R.I.P. & Play Again
Riposa
in Pace…
Pausa – una storia di redenzione e seconde occasioni.
“I
would give you my soul in a blackberry pie; and a knife to cut it
with.”
“Ti
darei la mia anima in una torta di mirtilli; e un coltello con cui
tagliarla.”
The Disorderly
Knights – Dorothy Dunnett
IV
Flash
forward… and play again - Soul
Sasuke si era passato una mano sul volto, stropicciandosi gli occhi
quasi con disperazione. In parte per quella dannatissima telefonata con
Naruto, che non sembrava davvero in sé, in parte
perché la serata era stata atroce, tra musiche latino
americane e cocktail dai nomi assurdi; per non parlare delle
chiacchiere sui nomi dei bebé, i segreti di una cerimonia
perfetta e le quote di calciomercato. Una merda, insomma.
Con la scusa
di prendere un po’ d’aria uscì fuori,
dato che ormai l’amico doveva essere prossimo ad arrivare; fu
tranquillo che, visto l’andamento delle conversazioni in
sala, almeno per un po’ Sakura non lo avrebbe seguito.
Dopo qualche
minuto se lo vide arrivare: aveva il passo abbastanza tronfio, forse
più perché stava cercando di stare correttamente
in piedi che per reale marzialità dei movimenti, i vestiti
erano stropicciati e i capelli scombinati.
Sospirò:
gli era mancato. Anche in quelle condizioni riusciva comunque a
trovarlo attraente; pessimo, davvero pessimo.
Vai,
Madara, colpisci e affonda il bersaglio!
Naruto si
caricò a mille. Madara era proprio un figlio di puttana, ma
era simpatico e capiva al volo gli altri, per quanto dicesse di
detestarli. Inoltre, quella sera era sicuramente più lucido
di lui, percui Naruto trovò un’ottima cosa il
fatto che lo scrittore avrebbe parlato al posto suo.
“Col
cazzo, ora ci pensi tu. E’ il tuo uomo, mica il
mio!”
Sasuke
sollevò un sopracciglio: con chi stava parlando Naruto?
Uomo? Per un attimo lo sfiorò addirittura l’idea
che lui si fosse visto con un altro.
“Che
stai dicendo?” gli chiese brusco, avvicinandosi di un passo.
In quel
preciso momento, Madara uscì dal corpo di Naruto ma non si
materializzò di fianco a lui. Si ritrovò invece
accanto ad Hashirama, seduto presso la vetrina del locale e intento
guardare i due ragazzi, ora veramente soli nella piazza illuminata
dalle luci cittadine.
Naruto
barcollò un istante: fu come stare su una giostra.
Spalancò le falangi e ritrovò
l’equilibrio, ringraziando di non aver vomitato seduta
stante. Detestò Madara, anche se in fondo lo aveva portato
fino a lì.
Puntò
un dito contro l’amico di sempre, tanto per darsi un contegno:
“Io
e te, dobbiamo parlare!”
Chissà
perché, ma quando c’era Madara quella frase
risultava molto più figa.
Sasuke fece
una smorfia: “Naruto! Ma che cazzo hai fatto? Puzzi di birra
e… hai fumato?”
“Sì,
mammina, ho fumato – lo scimmiottò – e
mi sono scolato tre birre come se non ci fosse un domani. A proposito,
mi sa che devo pagare il conto.”
Ridacchiò,
cercando di rimanere serio.
Okay, sta delirando.
Sasuke lo prese per le spalle, ignorando l’odore di birra e
nicotina.
“Mi
vuoi dire che succede? Ti riaccompagno a casa.”
“Così
facciamo sesso.” Annuì Naruto.
Sasuke
sgranò gli occhi, sconvolto. Sì che Naruto era
sempre stato piuttosto diretto ma sentirsi dire da lui quelle cose, in
quel posto, con tutta la gente dentro che aspettava il futuro marito
perfetto, fu comunque strano e… bello, in
molteplici sensi. Anche se il ragazzo era ubriaco marcio.
“Certo,
sicuro – gli rispose seccato ma condiscendente, per poi
prenderlo per il braccio – dai, dico agli altri che ti
riaccompagno.”
Si
voltò e vide Sakura, in piedi. Dietro c’era anche
qualcuna delle sue amiche, di quelle coi pargoli lasciati ai mariti
dentro il locale, il vestito alla moda e i capelli appena fatti dal
parrucchiere.
Era rimasta
immobile e lo guardava.
“Sakura?”
domandò Sasuke. La domanda gli era sorta istintiva.
Perché era un interrogativo del tipo… quanto hai sentito?
Avrebbe potuto
comunque giustificare quell’uscita di Naruto con dai, guardalo, è
ubriaco da far schifo, non sa quello che dice.
“Che
ci fa lui qui?” domandò la donna, ostile, fissando
il ragazzo dai capelli biondi.
“Che
ci fai tu
qui? Questo è suolo pubblico, sai?”
replicò Naruto.
Non avrebbe
voluto essere così aggressivo; Sakura era una brava persona,
anche se a volte si circondava di gente vuota per colmare la sua
solitudine.
Sasuke
sospirò, seccato: “Lo sto riaccompagnando a
casa.”
Mmmh, forse non era
esattamente la cosa più saggia da dire.
“Che
ci torni da solo. Chiama un taxi. Hai una serata e degli amici che ti
aspettano!”
“Tipo
trucco e parrucco là dietro? Begli amici! Io sono suo amico,
io devo stare con lui.”
Disse quelle
ultime parole quasi con disperazione. Sasuke lo guardò,
stringendogli il braccio più forte.
Sakura si
sentiva braccata, messa alle strette mentre le cose stavano
precipitando e Naruto era lì, chiaramente non in
sé, che rischiava di rovinare tutto, ogni equilibrio tenuto
in piedi fino ad allora; cominciò a sentir cedere la
maschera che aveva tenuto su in quegli anni.
“Smettila.
Stai zitto.” Gli disse. Non urlò ma aveva la voce
dura, come di chi stesse trattenendo tutto quello che aveva dentro.
Qualcuno in
piazza si era fermato a guardare la scena.
Naruto la
fissò, per poi scuotere la testa e scrollare le spalle:
“No,
non sto zitto – si voltò verso Sasuke,
aggrottò le sopracciglia e aggiunse quasi senza rendersene
conto –
non
ti sposare. Ti prego, non farlo.”
Mentre
camminava fino a lì avrebbe voluto gridarlo platealmente
quel non ti sposare,
correre con falcate da film epico e scrollare Sasuke per riportarlo
alla ragione. Ma, ovviamente, le cose non andavano mai come ci si
aspettava, infatti Naruto si era trovato lì, con Sakura
incazzata, il suo fanclub, e aveva detto quelle parole così,
quasi con disperata pacatezza.
Si
sentì stupido.
Il modo in cui
lo guardava Sasuke lo fece sentire stupido, ed egoista.
Perché lui dopo tutto quel tempo, dopo aver lasciato correre
la vita del suo compagno di allenamenti senza far nulla, a pochi giorni
dal matrimonio se ne arrivava ubriaco a chiedergli di non sposarsi. Una
tattica geniale, proprio.
Sakura strinse
i pugni, si avvicinò e diede uno spintone a Naruto, aveva
gli occhi lucidi e le labbra che tremavano ma lo sguardo era fieramente
arrabbiato:
“Sei
uno stronzo! Uno stronzo! Perché, perché adesso?
Vattene!”
Quella volta
aveva finito per gridare e la sua voce era riecheggiata in tutta la
piazza, al punto che la città intera sembrava essersi
zittita.
