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Autore: Happy_Pumpkin    29/08/2017    7 recensioni
Madara Uchiha e Hashirama Senju: uomini, amanti, colleghi di lavoro. Travolti da un satellite che andava a fuoco e morti forse in seguito all’esplosione.
Dalla presa di coscienza della propria morte, cominciava anche la vita di altre due persone: Sasuke e Naruto.
Madara, quella volta, non poté fare a meno di sgranare gli occhi.
“Mi vedete?"
“Certo che ti vediamo.” Replicò asciutto Sasuke.

Ah, i dialoghi pieni di emozioni di due Uchiha.
[SasuNaru; MadaHashi – humor anticonvenzionale AU]
Genere: Commedia, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Hashirama Senju, Madara Uchiha, Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha | Coppie: Naruto/Sasuke
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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R.I.P. & Play Again
Riposa in Pace… Pausa – una storia di redenzione e seconde occasioni.






“I would give you my soul in a blackberry pie; and a knife to cut it with.”
“Ti darei la mia anima in una torta di mirtilli; e un coltello con cui tagliarla.”
The Disorderly Knights – Dorothy Dunnett


IV

Flash forward… and play again - Soul




Sasuke si era passato una mano sul volto, stropicciandosi gli occhi quasi con disperazione. In parte per quella dannatissima telefonata con Naruto, che non sembrava davvero in sé, in parte perché la serata era stata atroce, tra musiche latino americane e cocktail dai nomi assurdi; per non parlare delle chiacchiere sui nomi dei bebé, i segreti di una cerimonia perfetta e le quote di calciomercato. Una merda, insomma.

Con la scusa di prendere un po’ d’aria uscì fuori, dato che ormai l’amico doveva essere prossimo ad arrivare; fu tranquillo che, visto l’andamento delle conversazioni in sala, almeno per un po’ Sakura non lo avrebbe seguito.
Dopo qualche minuto se lo vide arrivare: aveva il passo abbastanza tronfio, forse più perché stava cercando di stare correttamente in piedi che per reale marzialità dei movimenti, i vestiti erano stropicciati e i capelli scombinati.
Sospirò: gli era mancato. Anche in quelle condizioni riusciva comunque a trovarlo attraente; pessimo, davvero pessimo.
Vai, Madara, colpisci e affonda il bersaglio!
Naruto si caricò a mille. Madara era proprio un figlio di puttana, ma era simpatico e capiva al volo gli altri, per quanto dicesse di detestarli. Inoltre, quella sera era sicuramente più lucido di lui, percui Naruto trovò un’ottima cosa il fatto che lo scrittore avrebbe parlato al posto suo.
“Col cazzo, ora ci pensi tu. E’ il tuo uomo, mica il mio!”
Sasuke sollevò un sopracciglio: con chi stava parlando Naruto? Uomo? Per un attimo lo sfiorò addirittura l’idea che lui si fosse visto con un altro.
“Che stai dicendo?” gli chiese brusco, avvicinandosi di un passo.
In quel preciso momento, Madara uscì dal corpo di Naruto ma non si materializzò di fianco a lui. Si ritrovò invece accanto ad Hashirama, seduto presso la vetrina del locale e intento guardare i due ragazzi, ora veramente soli nella piazza illuminata dalle luci cittadine.
Naruto barcollò un istante: fu come stare su una giostra. Spalancò le falangi e ritrovò l’equilibrio, ringraziando di non aver vomitato seduta stante. Detestò Madara, anche se in fondo lo aveva portato fino a lì.
Puntò un dito contro l’amico di sempre, tanto per darsi un contegno:
“Io e te, dobbiamo parlare!”
Chissà perché, ma quando c’era Madara quella frase risultava molto più figa.
Sasuke fece una smorfia: “Naruto! Ma che cazzo hai fatto? Puzzi di birra e… hai fumato?”
“Sì, mammina, ho fumato – lo scimmiottò – e mi sono scolato tre birre come se non ci fosse un domani. A proposito, mi sa che devo pagare il conto.”
Ridacchiò, cercando di rimanere serio.
Okay, sta delirando. Sasuke lo prese per le spalle, ignorando l’odore di birra e nicotina.
“Mi vuoi dire che succede? Ti riaccompagno a casa.”
“Così facciamo sesso.” Annuì Naruto.
Sasuke sgranò gli occhi, sconvolto. Sì che Naruto era sempre stato piuttosto diretto ma sentirsi dire da lui quelle cose, in quel posto, con tutta la gente dentro che aspettava il futuro marito perfetto, fu comunque strano e… bello, in molteplici sensi. Anche se il ragazzo era ubriaco marcio.
“Certo, sicuro – gli rispose seccato ma condiscendente, per poi prenderlo per il braccio – dai, dico agli altri che ti riaccompagno.”
Si voltò e vide Sakura, in piedi. Dietro c’era anche qualcuna delle sue amiche, di quelle coi pargoli lasciati ai mariti dentro il locale, il vestito alla moda e i capelli appena fatti dal parrucchiere.
Era rimasta immobile e lo guardava.
“Sakura?” domandò Sasuke. La domanda gli era sorta istintiva. Perché era un interrogativo del tipo… quanto hai sentito?
Avrebbe potuto comunque giustificare quell’uscita di Naruto con dai, guardalo, è ubriaco da far schifo, non sa quello che dice.
“Che ci fa lui qui?” domandò la donna, ostile, fissando il ragazzo dai capelli biondi.
“Che ci fai tu qui? Questo è suolo pubblico, sai?” replicò Naruto.
Non avrebbe voluto essere così aggressivo; Sakura era una brava persona, anche se a volte si circondava di gente vuota per colmare la sua solitudine.
Sasuke sospirò, seccato: “Lo sto riaccompagnando a casa.”
Mmmh, forse non era esattamente la cosa più saggia da dire.
“Che ci torni da solo. Chiama un taxi. Hai una serata e degli amici che ti aspettano!”
“Tipo trucco e parrucco là dietro? Begli amici! Io sono suo amico, io devo stare con lui.”
Disse quelle ultime parole quasi con disperazione. Sasuke lo guardò, stringendogli il braccio più forte.
Sakura si sentiva braccata, messa alle strette mentre le cose stavano precipitando e Naruto era lì, chiaramente non in sé, che rischiava di rovinare tutto, ogni equilibrio tenuto in piedi fino ad allora; cominciò a sentir cedere la maschera che aveva tenuto su in quegli anni.
“Smettila. Stai zitto.” Gli disse. Non urlò ma aveva la voce dura, come di chi stesse trattenendo tutto quello che aveva dentro.
Qualcuno in piazza si era fermato a guardare la scena.
Naruto la fissò, per poi scuotere la testa e scrollare le spalle:
“No, non sto zitto – si voltò verso Sasuke, aggrottò le sopracciglia e aggiunse quasi senza rendersene conto –

non ti sposare. Ti prego, non farlo.”

