Come sempre, grazie a tutti coloro che
hanno dato un'occhiata a questa storia. Poiché tutti gli autori amano i
commenti, ringrazio in particolare fiore
di girasole, morgengabe, Saelde_und_Ehre, Syila, Dark_sky114,
miciaSissi, Me91, innominetuo, TotalEclipseOfTheHeart, PawsOfFire
e Spettro94 per avermene
lasciato uno^^
Capitolo 4
Non era ancora l'alba quando Udo
aprì gli occhi accanto a sua moglie Bertha. Stando attento a non
svegliare né lei né i due figli più piccoli, che dormivano insieme
a loro, scivolò fuori dalle coltri, raccolse l'involto dei vestiti e
andò nella stanza del camino. Accese un lume, quindi frugò nella
cenere alla ricerca di braci superstiti. Una volta che ebbe scavato
fuori qualche scintilla arancione vi buttò sopra degli sterpi
secchi.
Mangiò un pezzo di pane
nell'attesa che il fuoco si ravvivasse, poi vi aggiunse qualche
bastoncino più grosso e uscì. Il suo apparire fu salutato da un
coro di grugniti.
“Buoni,
buoni,” disse, mentre dava sfogo alla natura, “Adesso papà Udo
vi porta a mangiare.”
Finì di fare i suoi bisogni, si
sistemò e tolse il paletto a un recinto, dal quale subito si riversò
fuori un branco di maiali.
“Andiamo
nel bosco a cercare le ghiande,” annunciò, quindi prese un bastone
che teneva appoggiato al muro per la bisogna e cominciò con quello a
spingere gli animali verso la strada.
Il branco sapeva già dove
andare, e Udo non doveva fare altro che stare attento a non farlo
disperdere troppo. Inspirò soddisfatto e cominciò a fischiettare
un'aria, che echeggiava nel silenzio del primo mattino.
Poi all'improvviso si udì un
urlo. Qualcosa che non era né umano né animale, un lamento lungo e
sinistro che gli fece ghiacciare il sangue nelle vene e spinse i
maiali a fuggire stridendo in tutte le direzioni. “Signore Iddio!”
esclamò il porcaro, tappandosi le orecchie. Si guardò intorno: il
sole non era ancora comparso all'orizzonte, e nella penombra incerta
si vedeva troppo poco per capire se ci fosse qualche belva, o per
capire dove fossero andati a finire i porci.
Si spostò verso la strada e
cominciò a chiamare i suoi animali. Mentre era così impegnato, notò
che poco lontano c'era qualcosa per terra. Una sagoma scura e
immobile.
Per un po' rimase a guardarla
titubante, aveva ancora nelle orecchie quell'orrendo ululato e la
paura gli rendeva i piedi più pesanti del piombo, poi pian piano si
avvicinò, e quando fu alla distanza giusta si accorse che si
trattava di un uomo raggomitolato.
“Signore?”
chiamò incerto. “Signore? Viandante?”
Nessuna risposta.
“Signore?”
Si avvicinò ancora, l'uomo
rimaneva immobile, rannicchiato in una specie di viluppo scuro.
Alla fine, Udo si fece coraggio,
lo afferrò per una spalla e lo voltò sulla schiena.
Quello che vide gli fece fare uno
scomposto salto indietro. Rotolò a terra con un gemito di
raccapriccio, quindi si rialzò, si disinteressò del tutto dei
maiali e corse in paese più forte che poteva, urlando con quanto
fiato aveva in corpo.
§
Era da poco passata l’alba
quando il porcaro fu introdotto nella sala delle udienze del barone
von Obenstein.
Il pover’uomo stava ancora
tremando, ed era pallido come un morto. Mio signore!” esordì
prosternandosi, “Mio signore, una belva!”
Il nobile gli si fece più
vicino. “Una belva? Dove?”
“Ha
ucciso un uomo sulla strada per Norimberga.”
“Che
stai dicendo?”
Von Obenstein cercò di cavare
fuori altre notizie al porcaro, ma questi continuava a balbettare di
orsi e lupi e sembrava non sentire nemmeno le sue domande.
Alla fine, il feudatario
spazientito chiamò il guardiacaccia e alcuni armigeri, poi si
risolse ad andare sul posto personalmente.
Quando arrivò, notò per prima
cosa un capannello di gente che si scambiava commenti preoccupati.
Qualche volenteroso aveva radunato i porci di Udo, soprattutto per
impedire che andassero a grufolare intorno alle spoglie. Si palpava
il sollievo derivante dal fatto che la vittima era un forestiero.
Ulrich von Obestein scese da
cavallo, la folla fece ala al suo apparire. Il nobile ordinò per
prima cosa agli armigeri di far allontanare tutti, e i paesani,
brontolando sottovoce, si dispersero per tornare alle loro attività.
