Capitolo
Quattro
L
’incubo non si attarda ad ammirare il proprio operato, invece
coglie l’occasione propizia e, senza tante cerimonie,
agguanta
l’Uomo Nero per la collottola e lo carica di peso sulla
propria
groppa poi, dopo una fuggevole occhiata a Ba’al, si risolleva
rapidamente in volo, allontanandosi da quel posto disgraziato di gran
carriera.
Mot inarca
scetticamente un
sopracciglio, osservando con un misto di contrarietà e
divertimento
il fratello ancora intento a ringhiare i suoi improperi al vento.
«Per
quale motivo, se è
lecito chiedere, li hai lasciati fuggire?» si informa a quel
punto
Mot, dopo aver di nuovo recuperato il suo cipiglio annoiato.
Ba’al si
volta bruscamente
verso di lui e sembra proprio intenzionato a farne uno spirito allo
spiedo. Brontola sommessamente, somigliando a un sordo tuono.
«Quella
dannata copia mal
riuscita di un cavallo ha rovinato tutto!» si lamenta
lagnoso. «E
da quando, comunque, i cavalli hanno i denti di una tigre?»
borbotta
indignato, agitando in aria il braccio offeso e facendo scuotere
mestamente la testa di Mot.
«Avresti
potuto sbarazzarti
di entrambi facilmente, fratello. Ma hai preferito giocare con quello
stupido spaventapasseri vestito da corvo» lo rimprovera
bonariamente.
«Faccio
quello che mi pare»
si impunta Ba’al, pestando i piedi a terra come un moccioso
di
cinque anni.
Mot solleva per
l’ennesima
volta gli occhi al cielo e sospira, decidendo di lasciare perdere
quella discussione per evitare di arrabbiarsi seriamente a causa
l’infantilità del fratello. Invece osserva
l’orizzonte oltre il
quale sono scomparsi quei due e si augura che non finiscano con il
diventare un problema.
*
L’incubo
che attraversa il
cielo buio, filando come una saetta, è confuso e decisamente
spaventato. La creatura con la quale si sono scontrati non era certo
uno dei soliti spiriti da quattro soldi che a volte incontrano in
giro per il mondo; avrebbe fatto a pezzi entrambi, se un pizzico di
fortuna non li avesse favoriti permettendogli di tagliare la corda,
trascinando con sé il suo spirito oscuro. Trema al ricordo
della
facilità con cui si è liberato dei suoi denti e
si augura di non
doverlo mai più rincontrare, per nessun motivo. Come se non
bastasse, il suo padrone è ancora riverso sulla sua schiena
e non ha
mai accennato a muoversi durante tutto il tragitto. È un
po’
impensierito, in effetti; non ha idea di che altro fare a quel punto.
Certo, lo ricondurrà alla loro tana, ma poi? Tornare a casa
sarà
sufficiente a sistemare le cose? Volta un poco il capo a osservare
brevemente la scura figura abbandonata sulla sua groppa e dubita
sinceramente che rientrare al rifugio servirà a far tornare
tutto a
posto. Soffia uno sbuffo angosciato, piegando le orecchie e
sentendosi tremendamente spaesato, ora, senza una vera guida.
Individuata
l’entrata del
covo vi si introduce con cautela, facendo attenzione a evitare
accuratamente ostacoli che normalmente non noterebbe. Alcuni degli
incubi più giovani si affacciano curiosi dalle gallerie ma
si
ritraggono in fretta al loro passaggio, senza veramente osare
sporgersi troppo né tantomeno avvicinarsi. Giunto
all’ampia grotta
principale, richiama con un sottile nitrito un vecchio compagno;
quando quest’ultimo li raggiunge, sorpreso, rimane un momento
impalato a fissare la scena inattesa che si trova davanti, poi lancia
un’occhiata indagatrice all’altro incubo, senza
però ottenere
alcun chiarimento, salvo una seccata scrollata di capo e un raspare
nervoso sul grigio pavimento roccioso. Proseguendo oltre quella sala,
più lentamente del consueto, volta solo per un breve istante
il muso
facendo capire al compagno di stargli dietro, poi scende per il
ripido pendio che conduce alle camere private dello spirito e
lì
finalmente si ferma, indeciso sulla prossima mossa. Il suo padrone,
fino a quel momento, non ha mai dato cenno di essere cosciente, e il
palpabile nervosismo che sente nel compagno appena giunto non
è
minimamente d’aiuto. Sbuffa agitato; protesterebbe a viva
voce, se
solo ne avesse l’opportunità. Tutta quella
situazione è una
follia: lui è un incubo, non un valletto, e nemmeno un
condottiero.
Prendere decisioni, o far fronte a urgenze, non è il suo
compito,
che diamine! Una nuvoletta grigiastra esce dalle sue narici dilatate
nel momento in cui sbuffa sonoramente tutta la sua frustrazione.
