Ciao cari/e,
per
prima cosa vorrei ringraziare chi ha avuto l’abnegazione di
sciropparsi il precedente capitolo, ovvero morgengabe, fiore di
girasole, Saelde_und_Ehre, Syila, molang, Jordan Hemingway,
innominetuo, LyaStark, miciaSissi, Crilu_98 e Dark_sky114.
Spero
che resisterete, io faccio il tifo per voi!^^
Capitolo
3
Le
ultime miglia prima di arrivare a Dürnau furono un tripudio di
campane che suonavano, fiori gettati sulla strada e case ornate di
drappi colorati come per la processione del Corpus
Domini.
La
voce era corsa, complice anche il messaggero che era stato inviato a
portare la notizia, per far sì che fosse tutto pronto all'arrivo
della santa reliquia, e la gente festante salutava il passaggio del
convoglio.
Fratello
Adalrich e fratello Hermann procedevano ai due lati del carro che
trasportava la cassa, anch'esso ornato e inghirlandato per
l'occasione.
Il
primo era particolarmente torvo. A Starkenberg, più o meno tutti si
erano abituati al suo aspetto, ma nei mesi di viaggio da San Giovanni
d'Acri alla Germania era stato un continuo di gente che
indietreggiava spaventata o si faceva il segno della croce al suo
passaggio. E quello era il più piccolo dei problemi.
L'altro
– il maggiore – era il suo personale rapporto con quello che
c'era, o si supponeva ci fosse, all'interno della cassa.
I
suoi sogni erano andati peggiorando con il passare dei giorni.
Rimanevano sempre indistinti, ma adesso riusciva in qualche modo a
coglierne gli elementi principali: c'era qualcosa che uccideva delle
persone, e lui per qualche motivo non riusciva a fermarlo.
Aveva
smesso di parlarne per non far preoccupare Hermann, ma notte dopo
notte il carico di angoscia si faceva sempre più pesante da
sopportare.
La
preghiera peraltro non lo aiutava. Vi si dedicava con regolarità, ma
a parte un sollievo momentaneo, non riusciva a trarre da essa altri
vantaggi.
Fece
girare intorno uno sguardo cupo. Il ragazzo, Konrad, trottava su e
giù lungo la colonna salutando e stringendo le mani che si
protendevano verso di lui, specialmente se si trattava di mani
femminili. Il barone von Obesntein invece dava prova di maggiore
compostezza, forse a causa della sua età. Procedeva in testa al
gruppo, limitandosi a ringraziare quando qualcuno gli porgeva fiori o
li infilava nei finimenti del suo cavallo.
Tutti
gli animali peraltro, anche i buoi che tiravano il carro, erano così
adornati di rose e margherite che quasi non si vedeva più il colore
del loro manto. Anche i soldati ricevevano abbracci e pacche sulle
spalle dalla gente festante.
Gli
unici che rimanevano in un certo senso preservati da tali
manifestazioni di entusiasmo erano proprio lui e Hermann. Il manto
bianco, la croce nera e l'usbergo mettevano in soggezione, e nessuno
aveva il coraggio di avvicinarsi troppo ai loro imponenti destrieri.
Solo
una ragazza, più spavalda delle altre, con le trecce bionde raccolte
sul capo e ornate con i nastri della festa, si svincolò dalla presa
di quella che doveva essere la madre, corse verso Hermann e gli tirò
piano la falda del mantello. Quando il cavaliere abbassò lo sguardo
su di lei, ella gli porse timidamente un mazzetto di fiori di campo.
L'altro
rimase per un attimo interdetto, non sapendo se prenderlo o no, poi
le rivolse un sorriso e accettò il piccolo omaggio, giusto un attimo
prima che la madre afferrasse la giovane per una manica e la tirasse
bruscamente indietro.
Adalrich
si voltò a guardarla e la vide ridacchiare con un'altra ragazza,
forse una sua amica, fiera dell'impresa compiuta.
In
quel momento, qualcosa come una vertigine lo costrinse a chiudere gli
occhi per un attimo. Quando li riaprì, c'era una vecchia che con la
mano ossuta teneva una redine del suo destriero. La cosa lo stupì,
perché di solito l'animale non si faceva avvicinare dagli estranei.