Successivamente si avvicinò alla
vittima, che si trovava ancora nella posizione in cui il porcaro
l’aveva lasciata. Si trattava di un uomo sui trent’anni, vestito
con dignitosa sobrietà, in uno stile che faceva pensare più a un
letterato o a un dottore in legge che a un mercante.
Il volto era cereo, impietrito in
una spaventosa espressione di orrore. I capelli di un rosso
fiammante, lunghi fino alle spalle, erano arruffati e
impiastricciati. La gola era stata squarciata con una forza che non
poteva essere umana.
Il barone si chinò per
osservarlo meglio, e notò che oggetti di valore e denari erano
ancora al loro posto. Il pugnale che il poveretto portava in cintura
non era uscito dal fodero, il bastone da viandante giaceva
abbandonato poco lontano.
Mentre era assorto nelle sue
osservazioni, la voce di Wernhart, il suo capo-guardiacaccia, lo
distrasse: “Voi permettete, mio signore?” Si inginocchiò anche
lui accanto al corpo e lo esaminò.
“Una
cosa del genere potrebbero averla fatta dei lupi,” disse dopo un
po’, “o forse un orso.” Fece una pausa, si tolse il cappello
adorno di una lunga penna di urogallo, si grattò la testa. Poco
convinto soggiunse: “Ma adesso non è stagione. Né di orsi né di
lupi. Non si avvicinano così tanto al paese, in primavera
inoltrata.”
“Una
lince, allora?” propose von Obenstein.
L’altro si strinse nelle
spalle. “Non c’è un’impronta,” disse poi. Si alzò, fece un
giro tutt’intorno scrutando il terreno, controllò anche le foglie
dei cespugli e i tronchi degli alberi. Scosse la testa, sembrava più
perplesso che deluso. “Niente,” concluse lapidario.
“Un
cinghiale?”
“Mio
signore, un cinghiale avrebbe lasciato molte più tracce, e data la
sua altezza l’avrebbe colpito al ventre.”
“Forse
l’uomo era chinato per qualche motivo.”
“E
soprattutto, mio signore, né cinghiali, né linci, né orsi né lupi
lasciano la loro preda praticamente intera ma senza più una goccia
di sangue in corpo.”
Il Barone lo fissò stupito. “Che
stai dicendo?”
“Che
io sia dannato se non è così, mio signore.” Indicò lo squarcio
che la disgraziata vittima aveva sulla gola. “Dov’è finito tutto
il sangue che sarebbe dovuto uscire da qui?” Si fece il segno della
croce e soggiunse: “Che Sant’Uberto ci protegga tutti, mio
signore.”
Il nobile alzò lo sguardo e notò
che anche gli armigeri si stavano lanciando l’un l’altro occhiate
cariche di preoccupazione. La cosa lo fece quasi sorridere: soldati
che scendevano in guerra senza la minima esitazione, si ammucchiavano
come pecore tremanti di fronte a un guardiacaccia che, probabilmente
troppo ubriaco per riconoscere le tracce di selvatico, cercava di
buttarla sul soprannaturale per salvare la faccia.
“Basta
con queste sciocchezze da comari!” esclamò. “Ordino che sia data
sepoltura cristiana a queste spoglie. Oltre ad affidare a Dio l'anima
di questo poveretto, padre Caspar si occuperà di risalire alla sua
identità, se sarà possibile, e farà restituire i suoi averi alla
famiglia. In caso contrario, li userà per opere di carità.”
Il barone rientrò al castello
immerso in tetri pensieri: c'era una belva nelle sue terre. Che si
trattasse di orso, lupo o lince, poco importava: era necessario
stanarla e ucciderla.
Una belva libera di predare
significava pericolo, e significava che i contadini non sarebbero
andati nei campi, i pastori non avrebbero più portato fuori le
greggi, e in generale nessuno avrebbe più fatto il proprio dovere.
“Bisogna
organizzare una caccia,” disse, rivolgendosi a Wernhart, che si
trovava ancora al suo fianco.
“Una
caccia, certo, mio signore. Per quando?”
“Partiamo
il prima possibile. Raduna i battitori e fa preparare i cani.”
“Volete
dire oggi, mio signore?”
“Sì,
questa non sarà una caccia di piacere. Dobbiamo uccidere la belva.”
Mastro Wernhart assunse
un'espressione indefinibile. Di nuovo si tolse il cappello, si ravviò
i capelli brizzolati e se lo rimise in testa, quindi estrasse dalla
camicia la medaglietta di Sant'Uberto che portava al collo.
“Non
sarà una caccia di piacere,” confermò.
I due si fissarono negli occhi
per un istante, poi l'uomo si inchinò e disse: “Con il vostro
permesso, barone, vado a preparare il necessario.”
Una volta che il guardiacaccia si
fu allontanato, von Obenstein fece chiamare anche i due fratelli
cavalieri.