Mentre camminava fino a lì avrebbe voluto gridarlo platealmente quel non ti sposare, correre con falcate da film epico e scrollare Sasuke per riportarlo alla ragione. Ma, ovviamente, le cose non andavano mai come ci si aspettava, infatti Naruto si era trovato lì, con Sakura incazzata, il suo fanclub, e aveva detto quelle parole così, quasi con disperata pacatezza.
Si sentì stupido.
Il modo in cui lo guardava Sasuke lo fece sentire stupido, ed egoista. Perché lui dopo tutto quel tempo, dopo aver lasciato correre la vita del suo compagno di allenamenti senza far nulla, a pochi giorni dal matrimonio se ne arrivava ubriaco a chiedergli di non sposarsi. Una tattica geniale, proprio.
Sakura strinse i pugni, si avvicinò e diede uno spintone a Naruto, aveva gli occhi lucidi e le labbra che tremavano ma lo sguardo era fieramente arrabbiato:
“Sei uno stronzo! Uno stronzo! Perché, perché adesso? Vattene!”
Quella volta aveva finito per gridare e la sua voce era riecheggiata in tutta la piazza, al punto che la città intera sembrava essersi zittita.
Naruto allargò le braccia e non oppose resistenza, quasi fosse stato in arresto.
Non disse nulla, si voltò e camminò, passo dopo passo, fino a cominciare a correre con un’andatura un po’ ciondolante; tutto attorno a lui sembrava così follemente instabile da fargli credere di star volando. Il fatto era che non voleva nemmeno andarsene ma sentiva di star perdendo l’autocontrollo: la rabbia, la voglia di prendere tutti a cartellate e gridare era troppa. Non desiderava generare una sorta di compassione in Sasuke; lui avrebbe potuto mandarlo a fanculo, ne aveva ogni sacrosanto diritto, ma la pietà poteva anche riservarla a Sakura.
Sasuke lo guardò andare via, la fidanzata lo fissò, con la voce che le tremava e la voglia di vomitare, perché la tristezza sapeva attaccare alla gola, come il migliore degli assassini.
Più che le parole di Naruto, capaci di farla arrabbiare, ciò che davvero l’aveva ferita era stata l’assenza di reazione da parte del proprio ragazzo e futuro marito. Perché quest’ultimo avrebbe dovuto rispondere all’esagitato con cui passava tanto tempo assieme di smetterla di dire cazzate, non starsene zitto,visto che lui amava Sakura e quel matrimonio era una cosa che dopo anni di fidanzamento, di amici che si sposavano e figliavano, rappresentava un traguardo desiderato da entrambi, no?
I genitori di Sasuke erano così contenti, sembravano quasi sereni non appena la coppia aveva annunciato loro il matrimonio. E Sasuke? Dov’era la sua esultanza? Era sempre stato severo, in fondo, non si lasciava mai trasportare da eccessivo entusiasmo, quindi era normale che... che...
“Tu non vuoi sposarti, vero?” gli domandò, riuscendo a non far tremare la voce.
L’allenatore avrebbe voluto seguire Naruto, in principio. Dirgli tutte le parole che aveva tenuto dentro e non sopportava che l’amico, messo alle strette dalla scadenza impellente di un matrimonio e ubriaco, l’avesse clamorosamente anticipato, prendendolo in contropiede. Ma come poteva abbandonare lì Sakura, anche se si era pateticamente ripetuto allo specchio un discorso per lasciarla? Con le amiche che, già le sentiva, bisbigliavano tra loro domandandosi se quei due fossero gay.
Era brutta come parola, da sentire così, sussurrata con il sapore della condanna, in quella piazza dalle luci artificiali e il pavimento calpestato.
“Voi ve ne andate fuori dai coglioni?”
La sua voce suonò come una frustata, secca, persino violenta. Le ragazze sgranarono gli occhi, provarono a protestare ma Sakura, con fare apparentemente gentile, le esortò, dicendo loro che dentro le aspettavano figli e mariti. Sembravano quasi malattie.
Tornò a guardare Sasuke, che le pareva sempre così bello e lei invece si sentiva tanto brutta, un fallimento di donna.
“Dimmi... dimmi che contiamo entrambi.” Gli disse. Il matrimonio... oh, suonava tanto come una catena, attorno a loro.
Per Sasuke non fu affatto facile ammettere tutto quello che disse in seguito, per nulla. Aveva vissuto tutti quegli ultimi anni sforzandosi di essere una persona migliore, di andare bene a lavoro, di ottenere i suoi personali successi, di archiviare la questione di Naruto razionalizzando e razionalizzando, di considerare qualcosa di temporaneo persino un fattore tanto determinante quale il sesso.
Quasi come se andando poi a letto con Sakura si annientasse tutto il resto.
Lui strinse i pugni e le disse, guardandola negli occhi:
“Sono io, quello stronzo. Perché vorrei davvero dirti che andrà bene, che sarò un uomo esemplare e che noi siamo la scelta più importante – prese un respiro, le labbra si assottigliarono per poi aprirsi appena quando ammise – ma non è così.”
Sakura si sentì morire. Fu come se le illusioni di anni fossero state svelate: il mago Sasuke le aveva spiegato il suo trucco. Però… no, non era Sasuke il mago, era sempre lui, l’Amore, quello stesso amore che aveva colpito Madara, e Hashirama, e tutti coloro che rimanevano incantati dalle colombe, dai fiori e dalle carte, dalle monete che saltavano tra le dita, una per ogni battito perso, mille, per ogni volta che il cuore batteva più forte e i compromessi sembravano accettabili.
Le sfuggì una lacrima, poi dopo aver stretto un istante i denti gli disse, asciugandosi gli occhi con un gesto brusco: “Quindi? Che cosa stai facendo ancora qui?”
Avrebbe potuto insultarlo ancora, denigrarlo, rendere più ferocemente viva l’idea che con Naruto non fossero mai stati veramente solo amici, ma non volle. Da come l’uomo la guardava, dalle sue parole – perché in fondo lo conosceva da un quantitativo di tempo sufficientemente lungo – Sakura comprese che forse Sasuke era ancora più confuso di lei. Prima di aver mentito a lei, infatti, lo aveva fatto con se stesso.
E Sakura era una donna orgogliosa, intelligente, anche se ferita e con la voglia di prendere a pugni quella faccia che amava, incapace di muovere le labbra per sentirsi dire ciò che avrebbe desiderato.
Oh, se solo tu potessi prendere il mio posto, Sasuke.
Quest’ultimo chiuse un istante gli occhi, poi li riaprì e mosse la bocca. Le labbra sembravano formare una scusa, una promessa di parlarsi e di spiegare a tutta la gente che aveva aspettative su di lui, che tali aspettative sarebbero state disattese. Sakura non lo sapeva, non riusciva a mettere bene a fuoco la vista; lo vide voltarsi e cominciare a camminare, con la gamba che non sarebbe mai stata la stessa da prima dell’incidente, quando Sasuke ancora correva, come se non volesse più fermarsi.
Le parole. Maledette, ancora loro. Ne esistono a migliaia, in ogni lingua del mondo, ciascuna con le sue sfumature. E quando serve davvero ne usiamo sempre così poche, oppure finiamo per non usarle affatto.
Se non si è abituati nemmeno a sentirsele dire, quelle parole, poi è più difficile reagire; era valso per Sakura e allo stesso modo valeva anche per Sasuke. Che sembrava aver atteso tutto quel tempo solo che Naruto gli dicesse di non fare qualcosa, esortandolo a ribellarsi, talmente era nauseato dalla passiva accettazione di ciò che accadeva, senza provare pietà per il povero amico storpio.
Quindi... sì, Naruto gli aveva letteralmente sparato in faccia la sua richiesta, nel peggiore modo e momento possibile. E Sasuke non aveva più nessuna ragione per tornare indietro, anche se c’era Sakura, la sua famiglia, suo padre... lo avrebbero odiato? Forse. Compatito? Ancora più probabile.
Sbatté un pugno contro il muro.
“Dannazione, stupida, maledetta gamba – percorse il marciapiede, facendo scostare la gente, infine gridò con rabbia – Naruto!”
Fu quasi come essere in palestra, sul ring. Avrebbe voluto riprendere l’amico, dirgli che come ogni volta aveva la guardia scoperta, ma quella sera era stato Sasuke a viaggiare con il petto esposto e Naruto era arrivato, con il suo attacco più splendido e forte di sempre, affondando le nocche fin dentro il cuore. Terribile ma anche... liberatorio.
Eppure la gamba era sempre quella, in un modo o nell’altro, e faceva dannatamente male.
Poi vide comparirgli accanto Hashirama, che gli sfiorò le spalle con la mano:
“Madara ha fatto di testa sua, non vedo perché dovrei agire diversamente – appoggiò il palmo, poi gli chiese – permetti?”
Ma non attese risposta di Sasuke, perché prese possesso del suo corpo e ignorò tranquillamente le proteste del possessore del corpo in oggetto, che credeva di non avere più tempo.
“Oh, credimi, so cosa voglia dire aver perso tempo. Tienti forte, smuoviamo un po’ questi legamenti.”
Hashirama sentiva ogni tratto del corpo di Sasuke, ogni osso, cartilagine, centimetro di pelle o lo scorrere del sangue, esattamente come percepiva in maniera sconvolgente il mondo attorno. Si stupì nel reputare tanto belle le luci della città, la gente che parlava per le strade, le statue, i musei, le fontane con la loro acqua scrosciante. Cose banali, di tutti i giorni.