Naruto
allargò le braccia e non oppose resistenza, quasi fosse
stato in arresto.
Non disse
nulla, si voltò e camminò, passo dopo passo, fino
a cominciare a correre con un’andatura un po’
ciondolante; tutto attorno a lui sembrava così follemente
instabile da fargli credere di star volando. Il fatto era che non
voleva nemmeno andarsene ma sentiva di star perdendo
l’autocontrollo: la rabbia, la voglia di prendere tutti a
cartellate e gridare era troppa. Non desiderava generare una sorta di
compassione in Sasuke; lui avrebbe potuto mandarlo a fanculo, ne aveva
ogni sacrosanto diritto, ma la pietà poteva anche riservarla
a Sakura.
Sasuke lo
guardò andare via, la fidanzata lo fissò, con la
voce che le tremava e la voglia di vomitare, perché la
tristezza sapeva attaccare alla gola, come il migliore degli assassini.
Più
che le parole di Naruto, capaci di farla arrabbiare, ciò che
davvero l’aveva ferita era stata l’assenza di
reazione da parte del proprio ragazzo e futuro marito.
Perché quest’ultimo avrebbe dovuto rispondere
all’esagitato con cui passava tanto tempo assieme di
smetterla di dire cazzate, non starsene zitto,visto che lui amava
Sakura e quel matrimonio era una cosa che dopo anni di fidanzamento, di
amici che si sposavano e figliavano, rappresentava un traguardo
desiderato da entrambi, no?
I genitori di
Sasuke erano così contenti, sembravano quasi sereni non
appena la coppia aveva annunciato loro il matrimonio. E Sasuke?
Dov’era la sua esultanza? Era sempre stato severo, in fondo,
non si lasciava mai trasportare da eccessivo entusiasmo, quindi era
normale che... che...
“Tu
non vuoi sposarti, vero?” gli domandò, riuscendo a
non far tremare la voce.
L’allenatore
avrebbe voluto seguire Naruto, in principio. Dirgli tutte le parole che
aveva tenuto dentro e non sopportava che l’amico, messo alle
strette dalla scadenza impellente di un matrimonio e ubriaco,
l’avesse clamorosamente anticipato, prendendolo in
contropiede. Ma come poteva abbandonare lì Sakura, anche se
si era pateticamente ripetuto allo specchio un discorso per lasciarla?
Con le amiche che, già le sentiva, bisbigliavano tra loro
domandandosi se quei due
fossero gay.
Era brutta
come parola, da sentire così, sussurrata con il sapore della
condanna, in quella piazza dalle luci artificiali e il pavimento
calpestato.
“Voi
ve ne andate fuori dai coglioni?”
La sua voce
suonò come una frustata, secca, persino violenta. Le ragazze
sgranarono gli occhi, provarono a protestare ma Sakura, con fare
apparentemente gentile, le esortò, dicendo loro che dentro
le aspettavano figli e
mariti.
Sembravano quasi malattie.
Tornò
a guardare Sasuke, che le pareva sempre così bello e lei
invece si sentiva tanto brutta, un fallimento di donna.
“Dimmi...
dimmi che contiamo entrambi.” Gli disse. Il matrimonio... oh,
suonava tanto come una catena, attorno a loro.
Per Sasuke non
fu affatto facile ammettere tutto quello che disse in seguito, per
nulla. Aveva vissuto tutti quegli ultimi anni sforzandosi di essere una
persona migliore, di andare bene a lavoro, di ottenere i suoi personali
successi, di archiviare la questione di Naruto razionalizzando e
razionalizzando, di considerare qualcosa di temporaneo persino un
fattore tanto determinante quale il sesso.
Quasi come se
andando poi a letto con Sakura si annientasse tutto il resto.
Lui strinse i
pugni e le disse, guardandola negli occhi:
“Sono
io, quello stronzo. Perché vorrei davvero dirti che
andrà bene, che sarò un uomo esemplare e che noi siamo la scelta
più importante – prese un respiro, le labbra si
assottigliarono per poi aprirsi appena quando ammise – ma non
è così.”
Sakura si
sentì morire. Fu come se le illusioni di anni fossero state
svelate: il mago Sasuke le aveva spiegato il suo trucco.
Però… no, non era Sasuke il mago, era sempre lui,
l’Amore, quello stesso amore che aveva colpito Madara, e
Hashirama, e tutti coloro che rimanevano incantati dalle colombe, dai
fiori e dalle carte, dalle monete che saltavano tra le dita, una per
ogni battito perso, mille, per ogni volta che il cuore batteva
più forte e i compromessi sembravano accettabili.
Le
sfuggì una lacrima, poi dopo aver stretto un istante i denti
gli disse, asciugandosi gli occhi con un gesto brusco:
“Quindi? Che cosa stai facendo ancora qui?”
Avrebbe potuto
insultarlo ancora, denigrarlo, rendere più ferocemente viva
l’idea che con Naruto non fossero mai stati veramente solo
amici, ma non volle. Da come l’uomo la guardava, dalle sue
parole – perché in fondo lo conosceva da un
quantitativo di tempo sufficientemente lungo – Sakura
comprese che forse Sasuke era ancora più confuso di lei.
Prima di aver mentito a lei, infatti, lo aveva fatto con se stesso.
E Sakura era
una donna orgogliosa, intelligente, anche se ferita e con la voglia di
prendere a pugni quella faccia che amava, incapace di muovere le labbra
per sentirsi dire ciò che avrebbe desiderato.
Oh,
se solo tu potessi prendere il mio posto, Sasuke.
Quest’ultimo
chiuse un istante gli occhi, poi li riaprì e mosse la bocca.
Le labbra sembravano formare una scusa, una promessa di parlarsi e di
spiegare a tutta la gente che aveva aspettative su di lui, che tali
aspettative sarebbero state disattese. Sakura non lo sapeva, non
riusciva a mettere bene a fuoco la vista; lo vide voltarsi e cominciare
a camminare, con la gamba che non sarebbe mai stata la stessa da prima
dell’incidente, quando Sasuke ancora correva, come se non
volesse più fermarsi.
Le parole.
Maledette, ancora loro. Ne esistono a migliaia, in ogni lingua del
mondo, ciascuna con le sue sfumature. E quando serve davvero ne usiamo
sempre così poche, oppure finiamo per non usarle affatto.
Se non si
è abituati nemmeno a sentirsele dire, quelle parole, poi
è più difficile reagire; era valso per Sakura e
allo stesso modo valeva anche per Sasuke. Che sembrava aver atteso
tutto quel tempo solo che Naruto gli dicesse di non fare qualcosa,
esortandolo a ribellarsi, talmente era nauseato dalla passiva
accettazione di ciò che accadeva, senza provare
pietà per il povero amico storpio.
Quindi...
sì, Naruto gli aveva letteralmente sparato in faccia la sua
richiesta, nel peggiore modo e momento possibile. E Sasuke non aveva
più nessuna ragione per tornare indietro, anche se
c’era Sakura, la sua famiglia, suo padre... lo avrebbero
odiato? Forse. Compatito? Ancora più probabile.
Sbatté
un pugno contro il muro.
“Dannazione,
stupida, maledetta gamba – percorse il marciapiede, facendo
scostare la gente, infine gridò con rabbia –
Naruto!”
Fu quasi come
essere in palestra, sul ring. Avrebbe voluto riprendere
l’amico, dirgli che come ogni volta aveva la guardia
scoperta, ma quella sera era stato Sasuke a viaggiare con il petto
esposto e Naruto era arrivato, con il suo attacco più
splendido e forte di sempre, affondando le nocche fin dentro il cuore.
Terribile ma anche... liberatorio.