“È
necessario stanare una belva,” li accolse sbrigativo, ancora sotto
l'effetto dello strano comportamento di mastro Wernhart, “Ho dato
ordine di approntare cani e battitori. L'animale è pericoloso, la
notte scorsa ha ucciso un uomo sulla strada per Norimberga, per cui
desidero che voi siate al mio fianco.”
I due chinarono il capo in segno
di assenso. Fratello Adalrich chiese: “Di che belva si tratta?”
“Non
lo sappiamo. Neppure il mio capo-guardiacaccia è riuscito a
capirlo.” Evitò di alludere alle strane preoccupazioni dell'uomo.
“Partiremo appena possibile,” disse.
Tornarono solo all'imbrunire, con
un niente di fatto. Una volta liberati, i cani avevano cominciato a
ululare in modo strano, come se avessero trovato la migliore delle
piste ma al tempo stesso fossero spaventati o confusi da qualcosa.
Peraltro non si erano lanciati a seguirla, erano rimasti tutto il
tempo intorno al gruppo dei cacciatori, badando a non allontanarsi
troppo. Nemmeno i veltri più intraprendenti e vigorosi avevano mai
interrotto il contatto visivo con i padroni.
I battitori avevano percorso il
lungo e in largo la foresta, ma non avevano trovato traccia di grossi
animali da nessuna parte.
Un po' in disparte rispetto al
resto del gruppo, i due cavalieri dell'Ordine procedevano fianco a
fianco. “Ti vedo pensieroso,” ruppe il silenzio fratello Hermann.
“Cosa c'è?”
L'altro scosse la testa. “Niente
di importante.”
“La
Regola consente la caccia. Inoltre, in questo caso non sarebbe
neppure da considerare divertimento, dato che c'è in giro una belva
pericolosa che bisogna uccidere.”
Fratello Adalrich emise un
sospiro. “Non è questo il problema.”
“E
allora cosa c'è?”
“Non
lo so. Ho una brutta sensazione, non riesco a spiegartelo meglio. Io
sapevo che oggi non avremmo trovato nulla, non chiedermi perché.”
“Fai
ancora quegli strani sogni?”
“Sì.”
Hermann stava per ribattere,
quando un grido lo riscosse: “Eccolo! Eccolo!”
I due si voltarono verso il
gruppo dei cacciatori, e videro che era animato di un insolito
fermento. C'erano uomini che preparavano picche e reti, i cani
latravano e ululavano come impazziti, ma nessuno di essi sembrava
volersi addentrare nella macchia.
Si avvicinarono al barone, che
subito disse loro: “Hanno visto un animale grosso, dal manto giallo
macchiato di nero.” Sorrise compiaciuto e aggiunse: “Lo dicevo,
io, che era una lince.”
Adalrich aggrottò le
sopracciglia. “Perché i cani non seguono la traccia?” chiese
insospettito.
Sotto l'effetto della frenesia
venatoria, il barone rispose: “E che ne so? Stupidi bastardi
pulciosi, dirò al guardiacaccia di punirli a dovere. Però ora
andiamo, non vorrei che scappasse!”
Spronò il cavallo e scomparve
nella selva, salvo poi tornare dopo poco con le pive nel sacco: si
stava facendo buio e la belva aveva fatto perdere le sue tracce. Non
era più possibile cacciare. “Domani torneremo,” promise al
misterioso animale, poi voltò il cavallo per rientrare.
§
Il bambino piangente in braccio,
Gertrud stava facendo del suo meglio per addormentarlo, ma fino a
quel momento senza alcun successo: la creatura continuava a vagire
con quanto fiato aveva in gola. Aveva provato a dargli il seno, a
cullarlo, a cambiarlo, ma il piccolo non ne voleva sapere di
calmarsi.
Con un sospiro, la giovane donna
si avvicinò alla finestra, appoggiò il lume sul davanzale e
socchiuse lo scuro per far entrare un po' d'aria fresca. In quel
momento udì un tramestio, e una figura passò rapida all'esterno,
attraversando il quadrato di luce che la candela proiettava per
terra. Era un uomo pallido come un morto, con i capelli rossi tutti
arruffati e un abito nero. Aveva la gola squarciata da un orecchio
all'altro.
“Santa
Vergine!” mormorò Gertrud, quindi si fece indietro e sbarrò la
finestra, poi corse a letto e si rannicchiò accanto al suo sposo con
ancora il figlio fra le braccia.
Svegliato di soprassalto, mastro
Oswald chiese: “Che c'è, moglie?”
Tremante, la donna si strinse a
lui e in un soffio disse: “Ho visto il morto.”
“Il
morto? Che morto?”
“Quello
di stamattina. È passato di corsa davanti alla finestra.”
L'altro emise uno sbuffo
infastidito. “Gertrud, te l'ho sempre detto: tu immagini troppe
cose. Chissà cos'avrai visto.”
“Ti
dico che era lui. L'ho guardato bene in faccia, quando Bertha e Leni
l'hanno cucito nel sudario.”