L'anziana donna, con i capelli grigi raccolti in una treccia e un
lungo abito nero, sollevò lo sguardo fino a incontrare il suo e
sussurrò: “Cavaliere di Ghiaccio, figlio dell’inverno, io vedo i
tuoi sogni. Lui arriverà, ma la tua croce non potrà fermarlo.”
Rapida intrecciò qualcosa alla testiera del cavallo, e poi
scomparve.
Di
nuovo, Adalrich scosse il capo stranito mentre la vista gli si
annebbiava per un attimo. Fece per cercare la donna, ma non ve n'era
più traccia. Legati ai finimenti c'erano dei fiori gialli: iperico,
o erba di San Giovanni, un noto rimedio popolare contro le influenze
del Demonio e la stregoneria.
Fu
quasi grato al barone von Obenstein, quando decise che si sarebbe
fermato a Waldheim perché invitato a pranzo dal castellano del
luogo.
Naturalmente
avrebbero dovuto partecipare al pasto anche lui e Hermann, mentre i
soldati e il resto della scorta avrebbero trovato ristoro presso il
convento, ma almeno si sarebbero fermati un po'. Lo strano incontro
con la donna vestita di nero l'aveva lasciato scosso. Per tutto il
tragitto non aveva fatto altro che fissare i fiori gialli che
dondolavano appesi alle redini, e si sentiva esausto come se avesse
combattuto per ore e ore.
Smontò
da cavallo e per un istante dovette afferrarsi alla criniera. I fiori
continuavano a ondeggiargli davanti agli occhi come lingue di fuoco.
“Cos'hai?”
la voce preoccupata di Hermann lo fece quasi sussultare.
“Niente,
non preoccuparti.”
“Hai
l'aria di uno che ha visto un fantasma.”
Adalrich
fece un sorriso tirato. “Per caso mi vedi pallido?”
“E
dai.” Hermann gli diede un pugno scherzoso sulla spalla. “Lo sai
cosa intendo.”
L'altro
si tolse l'elmo alla normanna, si fece scivolare all'indietro il
cappuccio di maglia e per un attimo rimase a occhi chiusi con il capo
piegato all'indietro. “Ho incontrato una strana donna,” disse
infine, “che mi ha guardato e ha detto che vedeva i miei sogni. Poi
mi ha dato quei fiori.” Indicò l'iperico. “Da allora mi sento
così.”
Hermann
lo scrutò preoccupato. “Stregoneria?” mormorò. Si guardò
intorno con aria guardinga, come se temesse di veder spuntare da
qualche parte la vecchia vestita di nero.
Adalrich
scosse la testa. “Io credo che volesse aiutarmi. L'erba di San
Giovanni è benefica. Mi ha detto anche una cosa strana.”
“Che
cosa?”
“Che
lui arriverà, ma la mia croce non potrà fermarlo.”
“Lui,
chi?”
“Non
lo so.”
Hermann
aggrottò le sopracciglia. “Non mi piace,” ringhiò. Stava per
aggiungere altro quando si udì una vigorosa voce maschile che
chiamava: “Cavalieri!”
Si
voltarono: un uomo alto, dall'aspetto raffinato, in paramenti da
ciambellano, li stava fissando. “Fratelli cavalieri,” ripeté,
“il mio signore, il barone Otto von Neitschütz, sarebbe onorato se
voleste sedere alla sua tavola.”
“L'onore
è nostro,” rispose Hermann per entrambi, “dite al vostro signore
che arriveremo non appena avremo controllato la sistemazione dei
soldati e della santa reliquia.” Quando l'uomo se ne fu andato,
chiese al compagno: “Te la senti di mangiare?”
“Sì,
non preoccuparti.”
Tra
portate e racconti, il pranzo si protrasse fino al pomeriggio
inoltrato, e il barone von Neitschütz volle offrire a tutti
ospitalità per la notte.
Ai
cavalieri era stata assegnata una stanza molto semplice, con due
letti, un tavolino e lo stretto necessario. L’unico ornamento che
essa conteneva era un’immagine della Vergine appesa alla parete,
sotto la quale si trovava una piccola mensola con un vaso che
conteneva dei fiori d’iperico.
Rispetto
alla camerata di Starkenberg, ai due parve comunque di un’opulenza
straordinaria.
Adalrich
si guardò intorno, poi tastò il letto con l’aria di non averne
mai visto uno in vita sua.