Corse, Sasuke. Dopo tanti anni, sentì le gambe distendersi, non avvertì più il male ma solo l’impatto dei piedi sul terreno e la sensazione dell’aria sulla pelle. Si allontanò il malessere per Sakura, per ciò che gli avrebbe detto suo padre, per i giudizi che minavano il suo ingombrante orgoglio. Tutto quello che era stato sembrò così insignificante, paragonato al sentirsi... libero. Esattamente come Hashirama, anche se egli non  era nel suo corpo, poté percepire un’ultima volta il mondo.
“Naruto!” gridarono entrambi.
Come se gli avessero sparato, boccheggiando Naruto si voltò, riuscendo però ad arrestarsi solo dopo aver percorso stordito ancora qualche metro.
“Sasuke?” domandò, quasi in un sussurro. Egli era lì, davanti a lui, niente Sakura, cene o altro. E... sembrava aver corso. Sgranò gli occhi.
“Più o meno. Ti restituisco il pacchetto completo. Madara è per caso...”
“No, non è più qui, non dopo aver cercato di farmi inciampare almeno.”
Ma... Hashirama, perché era evidentemente lui, non era già più nel corpo di Sasuke. C’erano davvero solo loro due, oltre al resto della città.
“Guarda che mi hai fatto fare.” disse l’allenatore, lanciando un’occhiata alla gamba che ora sembrava essere tornata il solito arto danneggiato di sempre. Non faceva male ma... correre lo aveva fatto stare per un istante sopra il resto del mondo, anche se aveva toccato solo la terra. Quella frase sembrava infatti riferita a ben altro.
“Mi spiace.” Fu tutto quello che Naruto riuscì a dire.
“Quelle parole – intervenne Sasuke all’improvviso – intendevi dirle per davvero?”
“Sì, sarò anche un po’ ubriaco ma so quello che dico e sostengo, mica lo faccio per caso...”
Stava per dire altro, per straparlare come al suo solito e mangiarsi qualche parola nel mezzo, con l’idea che se avesse taciuto magari Sasuke gli avrebbe finalmente dato del coglione per porgergli i suoi saluti e addio.
Ma Sasuke lo afferrò per la maglia, con rabbia, e lo portò di fronte a sé.
“Lo sai che per quelle parole ho mandato tutto a fanculo? Ciò che credevo di aver costruito in anni... volatilizzato, nel giro di dieci minuti. Per tre vocaboli messi in croce detti da un ubriaco – schioccò la lingua, mordendosi un labbro che si distese in un sorriso ironico – devo essere proprio disperato, vero?”
Naruto lo fissò. Una parte di sé, quella più squisitamente egoista, fu in un certo senso felice, mentre l’altra si rese conto di aver a sua volta gettato nel cesso tutti i buoni propositi di non immischiarsi nell’andamento naturale della vita del migliore amico.
“No. Cazzo, Sasuke, io non credevo che tu avresti davvero fatto una cosa simile.” gli si torse la lingua. Smise di parlare, sarebbe stato ipocrita cercare di riparare qualcosa che lui stesso aveva contribuito a sconquassare.
“Stai ritrattando?”
“No.” Ammise sinceramente, senza più pensare.
“Bene. Perché io non ho più intenzione di tornare indietro.”
Lo guardò un istante, con quel suo cipiglio alterato, i capelli lunghi tutto sommato ordinati e gli occhi scuri profondi. Sembrava incazzato. Eppure, sostanzialmente, gli stava dicendo che era lì per lui, perché era tempo di mettere finalmente ordine a tutto ciò che c’era d’indefinito nella loro reciproca esistenza.
Già, solo Sasuke poteva esporsi in maniera così tanto contraddittoria e far sentire comunque Naruto come se fossero nel ben mezzo di una delle loro litigate migliori.
Peccato che l’espressione non contò più nulla. Perché Sasuke, alla fine, gli strinse le mani sulle spalle e... lo baciò, lo baciò con la stessa disperata passione che Naruto aveva messo nel chiedergli di non sposarsi. Anche se quello stupido puzzava di alcool e sigaretta.
Qualcuno si girò, altri commentarono ma nessuno osò fermarsi, perché... sì, perché la vita andava avanti.
Naruto fece per dire qualcosa, qualunque cosa, nonostante fosse su di giri e allo stesso tempo sentisse il peso della consapevolezza di ciò che implicava quel bacio, di conseguenza anche l’obbligo di farlo razionalmente presente. E notare bene che era lui quello ubriaco, non il responsabile e preciso Sasuke.
Ma quest’ultimo gli lanciò un’occhiata, come intuendo che quello stupido dagli occhi troppo chiari, entusiasti e pieni di pensieri fosse in procinto di parlare:
“Aspetta. Non ho finito.”
“Sei preso bene.” Involontariamente, Naruto ridacchiò.
L’altro fece una smorfia: “Talmente tanto che posso prendere bene anche te. A botte. Ora vuoi tacere?”
Pazzesco. L’amore ai tempi del colera. Insomma, effettivamente dopo tutti quegli anni, dopo che si conoscevano così bene, se tra loro fossero volati fiori e cuoricini sarebbe stato piuttosto irrealistico. E, per quanto Naruto temesse il contrario, Sasuke era spaventosamente lucido. Talmente tanto che se si fosse fermato, forse non sarebbe più riuscito a dire quello che ancora mancava.
“Ora ti farò un discorso e tu mi farai il favore di ascoltarlo senza interrompermi. Pensi di farcela?”
“Oh, sono un po’ brillo ma non stupido o sordo. Ti ascolto, parla, non so quando mi capiterà ancora che tu lo faccia.”
Si fissarono un istante. Poi Sasuke fu spaventosamente diretto:
“L’incidente. Non te l’ho ripetuto abbastanza o con sufficiente convinzione ma ora te lo ribadisco e che ti si imprima a fuoco in quel tuo testone vuoto: non è colpa tua. E se servisse ad averti ancora con me, esattamente come sei, lo rifarei, di nuovo. Tra la mia carriera sportiva e te… sceglierei sempre te, a occhi chiusi. Ho sbagliato solo a non aver mai voluto fare i conti prima con questa consapevolezza, ritenendo di fare la cosa giusta nel seguire una vita che sarebbe andata bene a tutti, te compreso, visto che non ti sei mai opposto – Naruto fece per aprire bocca ma sigillò le labbra, in istintiva apnea – poi… sono arrivati loro, con gli errori che hanno compiuto e tu, che dopo esserti mostrato così bravo ad accettare le mie decisioni peggiori, mi chiedi di non sposarmi più.
Pochi giorni, per rendermi conto di quanto tempo stessimo perdendo.
Siamo ancora vivi, Naruto. Ti rendi conto? Noi siamo ancora vivi. E io stavo per legare la mia vita a una persona che non avrei mai amato, non quanto amo te.”
Dopo un attimo di silenzio che seguì quelle parole, improvvisamente Naruto… scoppiò a ridere, genuinamente, non perché l’intera situazione facesse ridere, al contrario, era terribilmente seria, un momento fondamentale della sua vita, direi, di quelli da raccontare ai posteri negli anni a venire. E’ importante precisare, però, che non rideva perché trovava le parole di Sasuke divertenti, bensì per un motivo molto più semplice e totalitario: era… felice. E, allo stesso tempo, al culmine della risata sentì anche la voglia di piangere, per tutte le volte in cui aveva mancato quella felicità e per tutte le volte in cui da ora in poi l’avrebbe provata ancora.
Con le braccia incrociate Sasuke lo fissò, anche se non riuscì a evitare di sorridere a sua volta:
“Sei stupido o cosa?”
Naruto allargò le braccia e si asciugò una lacrima dall’occhio destro, esclamando:
“Sono stupido! E presuntuoso, per aver creduto che saresti stato bene, facendo tutto quello che la gente si aspettava.”
“Quindi?” lo osservò Sasuke, in tensione.
“Quindi che?” domandò l’altro, senza smettere di sorridere.
L’allenatore fece per girarsi e prendere grandi falcate di distanza, ma Naruto gli afferrò il braccio, bloccandolo:
“Quindi proviamo a passarlo assieme, il resto di questa nostra vita, non con Sakura, non con Hinata. Per noi, non per gli altri. Questo è amore? Direi di sì. Abbiamo fatto un casino gigantesco? Cavoli, sì. Sakura incazzata, i tuoi sconvolti, probabilmente riceveremo tanti di quei calci in culo da pensare, infinite volte, di aver fatto una stronzata, preso un abbaglio, un colpo di testa. Ma… ci parleremo. E io mi ricorderò sempre di quello che ho provato sentendoti parlare di noi.”
Sasuke lo fissò; si ritrovò poi ad annuire, con il cuore che gli si fece più leggero. Detta così sembrava quasi facile, meno terribile di come se l’era dipinta nella testa.
Poi Naruto si voltò verso il resto della strada, fece l’occhiolino al suo allenatore dicendogli sta a sentire, prese un profondo respiro e gridò, sgolandosi:
“Ti amo, Sasuke Uchiha!”
Quest’ultimo sgranò gli occhi, arrossì violentemente e lo strattonò con ancora più violenza, ma non lo mise a tacere. Si passò una mano tra i capelli, indugiando un istante vicino al volto come per coprirlo e ritrovare un cipiglio severo. Non ci riuscì molto bene.
Poi il biondo pugile gli appoggiò una mano sulla spalla, portando l’altra al fianco. Prese dei bei respiri. Lo guardò.
Il ragazzo lo fissò a sua volta, sollevando un sopracciglio, perplesso perché l’espressione era cambiata.
“Sasuke...” sussurrò Naruto.
Poi si sporse di fianco e vomitò.