“Se
l'hai guardato così bene, avrai anche visto che era morto, e i morti
non camminano: giacciono sottoterra.”
“Era
lui,” ripeté caparbia Gertrud.
“Ti
ripeto che i morti non camminano,” rispose l'uomo accarezzandole la
schiena. “Ora dormi. Domattina andremo a parlare con Padre Caspar,
e vedrai che lui ti tranquillizzerà.”
§
Il giorno dopo, i coniugi
Schreiner, Gertrud con il figlio più piccolo in braccio e mastro
Oswald con quello più grandicello per mano, si presentarono alla
canonica.
Il prete li accolse affabilmente,
li condusse in chiesa. Mentre percorrevano a passi lenti la navata,
chiese: “Ebbene, volete dirmi cosa c'è?”
Mastro Oswald prese la parola:
“Mia moglie Gertrud ha bisogno della vostra rassicurazione, padre.”
Padre Caspar annuì. A volte
capitava che le giovani mogli si sentissero rivolgere determinate
richieste dai mariti, e spesso venivano proprio da lui a chiedere
cosa Dio permettesse nel talamo e cosa invece no. Lo stupì che la
giovane donna avesse con sé due figli: non era un po' tardi per
avere dubbi su cosa accadesse tra marito e moglie?
Le fece comunque cenno di
seguirlo, e continuando a camminare per la navata distanziò di un
po' mastro Oswald. “Ebbene, figlia mia, di cosa volevi parlarmi?”
le chiese.
Gertrud deglutì, prese un bel
respiro, e infine disse: “Padre, io ho visto il morto ieri notte.”
Il sacerdote interruppe il suo
lento passeggiare. “Eh?”
“Il
morto, quello di ieri. Io l'ho visto correre per il campo. Aveva i
capelli rossi e la faccia bianca, e la gola aperta così.” Si passò
sul collo la mano che non reggeva il figlio.
Padre Caspar emise un sospiro.
“Figliola, ti sarai sbagliata. Quel pover'uomo giace sotto due
braccia di terra dietro l'abside della chiesa.”
“So
quello che ho visto, padre,” rispose imperterrita Gertrud. Una ruga
verticale le si disegnò al centro della fronte pallida.
Il religioso scosse la testa:
dannate femmine dalla natura impressionabile, che vedevano sempre
cose che non c'erano e si spaventavano della loro stessa
immaginazione. “Quel pover'uomo era morto,” ripeté adagio, col
tono che avrebbe usato per parlare a una bambina, “quindi
certamente non poteva correre per il paese. Forse l'idea che ci sia
una belva qui nei boschi ti ha scossa e hai creduto di vedere
qualcuno.”
Gertrud abbassò la testa
evitando di replicare.
“Torna
alle tue faccende, figlia mia,” le suggerì il religioso, ma la
giovane donna sembrava tutt'altro che convinta.
“E
ora cosa c'è, mia cara?”
“Padre,
io l'ho visto. Ero affacciata alla finestra, e l'ho visto da qui a
dove siede Oswald.” Indicò il marito, che stava facendo saltellare
l'altro figlio sulle ginocchia.
Il prete sospirò di nuovo, poi
disse: “Va bene, dal momento che le mie parole non hanno effetto,
sai cosa facciamo? Ora andiamo fuori a vedere la tomba, così ti
convincerai finalmente che ieri notte hai fatto solo un brutto
sogno.”
Padre Caspar chiamò il
falegname, quindi tutti in fila uscirono per andare sul retro della
chiesa, dove, circondato da una siepe di prugnolo, si trovava il
cimitero.
“Ecco
figli miei,” disse il prete, “guardate con i vostri occhi.” Poi
volse lo sguardo in direzione della sepoltura, e l'unica parola che
riuscì a proferire fu: “Ma...”
Si fece il segno della croce.
La terra era stata spinta ai lati
della tomba, al posto della quale c'era solo una fossa irregolare.
Anche la tomba accanto, nella quale era stata sepolta la povera
Christine Klein, morta di parto due giorni prima, si trovava nelle
stesse condizioni. I fiori che la coprivano erano stati sparsi un po'
ovunque, la croce era stata divelta e la siepe era stata aperta da
qualcosa di grosso che l’aveva attraversata spezzando un paio di
rami. Padre Caspar azzardò un'occhiata in quel che restava della
tomba e si ritrasse pallido come un cencio. “Signore Iddio,”
mormorò con voce spenta.
In quel momento echeggiò un urlo
disperato: “Hans! Il mio Hans!”
Si affacciarono sul sagrato e
videro che stava arrivando di corsa una donna scarmigliata e
piangente.
“Il
mio Hans!” ripeté ella.
Attirate dai clamori, dalle case
intorno cominciarono a uscire altre donne. I negozianti si
affacciarono alla porta delle botteghe, e in generale chiunque era
sulla piazza rivolse la sua attenzione a quegli strazianti lamenti.