“Che
c’è?” volle sapere Hermann.
“È…
molle.”
L’altro
emise un sospiro. “È un normalissimo letto. Vacci dentro e dormi.”
Ma
il confratello continuava a indugiare. Versò altro olio nel lume,
controllò che la finestra fosse chiusa. Raddrizzò l’immagine
sacra, che secondo lui era un po’ storta.
“Adalrich?”
“Sì?”
“Si
può sapere perché non ti decidi ad andare a letto? Eppure dovresti
essere stanco.”
“Io…
penso che andrò a prendere una boccata d’aria.”
“Mettiti
il mantello, qui non siamo in Terra Santa.”
A
quelle parole, l’altro si sedette finalmente sul letto, giunse le
mani in grembo ed emise un sospiro. “Lo so.”
Hermann
si mise a sedere a sua volta, appoggiando i piedi sul pavimento in
modo da essere faccia a faccia con lui. “Ti dispiace di non essere
più là?” gli chiese con voce sommessa.
Il
confratello chinò la testa. “Sì.”
“Perché?”
“Non
lo so. Qui non mi sento più a casa mia. Forse non mi ci sono mai
sentito.”
Seguì
un lungo silenzio, così profondo che l’unico suono che si udiva
era il lieve crepitare della fiammella. Alla fine Hermann buttò lì:
“Quanto tempo è che ci conosciamo? Quattro anni? Cinque?”
“Di
più. Eravamo novizi
insieme.”
“E
quante volte ci saremo salvati la vita a vicenda? Tu più di me, per
la verità.” Sorrise.
“Non
mi ricordo più.”
“Parecchie,
vero?”
Adalrich
annuì. “Già.”
“E
non so nemmeno qual è il nome della tua famiglia.”
L’altro
alzò gli occhi e li fissò nei suoi. Aggrottò appena le
sopracciglia, le sue labbra si strinsero fino a diventare una linea
sottile. “È importante?” chiese alla fine.
Hermann
distolse lo sguardo. “No, è che io... insomma, ci conosciamo da
tanto tempo, siamo come fratelli, e...”
“Nell'Ordine
siamo tutti fratelli,” lo interruppe Adalrich con voce fredda.
Di
nuovo calò il silenzio. Hermann fissò l'amico, quindi si alzò, si
rivestì sommariamente, si mise sulle spalle il mantello e propose:
“Vogliamo andare a prendere quella famosa boccata d'aria?”
Senza
attendere risposta mise anche a lui il manto sulle spalle e lo tirò
per un braccio per convincerlo ad alzarsi. Adalrich lo lasciò fare.
Pensieri indegni di un cavaliere gli saettarono per la testa: che
Hermann gli stesse vicino per carità cristiana, che volesse
conoscere le sue origini per qualche forma di morbosa curiosità, per
capire da dove mai potesse arrivare uno con il suo aspetto. Si
obbligò a distogliere la mente.
“Ora
andiamo,” si fece udire la voce dell'altro, richiamandolo alla
realtà.
Lo
seguì docile, quasi vergognandosi di quello che aveva pensato solo
un attimo prima: Hermann era una persona troppo limpida per
attribuirgli sentimenti così meschini. Si chiese se fosse la sua
natura distorta a suggerirgli idee così malsane.
“Sei
sempre il solito: non mi stai ascoltando.” La voce dell'amico lo
richiamò ancora una volta alla realtà.
“Scusami.”
“Stavo
dicendo che questi corridoi sembrano il labirinto di Minosse.”
“Già.
Certo.” Adalrich notò che l'altro aveva abbandonato l'argomento
delle ascendenze non appena aveva capito che la cosa gli dava
fastidio.
Trovarono
finalmente una porta che conduceva all'esterno. Nonostante fosse
primavera inoltrata, la notte era fresca. Spirava una brezza leggera,
carica di profumi ai quali ormai non erano più abituati. Raggiunsero
gli spalti, e da lì rimasero a contemplare il paesaggio, morbide
colline coperte di foreste, illuminato dalla luce lunare.