*

“Che schifo! Si vede che non è parente mio.” Commentò Madara, disgustato ma al tempo stesso divertito.
Hashirama scosse la testa: “Colpa tua che lo hai ridotto in quel modo. E’ già tanto se è riuscito ad arrivare fino a lì tutto intero.”
“Mah, diciamo che ho giusto incoraggiato qualcosa che voleva fare. Mi sembra che anche tu abbia seguito questa linea di pensiero.” Replicò l’altro, scrollando le spalle.
“Sai che Sasuke si era messo a camminare avanti e indietro a casa, cercando le parole per annullare il matrimonio con Sakura? Alla fin fine aveva optato per la linea secca e senza troppi giri, sicuro di non aver posseduto anche lui?”
Madara rise, all’idea di Sasuke che pensava al modo giusto di dire un qualcosa che non sarebbe mai stato corretto, né piacevole, in fin dei conti. In quello, alla fin fine, Naruto gli era stato di grande aiuto perché aveva decisamente rotto non solo il ghiaccio ma direttamente tutti e due i Poli.
“E’ stato bello tornare a sentire il mondo che ci circonda, anche se per poco.”
Tacquero. Il ristorante stava chiudendo, i camerieri avevano finito di pulire il locale e la candela del tavolo di Madara e Hashirama era in procinto di spegnersi. Nella penombra, le luci della città sembravano ancora più splendide.
Dopo qualche istante Hashirama fece per dire qualcosa a Madara ma comparve Sai, in piedi. I due uomini lo guardarono, silenziosi. Alle loro spalle gli ultimi passi dei lavoratori intenti ad andarsene.
“Siete stati bravi.” Ammise l’entità.
Hashirama fece un cenno con la testa, poi Madara gli chiese:
“Sei venuto per portarci via?”
Sai sorrise: “Non lo hai ancora capito?”
“Cosa c’è da capire?” domandò lo scrittore ma ebbe come un presentimento, mentre Hashirama taceva.
Prima che potessero chiedere altro, però, si ritrovarono catapultati in una stanza del tutto sconosciuta, affondando in un divano – per quanto i loro corpi potessero effettivamente affondare; sembrava un soggiorno, a giudicare dal televisore, dai cd accatastati e dai libri. Poi videro Sasuke e Naruto, in piedi, con degli oggetti in mano e l’aria sorpresa ma non troppo. Era giorno, come poterono notare dalla luce del sole che filtrava attraverso le lunghe finestre.
“Ancora voi?” domandò Madara, roteando gli occhi.
Sasuke schioccò la lingua: “Potrei dire lo stesso.”
Naruto rise e Hashirama lo imitò.
Parlarono. Di come si erano risolte le cose, di Sakura, della bomba scoppiata in famiglia da Sasuke, anche se questi ancora non aveva parlato della faccenda di Naruto, degli insulti da parte di quella dell’ex-promessa sposa, anche se lei aveva fatto di tutto per evitare che si arrivasse a tanto. A cosa serviva, alla fine? Era solo una questione di scelte, per quanto quelle di Sasuke l’avessero svuotata, lasciandole nient’altro che la voglia di piangere. Ma era forte, Sakura, e quando si era sentita con Hinata aveva finito per darsi della stupida, per averla coinvolta in qualcosa di sterile.
Ma l’amica aveva replicato che non importava, che era stata bene, e che Sakura doveva pensare a rimettersi in piedi, era lei d’altronde a dover ricominciare una vita.
Tutto era scoppiato, a ben pensarci. Tabula rasa. Bisognava solo più ripartire, anche se era la cosa più difficile.
“Grazie.” Disse alla fine Naruto.
Sasuke attese un istante, poi disse a sua volta: “Grazie.”
Guardò gli scatoloni. Si stava riportando nell’appartamento gli oggetti provenienti dalla casa che avrebbe dovuto condividere con Sakura; non si stupì nel realizzare che non erano poi tantissimi.
“Non abbiamo fatto nulla di che.” Minimizzò Hashirama.
“Alla faccia, la prossima volta che pensate di sapere cos’è meglio fare siete pregati di lasciar perdere e agire in senso opposto.” Sbottò Madara, anche se suo malgrado sorrise.
“Ce ne ricorderemo.” Rise Naruto.
Dopo qualche istante quest’ultimo domandò, perplesso: “E ora che succede? Insomma, avete svolto il vostro... compito, Hashirama dovresti poter passare oltre o come si dice.”
“Sì, credo di sì.” Asserì il diretto interessato, poi guardò Madara.
“Quando sarà il momento passeremo oltre, per usare le tue parole.” Replicò lo scrittore, accavallando le gambe mentre appoggiava i gomiti sul divano.
Naruto a sua volta fissò Sasuke che con le braccia incrociate fece presente:
“Passeremo? Perché parlate al plurale?”
Hashirama non disse nulla. Madara si tirò su la schiena, ancorando entrambi i piedi a terra:
“Che domande del cazzo. Siamo morti! Incidente, motel, corpi, hai presente?”
Sentì un senso d’inquietudine più forte e una paura viscerale che non provava da troppo tempo.
Sasuke tacque; Naruto si sedette di peso su una delle sedie libere, con il cartone svuotato ancora in grembo. Dopo qualche secondo fu proprio Sasuke a dire, quasi circospetto:
“Madara... tu non sei morto. Sei in coma.”