Eppure la
gamba era sempre quella, in un modo o nell’altro, e faceva
dannatamente male.
Poi vide
comparirgli accanto Hashirama, che gli sfiorò le spalle con
la mano:
“Madara
ha fatto di testa sua, non vedo perché dovrei agire
diversamente – appoggiò il palmo, poi gli chiese
– permetti?”
Ma non attese
risposta di Sasuke, perché prese possesso del suo corpo e
ignorò tranquillamente le proteste del possessore del corpo
in oggetto, che credeva di non avere più tempo.
“Oh,
credimi, so cosa voglia
dire aver perso tempo. Tienti forte, smuoviamo un
po’ questi legamenti.”
Hashirama
sentiva ogni tratto del corpo di Sasuke, ogni osso, cartilagine,
centimetro di pelle o lo scorrere del sangue, esattamente come
percepiva in maniera sconvolgente il mondo attorno. Si stupì
nel reputare tanto belle le luci della città, la gente che
parlava per le strade, le statue, i musei, le fontane con la loro acqua
scrosciante. Cose banali, di tutti i giorni.
Corse, Sasuke.
Dopo tanti anni, sentì le gambe distendersi, non
avvertì più il male ma solo l’impatto
dei piedi sul terreno e la sensazione dell’aria sulla pelle.
Si allontanò il malessere per Sakura, per ciò che
gli avrebbe detto suo padre, per i giudizi che minavano il suo
ingombrante orgoglio. Tutto quello che era stato sembrò
così insignificante, paragonato al sentirsi... libero.
Esattamente come Hashirama, anche se egli non era nel suo
corpo, poté percepire un’ultima volta il mondo.
“Naruto!”
gridarono entrambi.
Come se gli
avessero sparato, boccheggiando Naruto si voltò, riuscendo
però ad arrestarsi solo dopo aver percorso stordito ancora
qualche metro.
“Sasuke?”
domandò, quasi in un sussurro. Egli era lì,
davanti a lui, niente Sakura, cene o altro. E... sembrava aver corso.
Sgranò gli occhi.
“Più
o meno. Ti restituisco il pacchetto completo. Madara è per
caso...”
“No,
non è più qui, non dopo aver cercato di farmi
inciampare almeno.”
Ma...
Hashirama, perché era evidentemente lui, non era
già più nel corpo di Sasuke. C’erano
davvero solo loro due, oltre al resto della città.
“Guarda
che mi hai fatto fare.” disse l’allenatore,
lanciando un’occhiata alla gamba che ora sembrava essere
tornata il solito arto danneggiato di sempre. Non faceva male ma...
correre lo aveva fatto stare per un istante sopra il resto del mondo,
anche se aveva toccato solo la terra. Quella frase sembrava infatti
riferita a ben altro.
“Mi
spiace.” Fu tutto quello che Naruto riuscì a dire.
“Quelle
parole – intervenne Sasuke all’improvviso
– intendevi dirle per davvero?”
“Sì,
sarò anche un po’ ubriaco ma so quello che dico e
sostengo, mica lo faccio per caso...”
Stava per dire
altro, per straparlare come al suo solito e mangiarsi qualche parola
nel mezzo, con l’idea che se avesse taciuto magari Sasuke gli
avrebbe finalmente dato del coglione per porgergli i suoi saluti e
addio.
Ma Sasuke lo
afferrò per la maglia, con rabbia, e lo portò di
fronte a sé.
“Lo
sai che per quelle parole ho mandato tutto a fanculo? Ciò
che credevo di aver costruito in anni... volatilizzato, nel giro di
dieci minuti. Per tre vocaboli messi in croce detti da un ubriaco
– schioccò la lingua, mordendosi un labbro che si
distese in un sorriso ironico – devo essere proprio
disperato, vero?”
Naruto lo
fissò. Una parte di sé, quella più
squisitamente egoista, fu in un certo senso felice, mentre
l’altra si rese conto di aver a sua volta gettato nel cesso
tutti i buoni propositi di non immischiarsi nell’andamento
naturale della vita del migliore amico.
“No.
Cazzo, Sasuke, io non credevo che tu avresti davvero fatto una cosa
simile.” gli si torse la lingua. Smise di parlare, sarebbe
stato ipocrita cercare di riparare qualcosa che lui stesso aveva
contribuito a sconquassare.
“Stai
ritrattando?”
“No.”
Ammise sinceramente, senza più pensare.
“Bene.
Perché io non ho più intenzione di tornare
indietro.”
Lo
guardò un istante, con quel suo cipiglio alterato, i capelli
lunghi tutto sommato ordinati e gli occhi scuri profondi. Sembrava
incazzato. Eppure, sostanzialmente, gli stava dicendo che era
lì per lui, perché era tempo di mettere
finalmente ordine a tutto ciò che c’era
d’indefinito nella loro reciproca esistenza.
Già,
solo Sasuke poteva esporsi in maniera così tanto
contraddittoria e far sentire comunque Naruto come se fossero nel ben
mezzo di una delle loro litigate migliori.
Peccato che
l’espressione non contò più nulla.
Perché Sasuke, alla fine, gli strinse le mani sulle spalle
e... lo baciò, lo baciò con la stessa disperata
passione che Naruto aveva messo nel chiedergli di non sposarsi. Anche
se quello stupido puzzava di alcool e sigaretta.
Qualcuno si
girò, altri commentarono ma nessuno osò fermarsi,
perché... sì, perché la vita andava avanti.
Naruto fece
per dire qualcosa, qualunque cosa, nonostante fosse su di giri e allo
stesso tempo sentisse il peso della consapevolezza di ciò
che implicava quel bacio, di conseguenza anche l’obbligo di
farlo razionalmente presente. E notare bene che era lui quello ubriaco,
non il responsabile e preciso Sasuke.
Ma
quest’ultimo gli lanciò un’occhiata,
come intuendo che quello stupido dagli occhi troppo chiari, entusiasti
e pieni di pensieri fosse in procinto di parlare:
“Aspetta.
Non ho finito.”
“Sei
preso bene.” Involontariamente, Naruto ridacchiò.
L’altro
fece una smorfia: “Talmente tanto che posso prendere bene
anche te. A botte. Ora vuoi tacere?”
Pazzesco. L’amore ai tempi del
colera. Insomma, effettivamente dopo tutti quegli anni,
dopo che si conoscevano così bene, se tra loro fossero
volati fiori e cuoricini sarebbe stato piuttosto irrealistico. E, per
quanto Naruto temesse il contrario, Sasuke era spaventosamente lucido.
Talmente tanto che se si fosse fermato, forse non sarebbe
più riuscito a dire quello che ancora mancava.
“Ora
ti farò un discorso e tu mi farai il favore di ascoltarlo
senza interrompermi. Pensi di farcela?”
“Oh,
sono un po’ brillo ma non stupido o sordo. Ti ascolto, parla,
non so quando mi capiterà ancora che tu lo faccia.”
Si fissarono
un istante. Poi Sasuke fu spaventosamente diretto:
“L’incidente.
Non te l’ho ripetuto abbastanza o con sufficiente convinzione
ma ora te lo ribadisco e che ti si imprima a fuoco in quel tuo testone
vuoto: non è colpa tua. E se servisse ad averti ancora con
me, esattamente come sei, lo rifarei, di nuovo. Tra la mia carriera
sportiva e te… sceglierei sempre te, a occhi chiusi. Ho
sbagliato solo a non aver mai voluto fare i conti prima con questa
consapevolezza, ritenendo di fare la cosa giusta nel seguire una vita
che sarebbe andata bene a tutti, te compreso, visto che non ti sei mai
opposto – Naruto fece per aprire bocca ma sigillò
le labbra, in istintiva apnea – poi… sono arrivati
loro, con
gli errori che hanno compiuto e tu, che dopo esserti mostrato
così bravo ad accettare le mie decisioni peggiori, mi chiedi
di non sposarmi più.