Per
lunghi minuti rimasero in silenzio, ognuno immerso nei propri
pensieri, poi, come parlando a se stesso, Adalrich cominciò: “Non
ti ho mai detto il nome della mia famiglia semplicemente perché non
so quale sia. Fui abbandonato in fasce davanti alla chiesa di
Dachwig, in Turingia, e furono il conte e la contessa von Hohenberg
ad allevarmi come loro figlio. Lo sa Dio quello che hanno dovuto
sopportare per causa mia.”
“Perché?”
L'altro
emise uno sbuffo infastidito. “Lo vedi anche tu come sono fatto. Se
quei due bravi cristiani avessero ricevuto un Pfenning
per tutte le volte che sono stato definito figlio di Satana e frutto
di stregoneria, e per tutte le volte che si sono sentiti consigliare
di annegarmi nel fiume, a questo punto abiterebbero in un palazzo
tutto d'oro come l'Imperatore di Bisanzio.” Emise un sospiro.
“Comunque, evidentemente la Vergine Maria ha voluto ricompensare
quelle brave persone per la loro carità cristiana: poco tempo dopo
il mio arrivo, la contessa riuscì finalmente a concepire e partorì
un maschio. Nemmeno allora si liberarono di me.”
“Lo
credo bene,” replicò Hermann, “sei loro figlio.”
Adalrich
si voltò verso di lui, e lapidario rispose: “Non direi proprio.”
Fece un cenno a due sentinelle, che avevano interrotto il loro giro
di ronda per scrutarli da lontano, poi riprese: “Fui io a liberarli
della mia presenza appena ebbi l'età sufficiente per farlo. Dopo
tutto quello che avevano fatto per me, glielo dovevo. Scelsi di
entrare nell'Ordine, un po' perché la mia infermità a quanto pare
non mi impedisce di brandire una spada, e un po' perché speravo che
nell'Ordine avrebbero fatto meno caso al mio aspetto.”
“Ed
è stato così?”
“Penso
di sì. Ho dovuto sopportare nomignoli come 'neve', 'infarinato' o
'ricotta', ma perlomeno nessuno ha mai proposto di affogarmi o di
bruciarmi vivo.”
Hermann
gli appoggiò una mano sulla spalla. “Adesso però non ti chiamano
più così.”
“Non
in mia presenza.”
L'altro
sorrise. “Lo credo bene.” Poi, dopo una pausa: “E i tuoi li
senti ancora?”
“Non
sono i miei. Comunque sì, mando loro delle lettere. Li informo di
come sto e li ringrazio di tutto quello che hanno fatto per me. Non
voglio che mi credano un ingrato.”
“Non
li hai più rivisti?”
“No.”
Tornarono
a rivolgere la loro attenzione alle campagne. Da qualche parte stava
cantando un gufo, si udiva un latrare lontano di cani. Nel cavo dei
fossi e sotto gli alberi si vedeva già qualche lucciola.
Dopo
un po' Adalrich si rivolse al confratello e con voce sommessa chiese:
“E tu, Hermann?”
“Cosa?”
“Perché
sei entrato nell'Ordine?”
L'altro
sorrise. “Ora che ci faccio caso, in tutti questi anni non me
l'avevi mai chiesto. Sono il terzo figlio di un piccolo feudatario
nemmeno tanto facoltoso, mi piace viaggiare e non ho la minima voglia
di sposarmi, per cui eccomi qui.” Si inchinò con fare teatrale.
“E
tu li senti i tuoi?”
“Il
necessario per non fare la parte del figlio degenere. Adesso è
l'Ordine la mia famiglia.”
“Anche
la mia.”
Hermann
sorrise. “Quindi potremmo dire che siamo parenti. Saremo l’uno la
famiglia dell’altro, che ne dici?”
§
Il
giorno dopo, in pompa
magna, la santa
reliquia fu traslata finalmente a Dürnau. La strada era più carica
di fiori che mai; tutti i paesani, con addosso gli abiti della festa,
si assiepavano ai lati di essa; persino nobili di feudi vicini erano
accorsi con tutto il loro seguito, e i vivaci colori di cotte d'armi
e gualdrappe brillavano sotto il sole.
Preavvertiti
dalle missive inviate in Patria, erano presenti sia il vescovo di
Norimberga che quello di Fulda, che avrebbero concelebrato il
servizio divino.