*

La rivelazione fu difficile da digerire, soprattutto il fatto che Hashirama non sembrava altrettanto stupito. E quella volta fu seguendo gli impulsi di Madara che i due uomini si ritrovarono senza più le soffici comodità del divano, per sostare in piedi in una stanza d’ospedale, forse il reparto di terapia intensiva.
Madara vide se stesso, il suo volto, i capelli comunque pettinati, forse da qualche infermiera, la maschera per l’ossigeno, i monitor con i pigolii meccanici e la cartella clinica... tutte le stronzate appartenenti a un ricovero in grande stile.
“No – sussurrò, artigliando il letto dalle sbarre metalliche che sentì gelide – no, no, no. Non posso essere ancora vivo? Perché?”
Guardò Hashirama che, con quel suo sorriso imperturbabile, gli appoggiò una mano sul collo:
“Non hai un bell’aspetto, credo fratture multiple a giudicare dagli ultimi referti, qualche vertebra rotta ma nessuna lesione alla spina dorsale. Sei un puzzle umano però per pura fortuna di crolli non ti è andata male come a me. Sei vivo!”
Sembrava felice. Madara invece lo guardava incazzato, spaventato e... deluso. Perché lui era ancora lì, attaccato a quelle macchine, operato, osservato, controllato, curato, mentre Hashirama era sotto terra. Non poteva più fare l’amore con lui, baciarlo, sentirlo ridere e parlare.
“Tu lo sapevi.” Disse all’improvviso.
Gli afferrò la maglia e gli si scagliò addosso: “Lo sapevi, brutto figlio di puttana e non mi hai detto nulla!”
Hashirama gli prese la mani ma non le tolse da sé, le guardò, con amore, infine guardò Madara:
“Dove pensi che i miei istinti e i miei sentimenti mi abbiano trasportato, appena ho realizzato di essere morto? –  un leggero sorriso – Da te, Madara. E una parte di te mi è rimasta accanto, fino a ora, per aiutarmi a completare ciò che non sono riuscito a fare in vita. Ora...”
“No! – esclamò, sgranando gli occhi scuri – Sta’ zitto, smettila! Non voglio essere vivo! Stacca tutto, toglimi l’aria, folgorami, uccidimi. Che senso ha?”
Se Hashirama avesse potuto piangere, l’avrebbe fatto. Ma, purtroppo, non gli erano rimaste nemmeno le lacrime. Quanto era ingiusto tutto questo.
“Hai una nuova storia da raccontare, non puoi andartene. E’ la nostra storia, è quella di Sasuke, di Naruto, ma anche di chi si tiene le cose dentro e non le tira mai fuori. Per paura dei giudizi degli altri, perché crede sia la cosa più facile, perché è considerato forte. Sono tanti i motivi, noi li conosciamo tutti.”
Madara sollevò quella maglia e se la portò alla bocca, vicino alle narici. Respirò l’odore di Hashirama. Sapeva di tempere e colori ad olio, di un giorno di primavera in cui gli aveva fatto vedere le prime tavole del suo ultimo libro. Dopo, avevano fatto l’amore.
“Eppure ti sei tenuto dentro anche questo, Hashirama. Per tutto il tempo in cui siamo stati assieme.”
“Non l’ho fatto per te – ammise, guardandolo – l’ho fatto per me. Per una volta. Volevo stare assieme a te e godermi ogni attimo, finché sarebbe durato. Scusami.”
Madara non disse nulla. Le macchine ronzavano e l’ossigeno s’immetteva nei suoi polmoni.
“Allora... dovrò scrivere proprio un bel libro. Visto che non ci saranno più i tuoi disegni.”
Rimasero così, a stringersi, nel silenzio di una stanza d’ospedale.
Sai comparve, altrettanto silenzioso, ed entrambi seppero che era tempo di dirsi addio. La presenza non disse nulla, si limitò a guardarli e attendere.
“Madara... avrei un favore da chiederti. Se ti trasmettessi un messaggio lo potresti far avere a mia figlia?”
“Sono pur sempre uno scrittore.” Accettò quest’ultimo in un soffio.
Si guardarono.
“E’ ora per davvero.” Disse alla fine Hashirama.
“Sbrigati ad andartene – commentò secco Madara – visto che mi lasci indietro, vedi di fare le cose come si devono.”
Questi fece per dire qualcosa ma Madara lo baciò, mettendolo a tacere. Avrebbe voluto mordergli il labbro, come se questo lo avesse potuto legare a sé, costringendolo a restare.
“Non è un addio, Madara. Quando sarai vecchio e stanco di questa noiosissima Terra ti verrò a prendere. E ce ne andremo insieme. Potrò vedere i successi che hai avuto, vedrò mia nipote crescere, mia figlia diventare nonna, mia moglie invecchiare. Potrò vedere Sasuke e Naruto stare assieme, litigare, amarsi, invecchiare a loro volta. Non è un addio – ripeté – ti amo è presente, ogni singolo giorno.”
“Allora... a tra qualche anno, Hashirama. Vedi di non farmi attendere troppo.”
Il corpo di Madara pianse. Tutte le lacrime che il suo spirito e quello di Hashirama non avevano potuto versare.

