa da tutta quella ansia
mista a
felicità e mi spostai nella stanza accanto.
Casa di Tsuyoshi e
di Aya era molto carina, e ogni suo angolo era pieno dell'amore che
li contraddistingueva. Ricordai che Aya mi aveva parlato a lungo del
colore della cucina – se prenderla rossa o grigia –
e Tsuyoshi
continuava a ripetere al telefono che tanto lei alla fine ne avrebbe
scelta una terza, perché era l'eterna indecisa.
Tornai in
camera da letto, Fuka stava ancora parlando ma Aya non l'ascoltava e
se solo lei se ne fosse accorta avrebbe ricominciato da capo. Sul
comodino di Tsuyoshi c'era una loro foto durante la vacanza in
Italia. Lui l'abbracciava da dietro e la baciava sulla guancia. Aya
aveva un'espressione così felice, gli occhi chiusi e la
testa
rivolta verso l'alto.
“Sei proprio fortunata...” dissi a
bassa voce, pensando che nessuno mi sentisse. Invece Fuka smise di
parlare e Aya si voltò verso di me.
“Lo so...” sussurrò
Aya. “Mi dispiace Sana. Se tutto questo per te è
troppo difficile,
io… puoi andare.”
Mi avvicinai a lei e l'abbracciai. “Io
sto bene, Aya. Tu sei la mia migliore amica. Oggi è il tuo
giorno.”
La guardai per un attimo e notai che una lacrima le stava
scendendo giù per la guancia. “Non piangere per
me, io voglio solo
starti vicina. E poi così si rovina tutto il trucco, quindi
smettila
subito!” le ordinai, sorridendo.
Entrambe scoppiammo a ridere
e Fuka alle mie spalle si unì all'abbraccio.
Erano le mie
amiche più care. Mi erano state accanto per tutta la mia
vita, come
potevo abbandonarle solo perché la mia vita era diventata un
casino?
*
Aya
mi passò il suo bouquet quando arrivò davanti a
Tsuyoshi. In realtà
dovetti toglierglielo dalle mani perché lei era troppo
impegnata a
guardarlo. Avevano scelto il rito occidentale ma avevano deciso
comunque di mantenere qualche tradizione, infatti l'officiante
passò
sulle testa dei due sposi un ramoscello di camelia, che poi venne
passato ai loro genitori.
Era il simbolo dell'unione delle due
famiglie, come due alberi che scelgono di crescere uno accanto
all'altro, unendo le loro radici e i loro rami, su in alto.
Avevo
scelto volontariamente di non guardare Akito per tutto il tempo,
anche se sapevo benissimo di doverlo fare prima o poi.
Ogni
cosa durante quella cerimonia mi ricordava lui, il nostro matrimonio,
basato su una finzione, e su dei sentimenti che non riuscivamo
veramente ad esternare.
Eravamo stati così stupidi.
“Con
questo anello io ti sposo...” Tsuyoshi le mise l'anello al
dito. “E
prometto di esserti sempre fedele, nella gioia e nel dolore, in
salute e in malattia, di amarti e onorarti tutti i giorni della mia
vita, finché morte non ci separi.”
Mentre Aya faceva lo
stesso abbassai lo sguardo verso la mia mano, inconsciamente non
avevo notato di portare ancora la fede, quello stesso anello che io
non mi aspettavo. Una lacrima mi scivolò sulla guancia,
volevo
disperatamente guardarlo, ma la paura mi bloccava.
Avevo paura
che mi avrebbe odiato, molto di più di quanto non lo facesse
già.
Avevo paura di perdere il controllo, che mi sarei fiondata su di lui
e lo avrei supplicato di perdonarmi. Avevo paura di trovare nel suo
sguardo qualcosa che mi avrebbe detto che sarebbe andato avanti. Io
non ci sarei mai riuscita.
Alla fine, comunque, cedetti. Lo
guardai. Lui stava facendo esattamente la stessa cosa che stavo
facendo io. Non ci avevo fatto caso tutte le volte che lo avevo
incontrato prima di quel momento: anche lui portava ancora la fede.
Se la rigirava tra le dita nervosamente, mentre Aya recitava le sue
promesse.