Il
paese, normalmente quieto e laborioso, per l'occasione sembrava
essersi trasformato nella piazza di una grande città: data la
notizia che il feudatario avrebbe offerto un grande banchetto per
ringraziare il Signore di avergli fatto trovare la santa reliquia, si
erano dati convegno a Dürnau mendicanti, saltimbanchi e suonatori,
venditori ambulanti e semplici curiosi provenienti dai paesi vicini.
I bambini correvano su e giù eccitati dalla colorata novità, e
senza capire nulla di quello che stava succedendo, cercavano comunque
di intrufolarsi nei posti che offrivano una visuale migliore. Fin dal
primo mattino, gli anziani avevano collocato sedie ai margini del
sagrato, e pervicacemente le occupavano, in modo da non perdere il
posto conquistato. Da tutte le finestre pendevano drappi colorati e
ghirlande di fiori e foglie intrecciate con lunghi nastri; un
chierico vagante era salito sul bordo della fontana e stava
illustrando ai presenti, che già facevano capannello, le imprese del
glorioso Santo Atanasio di Alessandria.
Apparentemente
impassibili di fronte a tanta festosa confusione, i due cavalieri
dell'Ordine Teutonico procedevano ai lati del carro che trasportava
la cassa. Nel generale tripudio di colori, la severa sobrietà dei
manti bianchi e delle croci nere metteva in soggezione. Quando
passavano loro, gli strumenti musicali tacevano, i canti si
affievolivano e i balli cessavano. Persino i bambini smettevano di
fare chiasso, contagiati dal clima di rigore che sembrava circondarli
come un’invisibile barriera.
Arrivarono
davanti alla chiesa. Per l’occasione le porte erano state
spalancate, e l’interno era illuminato da centinaia di candele.
L’aria era opaca per le grandi quantità di incenso bruciate.
Padre
Caspar, il parroco di Dürnau, si affannava dentro e fuori dal
tempio, molto emozionato di avere ben due vescovi pronti a
concelebrare una messa solenne.
Quando
tutto fu pronto, la cassa fu scaricata con grande attenzione dal
carro, e fu portata in chiesa da otto soldati.
A
questo punto, arrivarono anche i due alti prelati. Uno si fece
portare sul sagrato seduto su una specie di sedia
gestatoria papale,
l’altro arrivò a cavallo di una mula bianca, con un paio di servi
che gli reggevano un parasole sulla testa e un terzo che conduceva la
bestia per le redini.
La
gente cominciò a sciamare in chiesa per la funzione.
Adalrich
fece cenno a Hermann che si sarebbero messi ai lati della porta, ma
uscì il barone von Obenstein in persona a chiamarli. “Senza di voi
il corpo del santo non sarebbe mai giunto fin qui,” disse,
sospingendoli verso la chiesa, “quindi ci tengo che siate al nostro
fianco durante la messa.”
Adalrich
approfittò dello svolgersi della cerimonia per osservare tutto. Era
tornata la sensazione di inquietudine, più forte che mai. Era come
trovarsi nel buio completo con la consapevolezza di avere alle spalle
qualcuno che invece vedeva benissimo: lui poteva solo percepirlo, ma
l’altro, chiunque o qualsiasi cosa fosse, sapeva perfettamente come
muoversi per assalirlo.
Fece
scorrere lo sguardo sulla navata gremita: davanti c’erano i nobili,
vestiti con gli abiti più belli, e poi man mano gente di ceto sempre
più basso, fino ai mendicanti, che avevano trovato a fatica un posto
in fondo, verso la porta. Notò una giovane donna che si era
rintanata in un angolo per allattare il figlio, e un vecchio che
nonostante i cori si era addormentato, e se ne stava appoggiato a una
colonna con il mento sul petto.
Vide
un soldato fare un gesto repentino verso un ragazzotto che ostentava
un’aria di perfetta indifferenza. Il giovane sussultò e fece per
divincolarsi, ma l’altro gli piegò il braccio dietro la schiena,
quindi gli frugò in tasca e ne trasse una scarsella, che restituì
al legittimo proprietario. Soldato e ragazzo uscirono dalla chiesa.
Spostò
lo sguardo sulla cassa. Essa era stata posata su un supporto ornato
di drappi colorati. Il coperchio era stato tolto, in modo che tutti
potessero vedere la reliquia che conteneva, ma il corpo era stato
coperto da un velo di vera seta di Bononia che celava la maggior
parte delle sue fattezze.