*

Il ring della palestra era vuoto. Tutti erano andati a casa dopo gli allenamenti serali, Naruto compreso. Non convivevano ma ogni tanto dormivano l’uno a casa dell’altro, cominciando a capire con passaggi graduali le possibilità di condividere qualcosa come gli stessi spazi.
Sasuke aveva chiesto a suo padre di passare, settimane dopo che aveva annunciato di aver lasciato Sakura e rinunciato al matrimonio. La notizia era stata drammatica, accolta in famiglia come qualcosa d’incomprensibile. Sorprendentemente Fugaku non aveva reagito neanche troppo male: si era limitato a guardare il figlio, il quale gli aveva chiesto del tempo per potergli parlare, loro due.
Non era stato facile ma alla fine Sasuke aveva chiesto al genitore di vedersi alla palestra, dove si erano allenati e lui era cresciuto. Se proprio doveva concludersi qualcosa, tanto valeva che avvenisse in quel posto, sotto quelle luci e su quel terreno altrettanto vissuto.
Sasuke aveva ancora i guantoni e la tuta, quando Fugaku entrò e si appoggiò alle corde per dirgli, prima che il figlio scendesse:
“Rimani lì, salgo io.”
Il ragazzo si bloccò, fissandolo, ma non batté ciglio. Con un cenno indicò dei guantoni appesi alla parete.
Fugaku se li mise al collo, si issò sul ring e inspirò un istante, guardandosi attorno, contemplando gli attrezzi, le vetrate oltre le quali si vedevano le luci della via e osservando infine suo figlio, con i capelli portati indietro e lo sguardo serio che l’aveva sempre contraddistinto.
“Avanti, su la guardia.”
Gli disse. Istintivamente Sasuke lo fece. In quell’istante la gamba non contò più nulla: c’erano solo loro due, come tanti anni fa, quando Sasuke guardava suo padre prima combattere, poi insegnargli. Tutto ciò che aveva imparato da lui, lo aveva imparato su quel ring.
Gli tirò qualche colpo, rapido, il ragazzo schivò, difese e contrattaccò. Non riuscì a spostarsi come avrebbe voluto ma realizzò che in quella schermaglia nemmeno suo padre si stava muovendo dal proprio posto.
Ogni tanto riprendeva il figlio con qualche parola rapida, magari per il modo in cui teneva il gomito, le spalle, ma… erano solo minuzie, perché in passato Fugaku si era abituato a correggergli ogni singolo movimento, per quanto il giovane avesse un talento naturale. Si fermò, quando il pugno di Sasuke gli arrivò, controllato, a un millimetro dal viso e lui in contemporanea alzò il braccio per deviarlo.
Rimasero così, a guardarsi, con un leggero velo di sudore in volto e la respirazione più veloce.
“Sei diventato bravo.”
Ammise. Anche se Sasuke aveva solo allenato, anche se non era diventato quell’atleta che anni fa ci si aspettava.
Il boxeur abbassò la guardia e ingerì quel complimento inaspettato, per poi confessargli, fissandosi i guantoni:
“Devo dirti una cosa.”
“Chi ti ha detto di abbassare la guardia? Avanti – sollevò il palmo coperto dai guanti imbottiti – due pugni in rapida successione, ricordati del movimento del bacino. Mai perdere di vista il tuo baricentro.”
Sasuke assottigliò le labbra. Annuì.
Guardia. Pugno, pugno, preparati a schivare, torsione eventuale.
Colpì, Fugaku spostò un braccio per costringerlo a schivare.
“Io – primo pugno, espirò – sono gay.”
Altro pugno. Fugaku lo attaccò, di nuovo.
“Non ti ho detto di abbassare la guardia.” Ribadì il padre, dopo che Sasuke pensò che non lo avesse sentito.
Ripeterono il movimento.
“Cosa sono questi attacchi? Ti sei rammollito? Più forza. E parla anche più forte. Non sei combattivo, Sasuke.”
“Io – alzò la voce – sono gay!”
“Più forte!”
Sasuke lo colpì con rabbia, sempre maggiore, veloce, rapido, potente, le mani del padre indietreggiarono, come frustate:
“Io sono gay, maledizione!”
Lo urlò e l’eco ferì le pareti, assieme alle travi metalliche, alla vernice scrostata, ai vetri annebbiati dalla polvere e dallo sporco dell’inquinamento al di fuori.
I due contendenti si guardarono, con la guardia sollevata, ansimando entrambi.
Poi, improvvisamente, Fugaku annuì:
“Ora stai attaccando per davvero.”
Sasuke gettò il guantone a terra, perdendo decisamente il controllo per la reazione del padre:
“Ma hai ascoltato o no quello che ho detto?”
Eppure già sapeva che il genitore aveva sentito tutto, ogni singola parola. Sasuke aveva passato anni a credere che il proprio padre avrebbe potuto dare di matto sentendo parole incisive come quelle, ben lontane dalle evidenti aspirazioni paterne; invece, quando il giorno della rivelazione era giunto, il ragazzo si era trovato davanti un uomo orgoglioso che si era limitato a farlo combattere, come se fosse stato il primo giorno su di un ring. Era sconvolto, Sasuke. E arrabbiato. Per non aver mai cercato prima una qualche forma di confronto, né compreso che genere di persona fosse quel padre tanto idealizzato.
“Certo, ti ho ascoltato.”
Gli confermò infine Fugaku mettendosi i guantoni al collo, appesi per i lacci. Aveva i capelli striati di bianco legati, lo stesso sguardo un po’ altero del figlio.
“E quindi? – domandò questi, disorientato – Cosa devo aspettarmi adesso?”
Fugaku sollevò un sopracciglio, fissando il ragazzo: “Quindi cosa? Che credevi? Che ti cacciassi dalla palestra che hai ereditato o che ti dessi una pacca sulla spalla?”
Sasuke non seppe cosa rispondere. Se il genitore si fosse arrabbiato forse lo avrebbe capito, sarebbe stato ciò che si aspettava. Ma così…
Il padre appoggiò una mano alle corde, abbracciando con lo sguardo tutta la palestra:
“Non ti voglio consolare o metterti in testa strane idee. E’ una strada difficile, la tua. Ti daranno molti più calci sui denti. Ma così come quella gamba non ti ha mai fatto smettere di salire sul ring e di colpire, esattamente come oggi hai colpito me, allo stesso modo chi sei o chi ami non deve farti cessare di combattere nella vita e dimostrare quanto vali.
Ci siamo capiti?”
Lo guardò, le labbra sottili severe, simili a quelle di un comandante, per quell’impostazione quasi marziale della voce e del corpo, nonostante la boxe fosse una danza che non seguiva passi preimpostati.
Sasuke annuì. Raccolse il guantone, rimanendo un istante chinato senza piegare bene il ginocchio, poi si tirò su, deglutendo mentre lo faceva.
“Naruto – aggiunse il padre, alzando una corda prima di scendere – continua ad allenarlo. Portalo in alto. Ci può riuscire solo con te.”
Si abbassò e con un salto tornò sul pavimento in pvc della palestra. Sasuke, in piedi, sul ring, lo guardò e capì che suo padre non aveva mai davvero creduto che il figlio avesse smesso di combattere, in nessun singolo giorno della sua vita.