Piano, ripiega le sottili zampe sotto di sé, permettendo al
compagno
di scostare lo spirito facendolo scivolare sul piccolo baldacchino
nel quale normalmente riposa. Un fievole mugolio abbandona le labbra
strette dello spirito, ma null’altro ne esce, acuendo il
senso di
impotenza dei suoi incubi. Quello dei due che lo ha ricondotto a
casa, nonostante non ne abbia per nulla voglia, si risolve a tornare
là fuori: deve assolutamente trovare qualcuno disposto a
dare
un’occhiata al loro padrone, perché avere gli
zoccoli va bene se
vuoi cavalcare veloce come il vento, ma non va affatto bene se devi
rimettere insieme brandelli di spirito oscuro.
“Bleah” si ritrova
a pensare, sconfortato, avvertendo persino un po’ di nausea
all’idea.
Purtroppo si rende
conto solo
nel momento in cui torna all’aria aperta che è
ancora notte fonda
e, accidenti, quante possibilità possono esserci che riesca
a
scovare qualcuno di utile a quell’ora? “Forse,
però…”
tentenna, preoccupato. Solleva gli occhi al cielo stellato, sapendo
di non avere molte altre scelte, a quel punto. Prende quota, facendo
vagare lo sguardo attorno a sé; sale ancora, sempre
più in alto,
senza mai smettere di scandagliare l’oscurità
fitta, e molti
minuti dopo, finalmente, i suoi sforzi vengono premiati nel momento
in cui individua alcuni sottili e sparuti filamenti dorati che si
dipanano oltre le scogliere perdendosi al di là della
foresta.
Nervosamente ne individua la provenienza e parte spedito in quella
direzione, augurandosi di poter rivedere le stelle della sera
seguente.
Se la situazione
fosse
differente, se tutti loro potessero ancora contare su una buona guida
affidabile e una buona scorta di paura alla quale attingere, se di
fronte a sé ci fossero solo case buie e bambini
addormentati, non si
sognerebbe mai di avvicinare quello spirito in particolare,
soprattutto non da solo; purtroppo nulla di tutto ciò
è a portata
di naso, al momento, pertanto deve rischiare e sperare che le cose
vadano nel verso giusto, per una volta.
*
L’Omino
dei Sogni solleva
repentinamente lo sguardo, sorpreso, nel momento in cui sente un
forte nitrito provenire da qualche metro più in alto.
Lassù, un
poco discosto dal punto in cui si trova lui, può a fatica
scorgere
la nera sagoma di quello che facilmente etichetta come incubo. Uno
piuttosto grosso, a ben vedere. Fra le sue piccole mani appaiono due
lunghe e sottili fruste dorate, ma non fa nulla per usarle, troppo
occupato a osservare la creatura del buio ferma a distanza di
sicurezza e il suo inspiegabile comportamento: si limita a
osservarlo, palesemente nervoso, senza accennare ad attaccarlo
né ad
andarsene. Sanderson reclina il capo e lo studia attentamente.
È
strano che un incubo solo si avventuri così vicino al
guardiano dei
sogni, ben conoscendone i pericoli. “Perché questo
lo sta
facendo?” si domanda, suo malgrado stupefatto.
*
L’incubo
è spaventato ma sa
che deve farsi avanti, in un modo o nell’altro. Cautamente,
un
passo per volta, si avvicina allo spirito dorato. Quando
l’Omino
dei Sogni fa schioccare in aria una delle sue fruste,
l’incubo
ripiega indietro le orecchie e scalcia terrorizzato ma, facendo
violenza sul suo stesso spirito di sopravvivenza, rimane lì,
tremando senza però accennare a fuggire.
“Sempre
più strano”
riflette Sanderson, attendendo pazientemente una mossa
dell’incubo.
Ma poiché quello sembra molto combattuto su come muoversi,
decide di
farsi avanti lui e, lentamente per non spaventarlo più del
necessario, comanda alla sua nuvola dorata di andare incontro alla
creatura d’ombra. Incredibilmente quello rimane piantato al
suo
posto, come in attesa di essere raggiunto. “Che cosa
vuoi?” si
decide a indagare Sanderson, parlando direttamente
all’essenza
della creatura. L’incubo solleva repentinamente le orecchie e
lo
fissa sconvolto, abbassa prudentemente il capo e pensa intensamente a
ciò che desidera. “Aiuto” esclama
mentalmente, pregando di
essere compreso. In qualche modo sembra funzionare: Sanderson lo sta
ancora osservando, ma ora ha gli occhi spalancati e increduli.
“Aiuto, da me?” chiede, un po’ confuso e
parecchio frastornato.
L’incubo scuote il muso su e giù in una decisa
conferma e il
guardiano, fugacemente, si domanda se non sia il caso di prendersi un
periodo di vacanza, se quelli sono i sintomi del troppo lavoro.
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