Tutt’intorno
ardevano i ceri, e la luce danzante delle fiammelle diede di nuovo al
cavaliere l’impressione che la figura si stesse muovendo lentamente
all’interno del sarcofago. Quasi sussultò quando vide il velo
sollevarsi appena, ma poi percepì una leggera corrente d’aria, che
faceva increspare l’impalpabile stoffa.
Sul
pavimento, accanto al supporto, c’era un sarcofago tutto d’argento,
ornato di pietre preziose. Per quanto ricco e splendido, Adalrich
sapeva che quello non era il reliquiario definitivo. Nel viaggio di
rientro dalla Terra Santa il barone von Obenstein aveva ordinato a
Venezia dei vetri di particolare pregio, che in quel momento stavano
venendo inseriti in una teca che avrebbe consentito anche la visione
del santo.
Cercò
con lo sguardo il barone e suo figlio. I due erano inginocchiati a
mani giunte. Il primo con la postura ieratica di un padre della
Chiesa, il secondo con lo sguardo furbetto di chi ormai ha già
saldamente in pugno tutto ciò che si era prefissato di ottenere.
Il
suo ruolo, ma soprattutto la Regola che aveva giurato di seguire,
deprecavano il pensare male degli altri, ma quel ragazzo metteva a
dura prova la sua volontà ogni volta che il suo sguardo si posava su
di lui.
Ricordava
bene tutte le sue fandonie sul miracolo della Vergine Maria, e
l’unica cosa che gli veniva in mente, guardandolo mentre ostentava
a beneficio del genitore lo sguardo pio di un pastorello che
contempla la Natività, era di frustarlo come avrebbe fatto con un
servo sorpreso a rubare.
Era
immerso in quei pensieri quando gli parve di notare in mezzo alla
folla qualcuno vestito di nero. Si voltò in quella direzione e si
trovò a fissare in viso la vecchia del giorno prima. Ella sollevò
la mano ossuta, nella quale stringeva un mazzetto di fiori gialli. Fu
solo un attimo, poi la gente ondeggiò, alcuni si spostarono e quando
nel gruppo tornò la calma non si vedevano più né abiti neri, né
trecce canute.
§
La messa era finita, ormai la
liturgia aveva ceduto il posto ai festeggiamenti, che erano in corso
un po' dappertutto.
Il parroco entrò nella chiesa
accompagnato dall’orafo, dal fabbro ferraio, dal falegname con i
suoi due apprendisti e dal macellaio. Seguivano alcuni frati del
vicino convento.
Poiché ormai era calato il
crepuscolo, egli accese due lumi. Uno lo tenne per sé e l’altro lo
consegnò al più autorevole degli artigiani, ovvero l'orafo.
Si fermarono tutti intorno alla
cassa con il corpo.
Il prete si fece il segno della
croce, quindi si avvicinò e tolse il velo di seta, rivelando
Sant'Atanasio in tutta la sua legnosa magrezza. Un mormorio passò
fra gli astanti.
“Ora
bisogna metterlo nella teca,” disse.
Tutti si guardarono irresoluti.
L’unico che dopo qualche istante si riprese fu il macellaio, che si
fece avanti e osservò accuratamente la salma, poi la toccò con un
dito e subito lo ritrasse con un’espressione indefinibile.
“Che
c’è?” gli chiese il fabbro.
“Mi
aspettavo che fosse rinsecchito.” Poi si girò verso il prete: “Con
rispetto, padre.”
“Certo,
figliolo.”
Si avvicinò di nuovo alla cassa,
ne osservò il contenuto con l’occhio dell’esperto, quindi
proclamò: “Lo prendiamo in quattro, due dalle spalle e due dai
piedi. Non dovrebbe rompersi. Sempre con rispetto, padre.”
“Ho
capito, figliolo. Fa’ il tuo dovere.”
“Sì,
padre.”
Sollevarono il corpo, che in
effetti si rivelò docile come quello di un dormiente, e lo deposero
nella teca ingioiellata. Con reverenza vi stesero sopra un drappo
ricamato, quindi si apprestarono a chiudere la cassa con il
coperchio.