I nostri sguardi si incrociarono e fu allora che,
senza nemmeno rendermene conto, cominciai a piangere. Trattenni i
singhiozzi, ma non mi preoccupai di nasconderlo. Chiunque avrebbe
pensato che mi fossi emozionata per il matrimonio. Dentro di me tutto
stava andando in pezzi. Ma nessuno se ne accorgeva, eccetto Akito.
Pov
Akito.
Non aveva alcun
diritto di piangere, non dopo
quello che mi aveva fatto. Non poteva guardarmi, guardare la mia
fede, la sua fede, e piangere in quel modo. Non poteva farmi sentire
colpevole della sua sofferenza. Non era giusto.
Il banchetto
cominciò subito dopo, ovunque c'era gente brilla, tutti si
divertivano e c'era chi si divertiva anche troppo – tipo
Gomi, che
Hisae non faceva altro che inseguire per tutta la sala – e
chi
invece, come mia sorella, non faceva altro che starsene seduta con
Kaori a rimuginare sulla sua condizione da single. Ma di che si
lamentava poi? Kaori, non appena aveva visto Sana, si era dimenata
per essere presa in braccio da quella che era stata la sua mamma per
mesi. Vedere Sana con la bambina mi faceva uno strano effetto.
Sentirla parlare con mia sorella di quanto Kaori fosse cresciuta mi
faceva sentire preso in giro. Lei amava quella bambina, glielo si
leggeva negli occhi, eppure non era riuscita ad amare mia figlia. Sua
figlia.
Mentre sorseggiavo
un drink al bar Tsuyoshi si avvicinò
a me. “Non mi sembra che tu ti stia divertendo.”
Annuii,
buttando giù altro alcol. “Mi divertirei di
più se non dovessi
sopportare la sua presenza qui.”.
“L'ho
vista piangere
durante la cerimonia. Non che mi sia soffermato a guardarla, Aya
prendeva tutta la mia attenzione, ma diciamo che non è
passata
inosservata.”
“E' una
brava attrice, è il suo lavoro
piangere a comando. A questo punto penso che tutti i suoi sentimenti
siano una finzione.”
Tsuyoshi non fece
in tempo a rispondermi
che sentii qualcuno sbattere violentemente i piedi per terra.
Mi
voltai e Sana stava andando verso il bagno, con le lacrime agli
occhi. Ci risiamo.
“Vai da
lei. Scusati.” mi ordinò
Tsuyoshi. “Se Aya scopre che la sua migliore amica sta
piangendo al
suo matrimonio per colpa tua, se la prenderà con me e
diventerà
vedova prima del tempo.”
Sbuffai e seguii
Sana. Non avevo
voglia di parlarle, ma non potevo far litigare agli sposi nel primo
giorno di matrimonio, nemmeno io ero così crudele.
Quando
aprii la porta del bagno la trovai che si guardava allo specchio
cercando di sistemarsi il trucco.
Chiusi la porta a
chiave,
così che non potesse scappare prima di averle detto
ciò che dovevo.
“Non c'è bisogno di farne un dramma, Kurata. Non
ho detto nulla
che tu non sappia già.”
Non smise nemmeno
per un attimo di
guardarsi allo specchio, cercò di ignorarmi, ma mi avvicinai
lentamente a lei. Quando lo capì, cominciò ad
arretrare.
“No…
infatti hai ragione. Almeno così non devo fingere di
amarti.”
disse senza alcuna emozione negli occhi.
Quella frase mi
fece
ribollire il sangue nelle vene, non perché non lo pensassi
anch'io,
ma perché sentirlo da lei era una tortura. Tutto davanti a
me
diventò nero. La presi per le braccia e la strattonai,
trattenendola
contro il muro.
“Perché
mi fai questo? Perché provi piacere
nel torturarmi? Cosa ti ho fatto?” urlai, senza
più contenermi,
senza pensare che fuori dalla porta c'erano tutti i nostri amici, che
avrebbero potuto sentirci. Non mi importava più di nulla.
Sana
scoppiò in lacrime, ma non la lasciai. Rimasi lì,
nella stessa
posizione, la guardai singhiozzare finché non
riuscì a parlare. “Tu
non lo sai!” urlò anche lei. “Tu non sai
che tutto questo fa più
male a me che a te! Tu credi che io goda nel farti soffrire? Credi
che io abbia davvero finto? Come puoi anche solo pensarlo? Io ti ho
amato! Ti amo tutt'ora! Ma non posso darti quello che vuoi! Non posso
e non potrò mai!”.