Oswald riconobbe la vedova Egger,
madre del suo apprendista più giovane.
Corse verso di lei. “Martha!
Che succede?”
La donna singhiozzava così forte
che non riusciva ad articolare le parole. “Hans...” balbettò.
Il falegname ricordò che il
giorno prima il ragazzo si era ferito. “La mano?” chiese,
immaginò che il taglio si fosse infettato.
“Non
c’è più!” urlò la donna per tutta risposta. “Hans è
sparito, non c’è più!” Di nuovo ruppe in singhiozzi scomposti.
Mastro Oswald la prese per le
spalle, la costrinse a calmarsi. “Come sarebbe a dire che non c’è
più? Oggi deve venire a bottega. Dov’è andato?”
“Lo
sa Iddio, dov’è andato. Questa notte l’ho sentito uscire per
andare alla latrina. Mi sono riaddormentata prima che rientrasse, e
quando mi sono svegliata stamattina lui non c’era più. È
scomparso!”
Dal capannello di gente che stava
ascoltando la vicenda si levò una voce: “Io questa notte ho
sentito un ululato terribile!”
“Anch’io!”
esclamò un’altra, “E di certo non erano lupi!”
“No,
nessun lupo fa un verso del genere. Mi ha fatto ghiacciare il sangue
nelle vene!”
A questo punto, si fece avanti
anche il prete. “Basta! Ora calmatevi tutti!” esclamò.
L’autorevolezza della figura
religiosa fece sì che pian piano la gente smettesse di agitarsi.
Tutti si voltarono verso di lui con aspettativa.
“Una
belva feroce si sta aggirando intorno a Dürnau,” proclamò allora
Padre Caspar, “Uccide le persone e profana le tombe.”
Un mormorio spaventato si levò
dalla folla riunita, il sacerdote continuò: “Quindi ora andrò ad
avvisare il barone, e gli spiegherò quello che sta accadendo qui in
paese. Per grazia di Dio, ci sono presso di lui anche due fratelli
cavalieri dell’Ordine Teutonico, e anche i loro soldati, che senza
dubbio ci difenderanno.”
§
Seduti intorno al tavolo nella
sala delle udienze, il barone, suo figlio Konrad, il comandante delle
guardie, il capo-guardiacaccia e i due fratelli cavalieri ascoltavano
quello che padre Caspar stava raccontando.
“E
quindi, mio signore,” terminò di narrare il prete, “morti che
dovrebbero giacere in una sepoltura cristiana sono visti vagare per
il paese, le tombe sono profanate, la gente scompare, si odono
lamenti e ululati nella notte.” Fece una pausa durante la quale
fissò negli occhi i presenti uno per uno, interrompendosi giusto un
attimo prima di rivolgere lo sguardo su fratello Adalrich. Con voce
cupa concluse: “Io credo che il Demonio sia all’opera in questo
luogo.”
“Io
invece credo che si tratti di una lince,” rispose pacato von
Obenstein, senza lasciarsi contagiare dal clima di terrore mistico
che il prete aveva evocato. “Oggi andremo nuovamente a caccia e
cercheremo di stanarla, così metteremo fine una volta per tutte a
questa storia.”
“Ma
le tombe, mio signore...”
“L’animale
non ha discernimento. Avrà sentito l’odore del corpo sottoterra e
avrà pensato a una preda facile.”
Padre Caspar continuava a essere
poco convinto. “E l’uomo che è stato visto aggirarsi con la gola
squarciata, mio signore?”
“Un
brutto sogno di quella donna.”
Alla lapidaria affermazione seguì
un lungo silenzio, che fu interrotto dall’arrivo di un paggio che
annunciava una delegazione di paesani nel cortile: era stato
ritrovato il corpo del povero Hans: giaceva al limitare del bosco,
poco lontano da casa sua. Il latore della notizia riferiva che il
ragazzo aveva la gola squarciata ed era completamente dissanguato,
esattamente come il viandante che avevano sepolto il giorno prima.
Partì immediatamente la seconda
caccia, questa volta con molti più battitori e cani diversi. Fu
mandato un messaggio anche ai nobili dei feudi vicini, non certo
perché si trattasse di un evento mondano, quanto piuttosto per avere
più occhi e più spade a disposizione.
Furono battute le foreste in
lungo e in largo, ma la stagione non era adatta per la grossa
selvaggina, che era perlopiù nel profondo della selva ad allevare i
piccoli, e quindi la ricerca rimase infruttuosa.
Solo verso sera, mentre gli
uomini stanchi rientravano al castello, il barone von Obenstein
scorse di nuovo lo strano animale maculato, quasi invisibile nella
penombra del crepuscolo.
“Eccolo!”
gridò, e spronò il cavallo per in seguirlo.
La misteriosa bestia si voltò
per un istante nella sua direzione, puntandogli contro occhi che
sembravano ardere di un fuoco verde, quindi si gettò di corsa nella
foresta.
