Capitolo XX
ECCOCI!
L'EPILOGO CHE TANTO HA TARDATO AD ARRIVARE E' FINALMENTE QUI, USCITO
TUTTO DI GETTO, TUTTO O QUASI IN UN GIORNO.
CHI
MI CONOSCE SA QUANTA DIFFICOLTA' ABBIA NEL METTERE LA PAROLA FINE,
QUINDI HO ASSECONDATO L'ISPIRAZIONE ED ECCOMI QUI.
GRAZIE,
GRAZIE MILLE A TUTTI VOI!!
MARTINA
-------------------------
CAPITOLO
XX
ESSEX,
VERMONT
Non
c'era voluto molto per scoprire dove fosse Robert. Di certo era
strano pensare che il suo destino stesse per compiersi proprio in
quella piccola città, appena 20000 anime, con uno dei più bassi
indici di criminalità di tutto il paese. Non fosse per le massicce
escursioni termiche e l'aria gelida dal Canada, sarebbe stato un
posto perfetto per vivere, magari con una grande casa dalla porta
rossa ed un'immacolata staccionata bianca.
Davanti
ai suoi occhi si apriva il largo viale verso la villa: tre grandi
facciate bianche con tetti spioventi, ogni parete ornata da grandi
finestre blu. I quattro alti comignoli di mattoni si ergevano come
torri di un castello, atte a completare il già maestoso ingresso,
con le sue colonne greche ed il suo enorme portone blu.
Cara
riprese a camminare sul brecciolino, avvolta dal giallo-verde degli
aceri in fiore. Il profumo del giardino sovrastava ogni altro odore,
accompagnando i suoi passi nervosi al ritmo del canto degli uccelli.
Quando
fu finalmente davanti al portone, lo stesso le si aprì davanti senza
che nemmeno bussasse. Stupido pensare che non si fosse ancora accorto
della sua presenza. La domestica, rigida nella sua divisa inamidata,
accennò un sorriso muto e le fece cenno di entrare
“Prego
Signorina Phillis.”
La
stava aspettando ed il solo pensiero le fece schizzare il cuore in
gola. Quanto poteva essere arrabbiato? Abbastanza da spararle un
colpo in fronte appena voltato l'angolo? Suo malgrado sorpassò la
soglia, ostentando una sicurezza che davvero non le apparteneva.
Senza rispondere al saluto respirò l'aria fresca di quella casa,
pregna di odori forti e delicati, come se l'aroma di una cucina in
opera si fosse mischiato alle rose bianche e gialle sparse in grandi
vasi per la stanza.
L'enorme
salotto, con la sua perlinatura alle pareti ed i larghi tappeti
persiani, l'accoglieva a bocca aperta come le fauci di un leone
affamato.
“Desidera
qualcosa da bere Signorina?”
Cara
sussultò voltandosi verso la domestica. Scosse il capo
“No
grazie.”
L'altra
annuì avviandosi verso le cucine
“Robert
è qui?”
Le
uscì di bocca contro la propria volontà, come se la sua paura fosse
in grado di parlare da sola. Perché tanto spavento poi? La morte era
sempre stata un'opzione negli ultimi anni della sua vita e come tale
l'aveva sempre vissuta, senza temerla. Non aveva nulla da perdere
dopo tutto. Perché mai adesso la sola idea di farla finita le faceva
tremare le ginocchia? Trattenne un lungo sorso d'aria. Maledetto
Joseph Michaelson. Era tutta colpa sua e delle sue stupide
stramaledette emozioni, della sua idea di un futuro e del suo
continuo parlare di libertà. Solo e solamente per colpa sua. Adesso
sul suo piatto c'era di nuovo qualcosa da perdere, qualcosa di grosso
oltretutto.
“Cara?”
La
voce avvolgente di Robert vibrò per la stanza, più dolce e stupita
di quanto avesse potuto aspettarsi. Bagnando le labbra e respirando a
fondo Cara voltò il capo oltre la spalla sinistra. Il più bianco e
lucente dei sorrisi si aprì sul volto del suo salvatore, una candida
mezzaluna in perfetto contrasto con la pelle liscia ed abbronzata.
Il
nodo che teneva strette le corde vocali di Cara si sciolse di colpo
restituendole la capacità di respirare. Le sue labbra risposero
involontariamente al gesto, immediatamente incantate dalla genuinità
di quell'espressione. Che le fosse mancato tanto fino a quel momento
era un mistero perfino per lei, l'uomo che le aveva restituito la
voglia di vivere, che le aveva donato uno scopo, che l'aveva resa
forte e sicura in cambio di nulla o poco più.