Pochi giorni,
per rendermi conto di quanto tempo stessimo perdendo.
Siamo ancora
vivi, Naruto. Ti rendi conto? Noi siamo ancora vivi. E io stavo per
legare la mia vita a una persona che non avrei mai amato, non quanto
amo te.”
Dopo un attimo
di silenzio che seguì quelle parole, improvvisamente
Naruto… scoppiò a ridere, genuinamente, non
perché l’intera situazione facesse ridere, al
contrario, era terribilmente seria, un momento fondamentale della sua
vita, direi, di quelli da raccontare ai posteri negli anni a venire.
E’ importante precisare, però, che non rideva
perché trovava le parole di Sasuke divertenti,
bensì per un motivo molto più semplice e
totalitario: era… felice.
E, allo stesso tempo, al culmine della risata sentì anche la
voglia di piangere, per tutte le volte in cui aveva mancato quella
felicità e per tutte le volte in cui da ora in poi
l’avrebbe provata ancora.
Con le braccia
incrociate Sasuke lo fissò, anche se non riuscì a
evitare di sorridere a sua volta:
“Sei
stupido o cosa?”
Naruto
allargò le braccia e si asciugò una lacrima
dall’occhio destro, esclamando:
“Sono
stupido! E presuntuoso, per aver creduto che saresti stato bene,
facendo tutto quello che la gente si aspettava.”
“Quindi?”
lo osservò Sasuke, in tensione.
“Quindi
che?” domandò l’altro, senza smettere di
sorridere.
L’allenatore
fece per girarsi e prendere grandi falcate di distanza, ma Naruto gli
afferrò il braccio, bloccandolo:
“Quindi
proviamo a passarlo assieme, il resto di questa nostra vita, non con
Sakura, non con Hinata. Per noi, non per gli altri. Questo è
amore? Direi di sì. Abbiamo fatto un casino gigantesco?
Cavoli, sì. Sakura incazzata, i tuoi sconvolti,
probabilmente riceveremo tanti di quei calci in culo da pensare,
infinite volte, di aver fatto una stronzata, preso un abbaglio, un
colpo di testa. Ma… ci parleremo. E io mi
ricorderò sempre di quello che ho provato sentendoti parlare
di noi.”
Sasuke lo
fissò; si ritrovò poi ad annuire, con il cuore
che gli si fece più leggero. Detta così sembrava
quasi facile, meno terribile di come se l’era dipinta nella
testa.
Poi Naruto si
voltò verso il resto della strada, fece
l’occhiolino al suo allenatore dicendogli sta a sentire,
prese un profondo respiro e gridò, sgolandosi:
“Ti
amo, Sasuke Uchiha!”
Quest’ultimo
sgranò gli occhi, arrossì violentemente e lo
strattonò con ancora più violenza, ma non lo mise
a tacere. Si passò una mano tra i capelli, indugiando un
istante vicino al volto come per coprirlo e ritrovare un cipiglio
severo. Non ci riuscì molto bene.
Poi il biondo
pugile gli appoggiò una mano sulla spalla, portando
l’altra al fianco. Prese dei bei respiri. Lo
guardò.
Il ragazzo lo
fissò a sua volta, sollevando un sopracciglio, perplesso
perché l’espressione era cambiata.
“Sasuke...”
sussurrò Naruto.
Poi si sporse
di fianco e vomitò.
*
“Che
schifo! Si vede che non è parente mio.”
Commentò Madara, disgustato ma al tempo stesso divertito.
Hashirama
scosse la testa: “Colpa tua che lo hai ridotto in quel modo.
E’ già tanto se è riuscito ad arrivare
fino a lì tutto intero.”
“Mah,
diciamo che ho giusto incoraggiato qualcosa che voleva fare. Mi sembra
che anche tu abbia seguito questa linea di pensiero.”
Replicò l’altro, scrollando le spalle.
“Sai
che Sasuke si era messo a camminare avanti e indietro a casa, cercando
le parole per annullare il matrimonio con Sakura? Alla fin fine aveva
optato per la linea secca e senza troppi giri, sicuro di non aver
posseduto anche lui?”
Madara rise,
all’idea di Sasuke che pensava al modo giusto di dire un
qualcosa che non sarebbe mai stato corretto, né piacevole,
in fin dei conti. In quello, alla fin fine, Naruto gli era stato di
grande aiuto perché aveva decisamente rotto non solo il
ghiaccio ma direttamente tutti e due i Poli.
“E’
stato bello tornare a sentire il mondo che ci circonda, anche se per
poco.”
Tacquero. Il
ristorante stava chiudendo, i camerieri avevano finito di pulire il
locale e la candela del tavolo di Madara e Hashirama era in procinto di
spegnersi. Nella penombra, le luci della città sembravano
ancora più splendide.
Dopo qualche
istante Hashirama fece per dire qualcosa a Madara ma comparve Sai, in
piedi. I due uomini lo guardarono, silenziosi. Alle loro spalle gli
ultimi passi dei lavoratori intenti ad andarsene.
“Siete
stati bravi.” Ammise l’entità.
Hashirama fece
un cenno con la testa, poi Madara gli chiese:
“Sei
venuto per portarci via?”
Sai sorrise:
“Non lo hai ancora capito?”
“Cosa
c’è da capire?” domandò lo
scrittore ma ebbe come un presentimento, mentre Hashirama taceva.
Prima che
potessero chiedere altro, però, si ritrovarono catapultati
in una stanza del tutto sconosciuta, affondando in un divano
– per quanto i loro corpi potessero effettivamente affondare;
sembrava un soggiorno, a giudicare dal televisore, dai cd accatastati e
dai libri. Poi videro Sasuke e Naruto, in piedi, con degli oggetti in
mano e l’aria sorpresa ma non troppo. Era giorno, come
poterono notare dalla luce del sole che filtrava attraverso le lunghe
finestre.
“Ancora
voi?” domandò Madara, roteando gli occhi.
Sasuke
schioccò la lingua: “Potrei dire lo
stesso.”
Naruto rise e
Hashirama lo imitò.
Parlarono. Di
come si erano risolte le cose, di Sakura, della bomba scoppiata in
famiglia da Sasuke, anche se questi ancora non aveva parlato della
faccenda di Naruto, degli insulti da parte di quella
dell’ex-promessa sposa, anche se lei aveva fatto di tutto per
evitare che si arrivasse a tanto. A cosa serviva, alla fine? Era solo
una questione di scelte, per quanto quelle di Sasuke
l’avessero svuotata, lasciandole nient’altro che la
voglia di piangere. Ma era forte, Sakura, e quando si era sentita con
Hinata aveva finito per darsi della stupida, per averla coinvolta in
qualcosa di sterile.
Ma
l’amica aveva replicato che non importava, che era stata
bene, e che Sakura doveva pensare a rimettersi in piedi, era lei
d’altronde a dover ricominciare una vita.
Tutto era
scoppiato, a ben pensarci. Tabula
rasa. Bisognava solo più ripartire, anche se
era la cosa più difficile.
“Grazie.”
Disse alla fine Naruto.
Sasuke attese
un istante, poi disse a sua volta: “Grazie.”
Guardò
gli scatoloni. Si stava riportando nell’appartamento gli
oggetti provenienti dalla casa che avrebbe dovuto condividere con
Sakura; non si stupì nel realizzare che non erano poi
tantissimi.