Il barone le galoppò dietro fino
a che non sbucò in una specie di radura. Si guardò intorno:
l’animale non c’era più, né si sentivano in giro rumori di
frasche smosse. C’era però un vecchio che stava raccogliendo degli
sterpi.
Il barone si voltò verso di lui:
l’uomo sembrava completamente assorto nel suo lavoro, tant’è che
al suo arrivo non aveva neppure alzato la testa. Preso da una strana
curiosità, spronò il cavallo e gli si avvicinò. “Buon uomo,”
disse.
L’altro fece come se non avesse
neppure sentito. Portava una casacca scura, che nella penombra si
confondeva con la vegetazione. Era a testa scoperta e aveva radi
capelli bianchi che gli scendevano fin sulle spalle.
“Buon
uomo!” ripeté il barone, alzando la voce.
Il vecchio finalmente alzò la
testa e lo fissò. Aveva un volto che sembrava antico di secoli,
scuro e rugoso, ma con occhi come carboni ardenti. Von Obenstein
dovette faticare per non indietreggiare sotto quello sguardo, che
sembrava trapassare come una lama. “Buon uomo, hai visto un grosso
animale giallo a macchie nere passare per di qua?”
Il misterioso vecchio esitò per
qualche istante, poi gli rivolse uno strano sorriso, che nonostante
l’età rivelò una dentatura inaspettatamente candida e robusta.
Scosse la testa e si addentrò nella macchia prima che il nobile
potesse replicare.
Il barone rimase per un po’
interdetto a fissare la vegetazione in cui l’uomo era scomparso.
Non gli pareva di aver mai visto quel vecchio tra i suoi contadini, e
si chiese da dove potesse venire.
Mentre era immerso in quei
pensieri, udì il fioco richiamo di un corno. Quel suono lamentoso
ebbe il potere di riportarlo alla realtà contingente: realizzò che
stavano calando le tenebre, e che tra un po’ non avrebbe visto a un
palmo oltre il suo naso. Spronò il cavallo per raggiungere i suoi.
Quando tornarono in paese videro
una lunga fila di persone che, con provviste e fagotti, stava
entrando in chiesa. Sulla porta c’era padre Caspar, che impartiva
la benedizione a ogni paesano che varcava la soglia.
Il barone smontò da cavallo,
chiamò i due cavalieri e si avvicinò al sacerdote. “Che succede?”
gli chiese.
Il prete fece cenno ai fedeli di
continuare a prendere posto in chiesa, quindi si allontanò di
qualche passo, costringendo il barone e i due Teutonici a fare
altrettanto. Quando furono al sicuro da orecchie indiscrete, a bassa
voce spiegò: “Il figlio della vedova Egger non era morto.”
“Come
sarebbe a dire che non era morto?” replicò il barone incredulo.
“Non aveva la gola squarciata?”
Il prete si strinse nelle spalle
e con un sospiro rispose: “Al momento di chiuderlo nel sudario,
quando sua madre si è chinata su di lui per dargli un ultimo bacio,
ha aperto gli occhi e l’ha azzannata alla gola uccidendola
all’istante. Subito dopo è saltato giù dal tavolo con la rapidità
di una lontra, ha fatto lo stesso con Leni e avrebbe ucciso anche
Bertha, ma per fortuna le urla hanno attirato mastro Kurt, che è
arrivato con la mannaia che usa per tagliare le carcasse.”
Il barone rimase in silenzio per
qualche istante, ponderando la spaventosa portata di ciò che aveva
appena udito, poi chiese: “E adesso dov’è?”
“Hans?”
“Sì.
È ancora qui? Si può vedere questo redivivo?”
I due cavalieri si scambiarono
uno sguardo.
Padre Caspar lanciò un’occhiata
alla fila di persone che stava continuando a entrare in chiesa.
Passarono un uomo che portava in spalla un vecchio avvolto in una
coperta e delle donne con i figli in braccio o attaccati alle gonne.
Riconobbe alla luce delle fiaccole Lise che accompagnava per mano la
madre cieca. La donna stava cantando in unno sacro, e la sua voce
tremula echeggiava nel generale clima di mestizia.
Infine disse: “Hans è
scappato, ma temo che possa tornare, e questo è il motivo per cui ho
detto alla gente di rifugiarsi nella casa del Signore. Almeno ci sono
muri solidi e porte di rovere rinforzato. E Dio, naturalmente.”
Toccò la croce che gli pendeva dal collo.
Von Obenstein fissò a sua volta
la fila di gente che ormai andava esaurendosi, quindi chiese: “E i
corpi?”
“Sono
chiusi nella bottega di mastro Kurt. Domani vedremo in che condizioni
sono. Mastro Kurt è già stato curato.”
“Si
era ferito?”
“Hans
l’ha morso, ma non in maniera mortale. Il macellaio si è difeso
con la mannaia e gli ha fatto mollare la presa.”