Il falegname mandò i suoi
ragazzi a prenderlo. Certo, il mastro orafo l'aveva coperto di lamine
d'argento, bravo lui, ma la struttura, quella solida che avrebbe
sfidato i secoli, era fatta di buon legno di quercia lavorato nella
sua bottega. Gli apprendisti arrivarono, reggendo con attenzione il
pesante oggetto.
“Mettetelo
su,” ordinò. Poi si voltò verso il prete e, con l'intento di
fargli cosa gradita, aggiunse: “E dite un padre nostro, mentre lo
fate. Questa è una santa reliquia.”
I due cominciarono obbedienti a
recitare la preghiera. Si chinarono per appoggiare il coperchio, ma
Hans, quello che si trovava dalla parte della testa, non poté fare a
meno di fermarsi a fissare incuriosito quel volto ieratico, così ben
conservato che sembrava quasi vivo. Rimase a guardarlo come
ipnotizzato, mente il padre nostro si affievoliva fino a diventare un
sussurro stentato.
“Che
fai, dormi?” La voce del mastro falegname lo fece riscuotere
bruscamente. Il movimento fu così repentino che gli sfuggì la presa
del coperchio, il quale gli cadde imprigionandogli una mano contro il
bordo della cassa. Il ragazzo emise un urlo di dolore così forte che
riecheggiò in tutta la navata e cercò senza successo di ritrarre la
mano. Subito accorsero il fabbro e il falegname, che spostarono il
pesante pezzo di rovere liberando il ragazzo.
Hans si era procurato un profondo
taglio, dal quale il sangue era sprizzato su tutta la reliquia.
“Santo
cielo, guarda che cos'hai fatto,” brontolò il suo maestro,
fasciandolo alla meglio per arrestare l’emorragia.
“Scusate,
mastro Oswald,” balbettò il ragazzo, da una parte vergognoso per
quello che aveva combinato, ma dall'altra prossimo allo svenimento
perché impressionato dal sangue.
“Va'
in quell'angolo a sederti, mi sembri un cencio!”
“Scusate,”
ripeté Hans, quindi barcollò via alla meglio e si lasciò cadere
seduto alla base di un pilastro. La fasciatura di fortuna si stava
già arrossando.
Gli altri tolsero il coperchio.
“Che disastro,” grugnì scontento l'orafo. Tutti si guardavano
senza saper bene che fare.
Nemmeno il prete, cui i mastri
artigiani si volsero in cerca di consiglio, seppe dare istruzioni.
Alla fine fu mastro Kurt, il
macellaio, che con grande senso pratico cavò tutti d'impaccio. “A
cercare di ripulirlo rischiamo di fare peggio,” disse, “e due
gocce di sangue non hanno mai ammazzato nessuno. Ora chiudiamo, e poi
ci penseremo quando arriverà la cassa più bella.”
Le gocce per la verità erano ben
più di due, ma tutti approvarono con grande sollievo, e fecero come
l'uomo aveva suggerito.
Ancora mezzo intorpidito, Hans
seguì quello che i mastri artigiani stavano facendo con
l'impressione di avere la testa dentro la bambagia. Si passò la mano
sana sulla fronte, ritirandola coperta di sudore gelido. Gli mancava
il coraggio di guardare cos'era successo a quella ferita.
Gli altri trafficarono ancora un
po', poi il falegname si girò verso di lui e disse: “Ce ne
andiamo, vedi di muoverti.”
Il ragazzo si alzò alla meglio,
appoggiandosi al pilastro. Gli altri si stavano già dirigendo verso
la porta, e man mano che le lanterne si allontanavano, la navata di
faceva sempre più oscura. Gli parve di udire un cigolio come di
legno, e poi un fruscio alle sue spalle. Si voltò e vide un cane.
“Pussa
via, bestiaccia!” urlò indignato.
Gli altri tornarono indietro.
“Che c'è?” chiese mastro Oswald.
“Un
cane.”
L'uomo sollevò la lanterna per
fare luce nella navata ormai buia. “Si sarà infilato dentro quando
è entrata la gente. Dov'è andato?”
“Di
là.”
Nella direzione indicata non
c'era nulla. “Sei sicuro di averlo visto?” chiese il falegname.
Il ragazzo accennò di sì con la
testa. “Era grande come i mastini del cacciatore, giallo e con
delle macchie nere su tutto il corpo.”
“Mai
visto un cane del genere, secondo me te lo sei sognato.”
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