“Non
abbiamo fatto nulla di che.” Minimizzò Hashirama.
“Alla
faccia, la prossima volta che pensate di sapere
cos’è meglio fare siete pregati di lasciar perdere
e agire in senso opposto.” Sbottò Madara, anche se
suo malgrado sorrise.
“Ce
ne ricorderemo.” Rise Naruto.
Dopo qualche
istante quest’ultimo domandò, perplesso:
“E ora che succede? Insomma, avete svolto il vostro... compito, Hashirama
dovresti poter passare oltre o come si dice.”
“Sì,
credo di sì.” Asserì il diretto
interessato, poi guardò Madara.
“Quando
sarà il momento passeremo oltre, per usare le tue
parole.” Replicò lo scrittore, accavallando le
gambe mentre appoggiava i gomiti sul divano.
Naruto a sua
volta fissò Sasuke che con le braccia incrociate fece
presente:
“Passeremo?
Perché parlate al plurale?”
Hashirama non
disse nulla. Madara si tirò su la schiena, ancorando
entrambi i piedi a terra:
“Che
domande del cazzo. Siamo morti! Incidente, motel, corpi, hai
presente?”
Sentì
un senso d’inquietudine più forte e una paura
viscerale che non provava da troppo tempo.
Sasuke tacque;
Naruto si sedette di peso su una delle sedie libere, con il cartone
svuotato ancora in grembo. Dopo qualche secondo fu proprio Sasuke a
dire, quasi circospetto:
“Madara...
tu non sei morto. Sei
in coma.”
*
La rivelazione
fu difficile da digerire, soprattutto il fatto che Hashirama non
sembrava altrettanto stupito. E quella volta fu seguendo gli impulsi di
Madara che i due uomini si ritrovarono senza più le soffici
comodità del divano, per sostare in piedi in una stanza
d’ospedale, forse il reparto di terapia intensiva.
Madara vide se
stesso, il suo volto, i capelli comunque pettinati, forse da qualche
infermiera, la maschera per l’ossigeno, i monitor con i
pigolii meccanici e la cartella clinica... tutte le stronzate
appartenenti a un ricovero in grande stile.
“No
– sussurrò, artigliando il letto dalle sbarre
metalliche che sentì gelide – no, no, no. Non
posso essere ancora vivo? Perché?”
Guardò
Hashirama che, con quel suo sorriso imperturbabile, gli
appoggiò una mano sul collo:
“Non
hai un bell’aspetto, credo fratture multiple a giudicare
dagli ultimi referti, qualche vertebra rotta ma nessuna lesione alla
spina dorsale. Sei un puzzle umano però per pura fortuna di
crolli non ti è andata male come a me. Sei vivo!”
Sembrava
felice. Madara invece lo guardava incazzato, spaventato e... deluso.
Perché lui era ancora lì, attaccato a quelle
macchine, operato, osservato, controllato, curato, mentre Hashirama era
sotto terra. Non poteva più fare l’amore con lui,
baciarlo, sentirlo ridere e parlare.
“Tu
lo sapevi.” Disse all’improvviso.
Gli
afferrò la maglia e gli si scagliò addosso:
“Lo sapevi, brutto figlio di puttana e non mi hai detto
nulla!”
Hashirama gli
prese la mani ma non le tolse da sé, le guardò,
con amore, infine guardò Madara:
“Dove
pensi che i miei istinti e i miei sentimenti mi abbiano trasportato,
appena ho realizzato di essere morto? – un leggero
sorriso – Da te, Madara. E una parte di te mi è
rimasta accanto, fino a ora, per aiutarmi a completare ciò
che non sono riuscito a fare in vita. Ora...”
“No!
– esclamò, sgranando gli occhi scuri –
Sta’ zitto, smettila! Non voglio essere vivo! Stacca tutto,
toglimi l’aria, folgorami, uccidimi. Che senso ha?”
Se Hashirama
avesse potuto piangere, l’avrebbe fatto. Ma, purtroppo, non
gli erano rimaste nemmeno le lacrime. Quanto era ingiusto tutto questo.
“Hai
una nuova storia da raccontare, non puoi andartene. E’ la
nostra storia, è quella di Sasuke, di Naruto, ma anche di
chi si tiene le cose dentro e non le tira mai fuori. Per paura dei
giudizi degli altri, perché crede sia la cosa più
facile, perché è considerato forte. Sono tanti i
motivi, noi li conosciamo tutti.”
Madara
sollevò quella maglia e se la portò alla bocca,
vicino alle narici. Respirò l’odore di Hashirama.
Sapeva di tempere e colori ad olio, di un giorno di primavera in cui
gli aveva fatto vedere le prime tavole del suo ultimo libro. Dopo,
avevano fatto l’amore.
“Eppure
ti sei tenuto dentro anche questo, Hashirama. Per tutto il tempo in cui
siamo stati assieme.”
“Non
l’ho fatto per te – ammise, guardandolo –
l’ho fatto per me. Per una volta. Volevo stare assieme a te e
godermi ogni attimo, finché sarebbe durato.
Scusami.”
Madara non
disse nulla. Le macchine ronzavano e l’ossigeno
s’immetteva nei suoi polmoni.
“Allora...
dovrò scrivere proprio un bel libro. Visto che non ci
saranno più i tuoi disegni.”
Rimasero
così, a stringersi, nel silenzio di una stanza
d’ospedale.
Sai comparve,
altrettanto silenzioso, ed entrambi seppero che era tempo di dirsi
addio. La presenza non disse nulla, si limitò a guardarli e
attendere.
“Madara...
avrei un favore da chiederti. Se ti trasmettessi un messaggio lo
potresti far avere a mia figlia?”
“Sono
pur sempre uno scrittore.” Accettò
quest’ultimo in un soffio.
Si guardarono.
“E’
ora per davvero.” Disse alla fine Hashirama.
“Sbrigati
ad andartene – commentò secco Madara –
visto che mi lasci indietro, vedi di fare le cose come si
devono.”
Questi fece
per dire qualcosa ma Madara lo baciò, mettendolo a tacere.
Avrebbe voluto mordergli il labbro, come se questo lo avesse potuto
legare a sé, costringendolo a restare.
“Non
è un addio, Madara. Quando sarai vecchio e stanco di questa
noiosissima Terra ti verrò a prendere. E ce ne andremo
insieme. Potrò vedere i successi che hai avuto,
vedrò mia nipote crescere, mia figlia diventare nonna, mia
moglie invecchiare. Potrò vedere Sasuke e Naruto stare
assieme, litigare, amarsi, invecchiare a loro volta. Non è
un addio – ripeté – ti amo è
presente, ogni singolo giorno.”
“Allora...
a tra qualche anno, Hashirama. Vedi di non farmi attendere
troppo.”
Il corpo di
Madara pianse. Tutte le lacrime che il suo spirito e quello di
Hashirama non avevano potuto versare.
*
Il ring della
palestra era vuoto. Tutti erano andati a casa dopo gli allenamenti
serali, Naruto compreso. Non convivevano ma ogni tanto dormivano
l’uno a casa dell’altro, cominciando a capire con
passaggi graduali le possibilità di condividere qualcosa
come gli stessi spazi.
Sasuke aveva
chiesto a suo padre di passare, settimane dopo che aveva annunciato di
aver lasciato Sakura e rinunciato al matrimonio. La notizia era stata
drammatica, accolta in famiglia come qualcosa
d’incomprensibile. Sorprendentemente Fugaku non aveva reagito
neanche troppo male: si era limitato a guardare il figlio, il quale gli
aveva chiesto del tempo per potergli parlare, loro due.