Le
braccia forti di Mancini la strinsero in un lungo abbraccio, il suo
profumo, intenso e muschiato, le riempì le narici come un caldo
ricordo d'infanzia. Solo quando si trovò finalmente di fronte quei
profondi occhi scuri ricordò il vero motivo che l'aveva portata fin
lì e quella meravigliosa sensazione di calore scivolò giù fino a
schiantarsi sul gelido pavimento.
Cara
fece un passo indietro, di nuovo a corto d'aria
“Mi
dispiace.”
Le
parole graffiarono contro il palato asciutto, ma l'altro parve non
scomporsi. Il sopracciglio di Robert si sollevò confuso per un
istante
“E
di cosa? Ti stavo aspettando.”
Ancora
una volta Cara mimò la stessa espressione, chiaramente spiazzata da
quella reazione. Si schiarì la gola
“Ho
agito alle tue spalle.”
Già
rimpiangeva le forti braccia paterne che non avrebbe più sentito
addosso. Robert scoppiò in una genuina risata, la stessa di sempre,
quasi avesse detto la più assurda stupidaggine.
“Vieni
con me.”
Le
porse la mano, ma Cara non riuscì ad afferrarla, muovendosi alle sue
spalle verso una meta che non conosceva.
Un'altra
sala, più piccola e profumata di menta e tabacco, li accolse mentre
un gran sole filtrava tra le tapparelle. Robert tirò fuori una
bottiglia di champagne bordata d'oro e, sottolineando il gesto con un
colpo di sopracciglia, fece saltare il tappo. Un fiotto di schiuma
bianca si versò sul parquet lucido, ma nessuno dei due parve
badarci. Due flutes vennero immediatamente riempite e Cara si trovò
di fronte agli occhi il luccichio delle bollicine e delle iridi di
Mancini
“Ce
l'hai fatta figlia mia!”
Di
nuovo il caldo l'avvolse da dentro mentre la mano continuava a
tremare. Circondata da orgoglio e soddisfazione non riusciva a gioire
nemmeno per un secondo, convinta che quella felicità non le
spettasse. La morte di William non le aveva restituito sua madre,
tanto meno lunghe notti di sonno profondo e nuova stima per sé
stessa.
“Bevi.”
A
metà tra ordine ed invito, Cara mandò giù il fresco pizzicorìo
dello champagne e per un secondo non pensò al vuoto che le si
agitava dentro.
“Ma
ti ho tradito...”
Lui
sorrise di nuovo vuotando il bicchiere
“Credi
davvero che mi importi?”
Altro
liquido ambrato si versò nel suo calice
“William
Michaelson è morto Cara. La nostra vendetta è compiuta.”
Immediatamente
lei scosse la testa
“Non
l'ho ucciso io...”
Le
voce le si spezzò in bocca
“...Ho
fallito.”
Il
pollice bollente di Robert la costrinse a sollevare il volto
“Tu
l'hai reso possibile figlia mia. Non avrai premuto il tuo grilletto,
ma non di meno l'hai ucciso...”
Le
sue grandi mani le strinsero il viso scaldandola all'istante
“...Hai
ucciso William Michaelson e diviso i suoi figli. Non potrei essere
più fiero di ciò che sei diventata.”
Ogni
sua parola suonava strana, nondimeno il suo petto divenne più
leggero e per un attimo riuscì a credere che fosse vero, che la sua
missione fosse davvero compiuta e che il suo dolore sarebbe sparito
per sempre.
L'accenno
di un sorriso le si aprì in viso, ricambiato in pieno dall'orgoglio
di lui
“Seguimi,
ho qualcosa per te.”
Di
nuovo le parve di fluttuare da una stanza all'altra, mossa solo dalla
forza che quell'uomo emanava da ogni singolo poro. Manny venne fuori
dall'oscurità con la sua valigetta in mano. Aprendola sulla
scrivania tirò su le maniche, ogni suo tatuaggio ben in vista sugli
avambracci. Un cobra reale avvolto attorno ad un fucile, puntato
contro una donna che sorrideva all'ombra di una luna rossa. Lo
sguardo di Cara si fermò lì, sulle bottigliette che andava
spandendo sopra il mogano del vecchio mobile. Solo allora realizzò
che il tatuatore dei merli era lì di fronte a lei, pronto a fare il
suo dovere. Rivolse gli occhi a Robert con un balzo, lui sollevò le
spalle
“La
prima volta che ti ho visto ho saputo all'istante cosa saresti
diventata. Quelle fiamme che ti ardevano dentro, sapevo esattamente
dove ti avrebbero portato...”