*


Nella sala parto si muovevano infermieri, l’ostetrica e il ginecologo, tutti organizzati, coordinati come una squadra di pallavolo, con i propri ruoli e posizioni che doveva portare a casa il risultato.
Hana era su quel lettino, con le gambe divaricate, la respirazione accelerata che tentava di andare a ritmo con le contrazioni e le spinte, quasi come se assieme all’ossigeno potesse anche inghiottire il dolore.
Da qualche parte, nella sua casa presa assieme al compagno, in un cassetto coi suoi oggetti personali c’era la lettera che le aveva consegnato niente meno che Madara, ripresosi dall’incidente qualche mese dopo il funerale del padre. Non si erano parlati: lui non aveva lanciato alcuna provocazione, lei non aveva voglia di cercare uno scontro. Era stanca, con il pancione enorme e la consapevolezza che tanto non avrebbe potuto fare granché per cambiare le cose.
Suo padre le mancava terribilmente e se avesse parlato con Madara avrebbe finito per scoppiare a piangere mentre gli gridava contro, quasi fosse stato lui e non il destino a portarglielo via.
Non era riuscita a leggere il contenuto di quella busta. Ma ora, mentre sua figlia stava nascendo, avrebbe voluto davvero aprire quel pezzo di carta e leggerlo, perché forse almeno così quel sentimento di nostalgia si sarebbe ammorbidito. Era sicura che ci fosse suo papà, in quelle righe.
In realtà, però, anche se Hana Senju non poteva accorgersene, Hashirama era lì, di fianco a lei. I fantasmi non seguono le normali leggi della fisica, ignorano le dimensioni, esistono, in un loro personale ritaglio di mondo.
Fu l’ultimo luogo in cui egli andò, prima di andarsene per sempre dopo aver detto addio a Madara.
Vide sua figlia partorire, dando alla luce una splendida bambina, la sua nipote. Alla quale non avrebbe potuto leggere le storie di Madara, che non avrebbe potuto ritrarre per i suoi quadri, portare a passeggio scherzando per quanto gli altri nonni fossero indietro rispetto a lui, che ancora girava coi capelli lunghi.
Quante cose, di cui non sarebbe mai stato parte.
La sentì urlare, il primo vagito di vita. Urlò come se fosse già arrabbiata con quel mondo imperfetto, per tutte le delusioni che avrebbe subito, per tutte le grida, di gioia e di ira, di paura e di entusiasmo.
Un battito di ciglia e non c’erano più dottori, c’era solo lei, Hana, che stanca teneva tra le braccia Tsunade, con qualche ciuffo biondo che già spuntava sulla testa, cresciuto selvaggio dentro l’utero. Poi c’era Mito, sulla sedia.
Si era addormentata.
Hashirama si abbassò, appoggiò il capo sul torace della neonata, così vicina al petto della sua mamma. La sentì respirare, a fondo, quasi volesse divorare la sua vita e crescere.
Socchiuse gli occhi e le abbracciò, le tre donne che gli avevano dato tanto e che avrebbero continuato senza di lui, vivendo, lottando, come ogni altro essere umano. Sentì che avrebbe potuto piangere quando appoggiò l’orecchio sul tessuto morbido della tutina e udì il cuore battere, quando con il petto toccò Hana, fino ad abbracciarla e sentire la mano della moglie che tante volte aveva stretto in vita.
“Perdonatemi. Vi voglio bene.”
Hana aprì gli occhi. C’era il sole e un leggero vento passava dalla finestra parzialmente aperta. Per un istante, un solo, brevissimo istante, le sembrò di vedere suo padre avvolgerla, i suoi capelli che scivolavano su di lei come quando giocavano a chi aveva le ciocche più lunghe, le mani forti che l’avevano sollevata quando cadeva e tenuta stretta nei momenti importanti della sua vita. C’era sempre stato, in spiaggia da bambina che l’accompagnava se non voleva parlare coi suoi coetanei i primi giorni, durante la consegna del diploma, il giorno della laurea o quando era andata a fare la prima ecografia.
E anche allora, in quel risveglio, le sembrò che lui fosse lì, ad abbracciarla e a chiederle scusa, dicendole che le voleva bene.
Le sfuggì una lacrima.
Sbatté le palpebre e vide solo la sua mamma che stava sorridendo, nel sonno più sereno di tutti quei mesi, e sua figlia che già era diventata la sua vita.
“Mi manchi, papà. Ti voglio bene anch’io. Sempre.”
Quando giorni dopo tornò a casa, lesse la lettera.

*

Hashirama Senju negli anni a venire vide tante cose, esattamente quelle che aveva previsto, o quasi.
Vide Sasuke e Naruto iniziare a convivere, allenarsi, Naruto cominciare a vincere gli incontri, anche se ogni tanto tornava a casa con un occhio pesto o il labbro spaccato e Sasuke lo aiutava a reggere il ghiaccio, facendogli notare pignolamente e con zero sensibilità le sue falle difensive.
Ormai avevano quasi cinquant’anni; dopo un’onorata carriera ed essere quasi andato alle olimpiadi con il suo allenatore leggendario, Naruto aveva appeso i guantoni al chiodo e si era dedicato ad allenare i ragazzi, ma era scoppiato a ridere di gioia quando si era visto arrivare Tsunade, con lo sguardo di sfida, il sorriso determinato, e il DNA di Hashirama. Voleva imparare a tirare di boxe, persino sua madre per qualche strano motivo non era contraria, sebbene preoccupata di vederla tornare senza denti, esattamente come all’epoca erano state preoccupate Mikoto e Kushina.
Sasuke lo aiutava, anche se nonostante le terapie la gamba ogni tanto gli lanciava delle fitte antipatiche, come per ricordargli dell’età che avanzava.
Con il tempo, comunque, si erano rivisti con Sakura, che si era sposata un fotografo naturalista conosciuto a uno degli eventi organizzati con Hinata, sua collega ormai storica; ogni tanto lei viaggiava per il mondo assieme al marito, mandando a coloro che erano ormai i suoi migliori amici le foto di dov’era stata.
Il tempo, appunto, consente di perdonare e rimarginare qualche ferita. Non tutte ma... è un buon medico da campo, in fondo, se non altro nella costante battaglia per vivere.
E poi... c’era Madara. Che, nonostante il fumo e qualche birra di troppo, era arrivato alla soglia degli ottantanni suonati. Aveva i capelli bianchi che ricordavano lana e le rughe sul volto, specie sotto le borse perenni che lo avevano sempre contraddistinto.
Era stato inonandato di premi, sebbene la stampa lo avesse sempre considerato un uomo un po’ eccentrico e dal carattere abbastanza indisponente. Ma questo non aveva impedito al pubblico e alla critica di apprezzare i suoi lavori, anche se da quando il suo illustratore era morto nessuno aveva più disegnato nemmeno i suoi visionari racconti per bambini.
Gli avevano chiesto di cedere i diritti d’autore per fare un film sul libro che parlava di fantasmi che aiutavano dei ragazzi a dichiararsi, questo era stato il riassunto sostanziale della trama, visto che le tematiche appetitose per il pubblico desideroso di schierarsi dalla parte degli sfigati sembravano promettere grandi incassi ai botteghini. Ma Madara aveva rifiutato, dicendo loro di incassare il suo vaffanculo.
Un pomeriggio di primavera, Madara era seduto sul portico di casa sua. Si era preso una villetta in campagna, lontano dalla gente. Qualche giorno prima Sasuke e Naruto erano passati a trovarlo e lui si era bevuto un bicchiere con loro, in memoria di quando aveva fatto ubriacare a merda Naruto.
Quel giorno Madara era seduto sulla sedia, aveva accanto un quaderno perché l’ispirazione poteva cogliere in qualsiasi momento, la pastiglia per la pressione che non doveva scordarsi di prendere e un bicchiere d’acqua. Aveva sete, anche se non faceva troppo caldo: c’era il sole e l’aria fresca profumava di fiori.
Con l’età Madara si era riscoperto nostalgico.
E quello stronzo di Hashirama non si era fatto più vivo. L’aveva lasciato, dimenticato, e Madara non aveva mai più trovato nessun altro, eccetto qualche incontro casuale che si era sempre rifiutato di approfondire. Andava bene così, da quando anni e anni fa aveva consegnato la lettera con le parole di Hashirama: Hana sembrava averlo in un certo senso perdonato, per come si erano svolti gli eventi, e anche Mito aveva capito tante cose.
Si portò una mano al petto. All’improvviso ebbe male, un male tremendo.
Chiuse gli occhi e appena li riaprì vide davanti a sé Hashirama, coi suoi capelli castani, lunghi e belli come Madara ancora li ricordava. Era giovane, esattamente come quando si erano lasciati. Mentre lo scrittore era invecchiato, doveva andare al bagno più spesso di quanto volesse, le ossa ogni tanto gli facevano male e il cuore gli tirava qualche simpatico scherzo.
Si vergognò, di essere così vecchio ai suoi occhi.
“Ce ne hai messo di tempo, eh, stronzo?”
Gli tremò la voce. La vecchiaia, giusto?
Hashirama gli tese una mano e lo fece alzare; all’improvviso tutti i dolori dovuti all’artrosi erano scomparsi.
“Il mondo meritava di avere le tue opere, tutte quelle che hai potuto concedere – lo guardò e gli affondò le mani tra i capelli bianchi – ho sentito ogni tuo trionfo, successo e fallimento. Sei e resterai per sempre l’uomo più bello che io abbia mai conosciuto, Madara Uchiha.”
Le sue rughe, l’anzianità, i dolori, le delusioni... non contavano più nulla. C’erano solo loro due, in quel portico, circondati dai prati, dai fiori, dai libri e dai disegni di Hashirama protetti dietro quadri di vetro, per non venire danneggiati dal tempo. Lo stesso tempo che cura e che consuma.
Quel giorno di primavera, circondato da Hashirama e da tutto ciò che era stato in vita, lo scrittore Madara Uchiha morì, lasciando per sempre la Terra, per raggiungere destinazioni forse più grandi.
Ebbe il suo funerale ma ciò che contò di più nel suo cuore fu pianto da Sasuke e Naruto che, quel giorno, cominciarono a leggere il libro, quel libro che in fondo parlava anche di loro e che fino ad allora non avevano mai sentito di essere pronti a leggere.
D’altronde... c’era un momento per ogni cosa.