Non era stato
facile ma alla fine Sasuke aveva chiesto al genitore di vedersi alla
palestra, dove si erano allenati e lui era cresciuto. Se proprio doveva
concludersi qualcosa, tanto valeva che avvenisse in quel posto, sotto
quelle luci e su quel terreno altrettanto vissuto.
Sasuke aveva
ancora i guantoni e la tuta, quando Fugaku entrò e si
appoggiò alle corde per dirgli, prima che il figlio
scendesse:
“Rimani
lì, salgo io.”
Il ragazzo si
bloccò, fissandolo, ma non batté ciglio. Con un
cenno indicò dei guantoni appesi alla parete.
Fugaku se li
mise al collo, si issò sul ring e inspirò un
istante, guardandosi attorno, contemplando gli attrezzi, le vetrate
oltre le quali si vedevano le luci della via e osservando infine suo
figlio, con i capelli portati indietro e lo sguardo serio che
l’aveva sempre contraddistinto.
“Avanti,
su la guardia.”
Gli disse.
Istintivamente Sasuke lo fece. In quell’istante la gamba non
contò più nulla: c’erano solo loro due,
come tanti anni fa, quando Sasuke guardava suo padre prima combattere,
poi insegnargli. Tutto ciò che aveva imparato da lui, lo
aveva imparato su quel ring.
Gli
tirò qualche colpo, rapido, il ragazzo schivò,
difese e contrattaccò. Non riuscì a spostarsi
come avrebbe voluto ma realizzò che in quella schermaglia
nemmeno suo padre si stava muovendo dal proprio posto.
Ogni tanto
riprendeva il figlio con qualche parola rapida, magari per il modo in
cui teneva il gomito, le spalle, ma… erano solo minuzie,
perché in passato Fugaku si era abituato a correggergli ogni
singolo movimento, per quanto il giovane avesse un talento naturale. Si
fermò, quando il pugno di Sasuke gli arrivò,
controllato, a un millimetro dal viso e lui in contemporanea
alzò il braccio per deviarlo.
Rimasero
così, a guardarsi, con un leggero velo di sudore in volto e
la respirazione più veloce.
“Sei
diventato bravo.”
Ammise. Anche
se Sasuke aveva solo allenato, anche se non era diventato
quell’atleta che anni fa ci si aspettava.
Il boxeur
abbassò la guardia e ingerì quel complimento
inaspettato, per poi confessargli, fissandosi i guantoni:
“Devo
dirti una cosa.”
“Chi
ti ha detto di abbassare la guardia? Avanti –
sollevò il palmo coperto dai guanti imbottiti –
due pugni in rapida successione, ricordati del movimento del bacino.
Mai perdere di vista il tuo baricentro.”
Sasuke
assottigliò le labbra. Annuì.
Guardia. Pugno, pugno, preparati a
schivare, torsione eventuale.
Colpì,
Fugaku spostò un braccio per costringerlo a schivare.
“Io
– primo pugno,
espirò – sono gay.”
Altro pugno.
Fugaku lo attaccò, di nuovo.
“Non
ti ho detto di abbassare la guardia.” Ribadì il
padre, dopo che Sasuke pensò che non lo avesse sentito.
Ripeterono il
movimento.
“Cosa
sono questi attacchi? Ti sei rammollito? Più forza. E parla
anche più forte. Non sei combattivo, Sasuke.”
“Io
– alzò la voce – sono gay!”
“Più
forte!”
Sasuke lo
colpì con rabbia, sempre maggiore, veloce, rapido, potente,
le mani del padre indietreggiarono, come frustate:
“Io
sono gay, maledizione!”
Lo
urlò e l’eco ferì le pareti, assieme
alle travi metalliche, alla vernice scrostata, ai vetri annebbiati
dalla polvere e dallo sporco dell’inquinamento al di fuori.
I due
contendenti si guardarono, con la guardia sollevata, ansimando entrambi.
Poi,
improvvisamente, Fugaku annuì:
“Ora
stai attaccando per davvero.”
Sasuke
gettò il guantone a terra, perdendo decisamente il controllo
per la reazione del padre:
“Ma
hai ascoltato o no quello che ho detto?”
Eppure
già sapeva che il genitore aveva sentito tutto, ogni singola
parola. Sasuke aveva passato anni a credere che il proprio padre
avrebbe potuto dare di matto sentendo parole incisive come quelle, ben
lontane dalle evidenti aspirazioni paterne; invece, quando il giorno
della rivelazione era giunto, il ragazzo si era trovato davanti un uomo
orgoglioso che si era limitato a farlo combattere, come se fosse stato
il primo giorno su di un ring. Era sconvolto, Sasuke. E arrabbiato. Per
non aver mai cercato prima una qualche forma di confronto,
né compreso che genere di persona fosse quel padre tanto
idealizzato.
“Certo,
ti ho ascoltato.”
Gli
confermò infine Fugaku mettendosi i guantoni al collo,
appesi per i lacci. Aveva i capelli striati di bianco legati, lo stesso
sguardo un po’ altero del figlio.
“E
quindi? – domandò questi, disorientato –
Cosa devo aspettarmi adesso?”
Fugaku
sollevò un sopracciglio, fissando il ragazzo:
“Quindi cosa? Che credevi? Che ti cacciassi dalla palestra
che hai ereditato o che ti dessi una pacca sulla spalla?”
Sasuke non
seppe cosa rispondere. Se il genitore si fosse arrabbiato forse lo
avrebbe capito, sarebbe stato ciò che si aspettava. Ma
così…
Il padre
appoggiò una mano alle corde, abbracciando con lo sguardo
tutta la palestra:
“Non
ti voglio consolare o metterti in testa strane idee. E’ una
strada difficile, la tua. Ti daranno molti più calci sui
denti. Ma così come quella gamba non ti ha mai fatto
smettere di salire sul ring e di colpire, esattamente come oggi hai
colpito me, allo stesso modo chi sei o chi ami non deve farti cessare
di combattere nella vita e dimostrare quanto vali.
Ci siamo
capiti?”
Lo
guardò, le labbra sottili severe, simili a quelle di un
comandante, per quell’impostazione quasi marziale della voce
e del corpo, nonostante la boxe fosse una danza che non seguiva passi
preimpostati.
Sasuke
annuì. Raccolse il guantone, rimanendo un istante chinato
senza piegare bene il ginocchio, poi si tirò su, deglutendo
mentre lo faceva.
“Naruto
– aggiunse il padre, alzando una corda prima di scendere
– continua ad allenarlo. Portalo in alto. Ci può
riuscire solo con te.”
Si
abbassò e con un salto tornò sul pavimento in pvc
della palestra. Sasuke, in piedi, sul ring, lo guardò e
capì che suo padre non aveva mai davvero creduto che il
figlio avesse smesso di combattere, in nessun singolo giorno della sua
vita.
*
Nella sala
parto si muovevano infermieri, l’ostetrica e il ginecologo,
tutti organizzati, coordinati come una squadra di pallavolo, con i
propri ruoli e posizioni che doveva portare a casa il risultato.
Hana era su
quel lettino, con le gambe divaricate, la respirazione accelerata che
tentava di andare a ritmo con le contrazioni e le spinte, quasi come se
assieme all’ossigeno potesse anche inghiottire il dolore.
Da qualche
parte, nella sua casa presa assieme al compagno, in un cassetto coi
suoi oggetti personali c’era la lettera che le aveva
consegnato niente meno che Madara, ripresosi dall’incidente
qualche mese dopo il funerale del padre. Non si erano parlati: lui non
aveva lanciato alcuna provocazione, lei non aveva voglia di cercare uno
scontro. Era stanca, con il pancione enorme e la consapevolezza che
tanto non avrebbe potuto fare granché per cambiare le cose.