“Bertha?”
“L’ha
morsa solo leggermente,
è già con gli altri.”
“Manderò
degli armigeri.”
Padre Caspar scosse la testa. “In
chiesa non entrerà nessuno. Dio, prima dei muri e dei portoni, sarà
la nostra fortezza.”
“I
paesani sono tutti dentro?” domandò il barone, senza farsi
contagiare dall’empito mistico.
“No,
alcuni hanno preferito non abbandonare i loro averi, come se i beni
materiali fossero più importanti della vita.”
“Allora
manderò i soldati a pattugliare il paese questa notte.”
A questo punto prese la parola
fratello Adalrich: “Staremo noi in chiesa, e i soldati dell'Ordine
daranno man forte ai vostri.” La frase aveva il tono di
un’affermazione apodittica.
Il prete e il barone si
guardarono, poi si voltarono all’unisono verso il cavaliere, che
alla luce delle torce sembrava ancora più imponente e gelido di
quanto non apparisse sotto i raggi del sole. Nessuno dei due ebbe il
coraggio di contraddirlo. Lui e il confratello si accomiatarono dal
barone con un sobrio inchino, quindi entrarono in chiesa. Attesero
che anche il prete fosse dentro, quindi fratello Adalrich diede
ordine di serrare le porte.
§
Le ore passavano. Tolti i
classici rumori di un gruppo numeroso di persone, colpi di tosse,
movimenti, parole sussurrate, nella chiesa c’era silenzio. Qua e là
ardevano dei lumi, qualcuno aveva buttato a terra dei pagliericci e
stava cercando di dormire. L’uomo che era entrato col vecchio sulle
spalle aveva spezzettato un tozzo di pane in una scodella, vi aveva
aggiunto un po’ di latte e ora lo stava imboccando.
“Quello
è un figlio affezionato,”
osservò fratello Adalrich.
Fratello Hermann si voltò verso
di lui. “Cosa?”
“Guarda
com'è premuroso.”
L’altro sorrise. “Hai
ragione.”
Un bambino che poteva avere un
paio d’anni sgusciò via dal viluppo di coperte nel quale era
coricato e trotterellò nella loro direzione. Li guardò
alternativamente entrambi, infine nella sua innocenza tese le
braccine verso fratello Adalrich e fece qualche passo verso di lui.
Il cavaliere lo fissò imbarazzato, senza sapere bene che fare.
Nello stesso momento, una giovane
donna, probabilmente la madre del bambino, lo raggiunse di corsa e lo
tirò indietro prima che potesse arrivare a sfiorare il cavaliere.
Con il figlio saldamente in braccio alzò gli occhi su di lui, forse
a disagio per quella plateale dimostrazione di sospetto nei suoi
confronti, ma rinunciò a dire qualcosa. Si girò e tornò al suo
giaciglio.
In quel momento, echeggiò
all’esterno un ululato agghiacciante. Un lamento che cominciò cupo
e roco, poi si alzò di tono fino a terminare con uno lungo urlo
stridulo.
Nella chiesa calò un silenzio di
tomba mentre tutti si scambiavano occhiate cariche di preoccupazione.
Padre Caspar sollevò il
crocifisso e cominciò a recitare una preghiera, ma si udì un altro
ululato, più vicino del precedente. A esso fece seguito un terzo
orrendo lamento.
Qualcuno cominciò a
singhiozzare, in più punti si udiva il mormorio di preghiere
recitate a fior di labbra.
A bassa voce, Adalrich disse a
Hermann: “È sotto le finestre.” Accennò con la testa in quella
direzione.
Nello stesso momento, mastro Kurt
con voce roca balbettò: “Non mi sento molto bene.”
I cavalieri si voltarono verso di
lui: aveva il volto stranamente gonfio, pallido e umidiccio. Le
occhiaie avevano preso una sfumatura livida. Il respiro si era fatto
pesante, gli occhi febbrili. Come in cerca di aria, tentò di
togliersi la benda che gli era stata applicata sulla ferita.
L’urlo all’esterno si fece
udire nuovamente, qualcosa urtò contro una delle finestre, la gente
gridò facendosi indietro. La voce di padre Caspar, che imperterrito
continuava a recitare preghiere, salì di tono.
Poi si udì un coro di
esclamazioni: mastro Kurt era crollato a terra e rantolava con il
volto ormai illividito. La gente si faceva indietro urlando, si
udivano pianti e strilli d’orrore.
Fratello Adalrich lo raggiunse a
grandi falcate, lo scosse, ma l’uomo sembrava ormai in agonia. Un
istante dopo, il cavaliere percepì l’impatto di un corpo contro il
proprio: Bertha, il volto gonfio e biancastro come quello del
macellaio, gli era crollata addosso priva di sensi, ed era nelle
stesse condizioni dell’uomo. Il cavaliere spostò appena la benda e
vide che la ferita si era gonfiata e arrossata, e secerneva liquido
giallastro come una piaga infetta.