Cara Hana, so che riceverai questa lettera in modo un po’ anticonvenzionale ma ti prego di leggere queste mie poche righe – sì, prometto di essere breve, sei sempre stata una tipa frettolosa e determinata, no?
Cominciamo subito con questo: perdonami. Perdonami per averti fatto scoprire così, senza parlarti, questa parte di me. Non ti chiedo però perdono per essere quello che sono, né per amare Madara.
Sì, lo amo.
Conobbi Madara quando avevo vent’anni e tua madre era incinta di te; avevo comunque deciso di costruire una vita con Mito e crescere te, che a tua volta darai alla luce la figlia che porti in grembo.
Non mi aspettavo che avrei mai potuto amare così tanto una persona, eppure, nonostante tutto non ho mai voluto separarmi da voi. Non mi pento delle mie scelte, sarebbe facile con il senno di poi, ma anche fosse... come potrei pentirmi di qualcosa che mi ha dato te?
Non ti chiedo di capirmi, ti chiedo di non odiare Madara per ciò che ha sempre rappresentato: ha sacrificato tanto, per consentirmi di non dover scegliere tra lui e voi. Stai vicino a tua madre, forse capirà che nonostante tutto amavo anche lei.
Ti auguro solo, nella vita, di amare e di viverla fino in fondo, questa vita. Il passato è andato, non c’è modo di cambiarlo. Ma possiamo ancora cambiare ciò che siamo: non esitare a farlo, se questo ti rende felice.
Accogli il cambiamento, non negarti nulla di quello che potresti essere, e… ama, grida, ridi, urla al mondo ciò che sei, quello che desideri, cosa ti fa stare bene e cosa odi.
Prendi un microfono, registra la tua voce, dì tutto quello che provi. Poi, stop, torna indietro e riascolta. Finché vorrai.
Per non dimenticare chi sei e ciò che desideri.




Sproloqui di una zucca

Ebbene sì, la storia è conclusa. Credo mi rappresenti: nell'ironia e nello spirito nostalgico, forse malinconico, che metto nel pensare alla vita, alle occasioni mancate, al passato e al futuro. Spero, in sostanza, che questo scritto forse semplice nella sua stranezza possa avervi trasmesso qualcosa.
Anche se mi hanno accompagnato per pochi capitoli mi mancheranno Sasuke e Naruto, con le loro indecisioni e le cose non dette, perché riflettono tanti errori che noi realmente tendiamo a fare: mi immagino questi due allenarsi assieme, a cinquant'anni, con una Tsunade ormai ventenne (pardon la discrepanza anagrafica ma, diversamente, Hashirama e Madara avrebbero dovuto essere già belli che anziani una volta defunti). Ho trovato profondo, in linea con la narrazione, il confronto tra Sasuke e suo padre.
Mi mancherà Hashirama, la sua compostezza, la sua nostalgia intrinseca. E mi mancherà immensamente Madara che non è stato facile dipingere anziano, coi suoi acciacci e il brutto carattere. Me lo sono immaginato, seduto sul portico, prima di morire.
Il play again del titolo della storia e il backwards etc. contenuti in ogni capitolo, sono i tasti per mandare indietro o avanti una canzone: l'idea di fondo è contenuta nel messaggio di Hashirama, che invita la figlia a ripetersi sempre e ricordarsi cosa desidera veramente e cosa la fa stare bene. Un atto d'amore per se stessa.
Grazie per avermi seguito fino a qui, spero che potremo rivederci in altri lavori che scriverò.

Questa volta vi lascio non con un'immagine, bensì una citazione presa da un libro e da un'autrice che personalmente adoro: Disorderly Knights (in italiano tradotto come Il Torneo dei Cavalieri) di Dorothy Dunnett - anche la citazione a inizio capitolo appartiene sempre allo stesso libro.
Credo che riassuma perfettamente la voglia di vivere, vivere appieno, anche in una persona che potrebbe sembrare distante o insensibile; senza passioni, senza qualcosa che ci consenta di andare avanti e sentirci vivi, ci sarebbe solo il vuoto.

“What does anyone want out of life? What kind of freak do you suppose I am? I miss books and good verse and decent talk. I miss women, to speak to, not to rape; and children, and men creating things instead of destroying them. And from the time I wake until the time I find I can’t go to sleep there is the void—the bloody void where there was no music today and none yesterday and no prospect of any tomorrow, or tomorrow, or next God-damned year.”

“Cosa vogliono tutti dalla vita? Che razza di fenomeno da baraccone pensate che io sia? Mi mancano i libri e la bella poesia e una piacevole discussione. Mi mancano le donne, a cui parlare, non da stuprare; e i bambini, gli uomini che creano le cose, anziché distruggerle. E dal momento in cui mi sveglio fino a quello in cui mi rendo conto di non riuscire a dormire, c’è il vuoto – il dannatissimo vuoto in cui non c’era musica, né oggi, né ieri e nessuna prospettiva di alcun domani, che sia l’indomani stesso o il prossimo maledettissimo anno.”


   
 
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