Suo padre le
mancava terribilmente e se avesse parlato con Madara avrebbe finito per
scoppiare a piangere mentre gli gridava contro, quasi fosse stato lui e
non il destino a portarglielo via.
Non era
riuscita a leggere il contenuto di quella busta. Ma ora, mentre sua
figlia stava nascendo, avrebbe voluto davvero aprire quel pezzo di
carta e leggerlo, perché forse almeno così quel
sentimento di nostalgia si sarebbe ammorbidito. Era sicura che ci fosse
suo papà, in quelle righe.
In
realtà, però, anche se Hana Senju non poteva
accorgersene, Hashirama era lì, di fianco a lei. I fantasmi
non seguono le normali leggi della fisica, ignorano le dimensioni,
esistono, in un loro personale ritaglio di mondo.
Fu
l’ultimo luogo in cui egli andò, prima di
andarsene per sempre dopo aver detto addio a Madara.
Vide sua
figlia partorire, dando alla luce una splendida bambina, la sua nipote.
Alla quale non avrebbe potuto leggere le storie di Madara, che non
avrebbe potuto ritrarre per i suoi quadri, portare a passeggio
scherzando per quanto gli altri nonni fossero indietro rispetto a lui,
che ancora girava coi capelli lunghi.
Quante cose,
di cui non sarebbe mai stato parte.
La
sentì urlare, il primo vagito di vita. Urlò come
se fosse già arrabbiata con quel mondo imperfetto, per tutte
le delusioni che avrebbe subito, per tutte le grida, di gioia e di ira,
di paura e di entusiasmo.
Un battito di
ciglia e non c’erano più dottori, c’era
solo lei, Hana, che stanca teneva tra le braccia Tsunade, con qualche
ciuffo biondo che già spuntava sulla testa, cresciuto
selvaggio dentro l’utero. Poi c’era Mito, sulla
sedia.
Si era
addormentata.
Hashirama si
abbassò, appoggiò il capo sul torace della
neonata, così vicina al petto della sua mamma. La
sentì respirare, a fondo, quasi volesse divorare la sua vita
e crescere.
Socchiuse gli
occhi e le abbracciò, le tre donne che gli avevano dato
tanto e che avrebbero continuato senza di lui, vivendo, lottando, come
ogni altro essere umano. Sentì che avrebbe potuto piangere
quando appoggiò l’orecchio sul tessuto morbido
della tutina e udì il cuore battere, quando con il petto toccò
Hana, fino ad abbracciarla e sentire la mano della moglie che tante
volte aveva stretto in vita.
“Perdonatemi.
Vi voglio bene.”
Hana
aprì gli occhi. C’era il sole e un leggero vento
passava dalla finestra parzialmente aperta. Per un istante, un solo,
brevissimo istante, le sembrò di vedere suo padre
avvolgerla, i suoi capelli che scivolavano su di lei come quando
giocavano a chi aveva le ciocche più lunghe, le mani forti
che l’avevano sollevata quando cadeva e tenuta stretta nei
momenti importanti della sua vita. C’era sempre stato, in
spiaggia da bambina che l’accompagnava se non voleva parlare
coi suoi coetanei i primi giorni, durante la consegna del diploma, il
giorno della laurea o quando era andata a fare la prima ecografia.
E anche
allora, in quel risveglio, le sembrò che lui fosse
lì, ad abbracciarla e a chiederle scusa, dicendole che le
voleva bene.
Le
sfuggì una lacrima.
Sbatté
le palpebre e vide solo la sua mamma che stava sorridendo, nel sonno
più sereno di tutti quei mesi, e sua figlia che
già era diventata la sua vita.
“Mi
manchi, papà. Ti voglio bene anch’io.
Sempre.”
Quando giorni
dopo tornò a casa, lesse la lettera.
*
Hashirama
Senju negli anni a venire vide tante cose, esattamente quelle che aveva
previsto, o quasi.
Vide Sasuke e
Naruto iniziare a convivere, allenarsi, Naruto cominciare a vincere gli
incontri, anche se ogni tanto tornava a casa con un occhio pesto o il
labbro spaccato e Sasuke lo aiutava a reggere il ghiaccio, facendogli
notare pignolamente e con zero sensibilità le sue falle
difensive.
Ormai avevano
quasi cinquant’anni; dopo un’onorata carriera ed
essere quasi andato alle olimpiadi con il suo allenatore leggendario,
Naruto aveva appeso i guantoni al chiodo e si era dedicato ad allenare
i ragazzi, ma era scoppiato a ridere di gioia quando si era visto
arrivare Tsunade, con lo sguardo di sfida, il sorriso determinato, e il
DNA di Hashirama. Voleva imparare a tirare di boxe, persino sua madre
per qualche strano motivo non era contraria, sebbene preoccupata di
vederla tornare senza denti, esattamente come all’epoca erano
state preoccupate Mikoto e Kushina.
Sasuke lo
aiutava, anche se nonostante le terapie la gamba ogni tanto gli
lanciava delle fitte antipatiche, come per ricordargli
dell’età che avanzava.
Con il tempo,
comunque, si erano rivisti con Sakura, che si era sposata un fotografo
naturalista conosciuto a uno degli eventi organizzati con Hinata, sua
collega ormai storica; ogni tanto lei viaggiava per il mondo assieme al
marito, mandando a coloro che erano ormai i suoi migliori amici le foto
di dov’era stata.
Il tempo,
appunto, consente di perdonare e rimarginare qualche ferita. Non tutte
ma... è un buon medico da campo, in fondo, se non altro
nella costante battaglia per vivere.
E poi...
c’era Madara. Che, nonostante il fumo e qualche birra di
troppo, era arrivato alla soglia degli ottantanni suonati. Aveva i
capelli bianchi che ricordavano lana e le rughe sul volto, specie sotto
le borse perenni che lo avevano sempre contraddistinto.
Era stato
inonandato di premi, sebbene la stampa lo avesse sempre considerato un
uomo un po’ eccentrico e dal carattere abbastanza
indisponente. Ma questo non aveva impedito al pubblico e alla critica
di apprezzare i suoi lavori, anche se da quando il suo illustratore era
morto nessuno aveva più disegnato nemmeno i suoi visionari
racconti per bambini.
Gli avevano
chiesto di cedere i diritti d’autore per fare un film sul
libro che parlava di fantasmi che aiutavano dei ragazzi a dichiararsi,
questo era stato il riassunto sostanziale della trama, visto che le
tematiche appetitose per il pubblico desideroso di schierarsi dalla
parte degli sfigati sembravano promettere grandi incassi ai botteghini.
Ma Madara aveva rifiutato, dicendo loro di incassare il suo vaffanculo.
Un pomeriggio
di primavera, Madara era seduto sul portico di casa sua. Si era preso
una villetta in campagna, lontano dalla gente. Qualche giorno prima
Sasuke e Naruto erano passati a trovarlo e lui si era bevuto un
bicchiere con loro, in memoria di quando aveva fatto ubriacare a merda
Naruto.
Quel giorno
Madara era seduto sulla sedia, aveva accanto un quaderno
perché l’ispirazione poteva cogliere in qualsiasi
momento, la pastiglia per la pressione che non doveva scordarsi di
prendere e un bicchiere d’acqua. Aveva sete, anche se non
faceva troppo caldo: c’era il sole e l’aria fresca
profumava di fiori.
Con
l’età Madara si era riscoperto nostalgico.
E quello
stronzo di Hashirama non si era fatto più vivo.