Sulla scena calò un silenzio
attonito, rotto soltanto da qualche singhiozzo qua e là nella folla.
Fuori continuavano a udirsi gli ululati orribili, che però erano
mescolati a richiami e grida delle guardie, e di coloro che non
avevano voluto entrare nella chiesa.
Il cavaliere si guardò intorno,
poi fissò lo sguardo sul prete, che si fece il segno della croce e
in un sussurro disse: “Il Demonio è all’opera qui a Dürnau.”
Stava per aggiungere altro quando da fuori giunse una cacofonia
particolarmente intensa di grida, colpi e lamenti.
“Aprite
la porta!” ordinò Adalrich.
“Se
apro, entreranno,” rispose il prete, “non posso.”
“Aprite,
vi dico! Io e il mio confratello dobbiamo uscire. Non sentite?”
Qualcuno stava chiamando aiuto,
si udivano strida orrende, ringhi e soffi.
“Aprite!”
Visto che padre Caspar non
sembrava intenzionato a ottemperare alla sua richiesta, Adalrich si
rivolse a Hermann: “Apri la porta!”
L’altro, abituato quanto lui a
mantenere il sangue freddo in combattimento, senza una parola andò
al catenaccio e lo tirò, poi schiuse il battente.
Fuori nel frattempo era calato un
silenzio di morte. Qua e là erano infisse delle fiaccole, una
giaceva abbandonata al suolo accanto al corpo immoto di un armigero.
Il sagrato sembrava deserto.
I due cavalieri avanzarono cauti,
le spade in pugno. Il soldato era morto, la gola squarciata come le
altre vittime. Non una goccia di sangue a macchiare il terreno
intorno. Adalrich percepì un fruscio e si girò di scatto, solo per
scorgere un’ombra che scompariva dietro la chiesa. “Purché non
trovino il modo di entrare,” disse, senza sapere bene di chi stava
parlando. Si avvicinarono al grande edificio di pietra, e dietro
l’abside cominciarono a udire il suono di qualcosa che veniva
ripetutamente strappato, insieme ad ansiti e gorgogli. L’aria era
gravata di un pesante tanfo di putrefazione.
Avanzarono ancora e si parò loro
dinnanzi la seguente scena: un ragazzo dal volto cereo e gonfio, con
una zazzera scomposta di capelli castani e una mano fasciata, era
chino su una tomba aperta, dalla quale stava estraendo brani di carne
che addentava e divorava. Al loro apparire, esso si voltò verso di
loro, rivelando una ferita che gli apriva la gola da un orecchio
all’altro. Con un grugnito di disappunto, saltò in piedi e si
dileguò nel buio.
Fratello Adalrich estrasse la
spada e senza esitare si lanciò al suo inseguimento. Uno dei pochi
vantaggi della sua infermità era che di notte vedeva meglio degli
altri, per cui anche nel fioco riverbero delle torce riusciva a
scorgere la sagoma del ragazzo che si allontanava di corsa.
Lo raggiunse in poche falcate.
“Ehi, tu!” lo chiamò.
Il ragazzo si immobilizzò come
se fosse andato a sbattere contro un muro, quindi si girò con la
repentinità di un serpente, piegandosi sulle gambe come per spiccare
un salto. Nel buio il suo volto appariva come una macchia bianca
nella quale si aprivano tre voragini nere: due erano gli occhi, e la
terza, innaturalmente ampia, la bocca.
Balzò in avanti con un ululato
gorgogliante, cercando di avventarsi contro di lui. Il cavaliere si
fece sotto, parò il morso con l’avambraccio protetto dall’usbergo,
lo passò da parte a parte con la spada, quindi indietreggiò, e nel
momento in cui il ragazzo cadeva a terra lo decapitò. Il corpo si
accasciò e rimase immobile.
Adalrich si guardò intorno. Il
silenzio non era più perfetto, si udivano vaghi tramestii, l’eco
lontana di qualche ringhio. Una sagoma, appena visibile nel vago
chiarore delle torce, comparve al fondo del sagrato, rimase immobile
per un istante e poi si rituffò nel buio del paese.
Stava ancora ponderando se
lanciarsi all’inseguimento, quando notò quello che sulle prime gli
parve un grosso cane. Era molto più robusto e alto di un cane
normale, aveva il manto giallastro e screziato di nero, i quarti
posteriori più bassi degli anteriori e le orecchie rotonde come
quelle di un orso. La sua chiostra di denti dava l’impressione di
poter staccare il braccio di un uomo con un solo morso.
L’animale alzò il muso verso
di lui e rimase immobile a mascelle semiaperte, probabilmente
cercando di fiutarlo. Adalrich si mosse deciso nella sua direzione,
ma il misterioso cane si girò e scomparve nel buio. Quando il
cavaliere raggiunse il punto in cui l’aveva scorto, non trovò nemmeno
un’impronta.
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