Scivolò
contro il muro e la lasciai
fare. Si passò la mano tra i capelli, continuando a
piangere. Io
rimasi in piedi, perché sapevo che se l'avessi guardata
dritto negli
occhi l'avrei consolata. E lei non lo meritava. Anche se continuava a
ripetermi che mi amava, che anche lei soffriva… io avevo
passato le
pene dell'inferno.
“L'unica
cosa che avresti dovuto capire
non ti è ancora entrata nella testa.” dissi con la
voce di un
automa.
“E
cioè?”
“Che era
te che volevo. Che
sarebbe bastato dirmelo, parlare con me, con tuo marito, piuttosto
che distruggermi la vita così! Ma tu sei un'egoista! E io
sono solo
uno stupido, un pazzo, a pensare di amarti ancora!”.
Sana si
alzò da terra e si avvicinò velocemente a me.
“Allora smetti di
amarmi! Smetti di amarmi e sarà tutto più
facile!” urlò, dandomi
dei pugni sul petto con una forza che non aveva mai avuto.
“Non
posso!” dissi tutto d'un fiato. Le bloccai i polsi, ci
ritrovammo
faccia a faccia, vicini come non lo eravamo da troppo tempo. Non
avrei voluto dargli altre sicurezze, ma le parole erano uscite senza
filtri, e non ero riuscito a trattenermi. Con lei mi capitava troppo
spesso.
Ci guardammo per un
attimo in silenzio, nessuno dei due
riusciva a distogliere lo sguardo e, quando stavo quasi per decidere
di andarmene e lasciarla lì, l'unica cosa che la mia testa
mi ordinò
di fare fu baciarla.
Mi
sembrò come la prima volta. Per tutto
il tempo in cui le nostre bocche si toccarono, si leccarono, si
esplorarono, pensai che tutto quello che era successo fosse stato una
finzione, un incubo, e che quel bacio potesse cancellare tutto il
dolore. La portai di forza verso i lavandini e, afferrandola per la
vita, la feci sedere sul piano di marmo.
La baciai con tutta
la
foga e l'urgenza delle notti in cui mi svegliavo da solo nel mio
letto e l'unica cosa che desideravo era essere dentro di lei.
Abbassai la mano in cerca del suo seno, strizzato dentro a quel
vestito verde che per tutta la sera avevo immaginato di strapparle di
dosso.
“Ti
voglio.”
Cercai di
assimilare le parole
che mi aveva detto. Lei mi voleva e solo io sapevo quanto anche io la
desideravo, ma ero davvero pronto ad amarla come prima?
Mi
aveva spezzato in un modo che non pensavo nemmeno possibile, e adesso
io cedevo solo perché ero maledettamente innamorato di lei?
Le
sue mani arrivarono alla mia camicia e cominciarono a sbottonarla. Fu
quando le sue mani toccarono la mia pelle che capii.
“Io non
posso.” fu tutto quello che le dissi. Mi allontanai da lei e,
abbottonandomi la camicia in fretta e furia, uscii dal bagno.
Tsuyoshi mi
guardò correre fuori e non cercò di fermarmi.
Proprio per questo era il mio migliore amico.
Uscii in
giardino
e ritornai dentro solo quando mi calmai. La amavo, la amavo
profondamente, ma sarei stato maledetto se mi fossi fatto prendere in
giro un'altra volta.
Dopo
un sacco di tempo ecco qui il 19° capitolo, appena finito. Mi
dispiace non aggiornare più velocemente, ma purtroppo non
trovo sempre il tempo/l'ispirazione per continuare.
In
ogni caso volevo ringraziarvi per le recensioni che mi avete lasciato.
Mi dispiace avervi fatto arrabbiare con questa svolta un po'tragica, ma
nella vita non sempre tutto è rose e fiori e quindi devo
cercare di essere il più veritiera possibile.
Spero
che vi piaccia, che mi lascerete tante recensioni a cui
cercherò di rispondere.
Grazie
grazie grazie.
Akura.
Per gli amici, come voi, Roberta.
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