L’aveva lasciato, dimenticato, e Madara non aveva mai
più trovato nessun altro, eccetto qualche incontro casuale
che si era sempre rifiutato di approfondire. Andava bene
così, da quando anni e anni fa aveva consegnato la lettera
con le parole di Hashirama: Hana sembrava averlo in un certo senso
perdonato, per come si erano svolti gli eventi, e anche Mito aveva
capito tante cose.
Si
portò una mano al petto. All’improvviso ebbe male,
un male tremendo.
Chiuse gli
occhi e appena li riaprì vide davanti a sé
Hashirama, coi suoi capelli castani, lunghi e belli come Madara ancora
li ricordava. Era giovane, esattamente come quando si erano lasciati.
Mentre lo scrittore era invecchiato, doveva andare al bagno
più spesso di quanto volesse, le ossa ogni tanto gli
facevano male e il cuore gli tirava qualche simpatico scherzo.
Si
vergognò, di essere così vecchio ai suoi occhi.
“Ce
ne hai messo di tempo, eh, stronzo?”
Gli
tremò la voce. La vecchiaia, giusto?
Hashirama gli
tese una mano e lo fece alzare; all’improvviso tutti i dolori
dovuti all’artrosi erano scomparsi.
“Il
mondo meritava di avere le tue opere, tutte quelle che hai potuto
concedere – lo guardò e gli affondò le
mani tra i capelli bianchi – ho sentito ogni tuo trionfo,
successo e fallimento. Sei e resterai per sempre l’uomo
più bello che io abbia mai conosciuto, Madara
Uchiha.”
Le sue rughe,
l’anzianità, i dolori, le delusioni... non
contavano più nulla. C’erano solo loro due, in
quel portico, circondati dai prati, dai fiori, dai libri e dai disegni
di Hashirama protetti dietro quadri di vetro, per non venire
danneggiati dal tempo. Lo stesso tempo che cura e che consuma.
Quel giorno di
primavera, circondato da Hashirama e da tutto ciò che era
stato in vita, lo scrittore Madara Uchiha morì, lasciando
per sempre la Terra, per raggiungere destinazioni forse più
grandi.
Ebbe il suo
funerale ma ciò che contò di più nel
suo cuore fu pianto da Sasuke e Naruto che, quel giorno, cominciarono a
leggere il libro, quel libro che in fondo parlava anche di loro e che
fino ad allora non avevano mai sentito di essere pronti a leggere.
D’altronde...
c’era un momento per ogni cosa.
Cara
Hana, so che riceverai questa lettera in modo un po’
anticonvenzionale ma ti prego di leggere queste mie poche righe
– sì, prometto di essere breve, sei sempre stata
una tipa frettolosa e determinata, no?
Cominciamo
subito con questo: perdonami. Perdonami per averti fatto scoprire
così, senza parlarti, questa parte di me. Non ti chiedo
però perdono per essere quello che sono, né per
amare Madara.
Sì,
lo amo.
Conobbi
Madara quando avevo vent’anni e tua madre era incinta di te;
avevo comunque deciso di costruire una vita con Mito e crescere te, che
a tua volta darai alla luce la figlia che porti in grembo.
Non
mi aspettavo che avrei mai potuto amare così tanto una
persona, eppure, nonostante tutto non ho mai voluto separarmi da voi.
Non mi pento delle mie scelte, sarebbe facile con il senno di poi, ma
anche fosse... come potrei pentirmi di qualcosa che mi ha dato te?
Non
ti chiedo di capirmi, ti chiedo di non odiare Madara per ciò
che ha sempre rappresentato: ha sacrificato tanto, per consentirmi di
non dover scegliere tra lui e voi. Stai vicino a tua madre, forse
capirà che nonostante tutto amavo anche lei.
Ti
auguro solo, nella vita, di amare e di viverla fino in fondo, questa
vita. Il passato è andato, non c’è modo
di cambiarlo. Ma possiamo ancora cambiare ciò che siamo: non
esitare a farlo, se questo ti rende felice.
Accogli
il cambiamento, non negarti nulla di quello che potresti essere,
e… ama, grida, ridi, urla al mondo ciò che sei,
quello che desideri, cosa ti fa stare bene e cosa odi.
Prendi
un microfono, registra la tua voce, dì tutto quello che
provi. Poi, stop, torna indietro e riascolta. Finché vorrai.
Per
non dimenticare chi sei e ciò che desideri.
Sproloqui
di una zucca
Ebbene sì,
la storia è conclusa. Credo mi rappresenti: nell'ironia e
nello spirito nostalgico, forse malinconico, che metto nel pensare alla
vita, alle occasioni mancate, al passato e al futuro. Spero, in
sostanza, che questo scritto forse semplice nella sua stranezza possa
avervi trasmesso qualcosa.
Anche se mi hanno
accompagnato per pochi capitoli mi mancheranno Sasuke e Naruto, con le
loro indecisioni e le cose non dette, perché riflettono
tanti errori che noi realmente tendiamo a fare: mi immagino questi due
allenarsi assieme, a cinquant'anni, con una Tsunade ormai ventenne
(pardon la discrepanza anagrafica ma, diversamente, Hashirama e Madara
avrebbero dovuto essere già belli che anziani una volta
defunti). Ho trovato profondo, in linea con la narrazione, il confronto
tra Sasuke e suo padre.
Mi mancherà
Hashirama, la sua compostezza, la sua nostalgia intrinseca. E mi
mancherà immensamente Madara che non è stato
facile dipingere anziano, coi suoi acciacci e il brutto carattere. Me
lo sono immaginato, seduto sul portico, prima di morire.
Il play again del titolo della storia e il backwards etc. contenuti in
ogni capitolo, sono i tasti per mandare indietro o avanti una canzone:
l'idea di fondo è contenuta nel messaggio di Hashirama, che
invita la figlia a ripetersi sempre e ricordarsi cosa desidera
veramente e cosa la fa stare bene. Un atto d'amore per se stessa.
Grazie
per avermi seguito fino a qui, spero che potremo rivederci in altri
lavori che scriverò.
Questa volta vi lascio non con
un'immagine, bensì una citazione presa da un libro e da
un'autrice che personalmente adoro: Disorderly Knights (in italiano
tradotto come Il Torneo dei Cavalieri) di Dorothy Dunnett - anche la
citazione a inizio capitolo appartiene sempre allo stesso libro.
Credo che riassuma
perfettamente la voglia di vivere, vivere appieno, anche in una persona
che potrebbe sembrare distante o insensibile; senza passioni, senza
qualcosa che ci consenta di andare avanti e sentirci vivi, ci sarebbe
solo il vuoto.
“What
does anyone want out of life? What kind of freak do you suppose I
am? I miss books and good verse and decent talk. I miss women, to speak
to, not to rape; and children, and men creating things instead of
destroying them. And from the time I wake until the time I find I
can’t
go to sleep there is the void—the bloody void where there was
no music
today and none yesterday and no prospect of any tomorrow, or tomorrow,
or next God-damned year.”
“Cosa
vogliono tutti dalla vita? Che
razza di fenomeno da baraccone pensate che io sia? Mi mancano i libri e
la bella poesia e una piacevole discussione. Mi mancano le donne, a cui
parlare, non da stuprare; e i bambini, gli uomini che creano le cose,
anziché distruggerle. E dal momento in cui mi sveglio fino a
quello in
cui mi rendo conto di non riuscire a dormire, c’è
il vuoto – il
dannatissimo vuoto in cui non c’era musica, né
oggi, né ieri e nessuna
prospettiva di alcun domani, che sia l’indomani stesso o il
prossimo
maledettissimo anno.”
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