Si
appoggiò al tavolo e levò le mani a mezz'aria
“...Tutto
ciò che ho, tutto quello che ho guadagnato, ogni mattone ed ogni
uomo... E' tuo.”
Cara
schiuse le labbra genuinamente sconvolta, lui le si fece di nuovo
vicino
“Sei
la figlia che non ho mai avuto Cara Phillis...”
Indicò
Manny con l'indice destro senza distogliere lo sguardo da lei
“...Da
oggi non solo avrai il mio marchio, ma anche il mio nome.”
Lunghe
rughe comparvero sulla fronte di lei, totalmente spiazzata da
quell'offerta. Stava finalmente accadendo, il suo sogno, la sua meta,
la preziosa approvazione che tanto aveva cercato erano lì, nelle
mani di un artista sociopatico coi capelli unti.
Manny
azionò l'ago e la vibrazione la riportò in vita
“Dove
lo vuoi?”
Domandò
lui con la più piatta naturalezza ed il vuoto le si aprì di nuovo
in mente. Sulla schiena? La mano? Magari lo spalla? O forse il petto?
Un tempo sarebbe stato così semplice scegliere eppure in quel
momento nessun posto sembrava adatto. Scosse leggermente la testa in
cerca di una soluzione, ma la nebbia non si dissipò.
“Io..
Io...”
Manny
interruppe il suo attacco di balbuzie con un suggerimento
“Nel
dubbio la schiena è sempre il posto migliore. A meno che tu non
voglia guardarlo ogni giorno alla specchio.”
Nella
sua voce un velo d'impazienza. Cara ripensò al finto tatuaggio che
mesi prima campeggiava sotto la sua scapola e meditò di renderlo
permanente, ma nemmeno quella soluzione riuscì a soddisfarla. Robert
raccolse allora la sua visibile confusione e di nuovo le fu vicino,
scrutando il suo viso alla ricerca di qualsiasi fantasma la stesse
tormentando
“Stai
bene?”
Cara
mandò giù. No, non stava bene. Quante volta aveva sognato quel
preciso momento? Ora era lì, vero e reale, ma non riusciva a
viverlo. Mezz'ora o poco più ed un po' d'inchiostro sotto pelle
l'avrebbe resa “figlia” di Robert Mancini, sua per sempre.
“Dov'è
finito il tuo tatuaggio?...Il marchio di Mancini.”
“Non
ce l'ho ok?!”
“Non
sei una di loro.”
“Sono
comunque una di loro.”
“Non
capisci? Tu non gli appartieni... Non sei sua... Sei libera...”
La voce
di Joseph, benché non invitata, riecheggiò nelle sue orecchie.
“...Puoi
avere una vita tua lontana da tutto questo. Con o senza di me.”
Il
muro che così velocemente si era costruita attorno iniziò a
scricchiolare.
“...Se
torni da lui non cambierà nulla, non avrai nessun futuro.”
Ed
invece il suo futuro era lì, offerto su un piatto d'argento, più
splendente che mai. Non avrebbe più sofferto il freddo, mai più
avvolta nelle coperte mediocri di uno squallido motel, mai più
nascosta in un angolo ad aspettare di premere un grilletto. Robert le
stava offrendo soldi e potere, rispetto e prestigio, lusso e
stabilità. Già, ma a che prezzo? Non sarebbe più stata Cara
Phillis, non più la figlia di Bill, non più la ragazzina
dell'aereo. Voleva davvero smettere di essere la donna paranoica ed
instabile a cui avevano ucciso la famiglia? Voleva davvero rinunciare
ai ricordi di un'infanzia perfetta ed a quel fondo d'insicurezza che
da sempre la faceva arrossire in pubblico?
Il
viso inquieto di Robert era ancora lì di fronte a lei, solcato
solamente dall'ombra di un sorriso. Lui le afferrò la mano e Cara
tornò finalmente alla realtà, accennando appena un sì con la
testa. Voltandole la mano, ora col palmo rivolto al soffitto, Mancini
passò delicatamente il pollice sul suo polso, lì dove esili vene
violacee s'intersecavano a creare un motivo sottile ed intricato
“Se
posso darti un suggerimento, vorrei che lo avessi qui...”
Incontrò
i suoi occhi blu
“...Qui
dove batte il tuo cuore.”
Cara
tornò a fissare quel polso pallido, così fragile nell'abbraccio di
quella mano calda. Quello stesso calore, così accogliente, la cullò
nell'idea di accettare l'offerta. In quella grande casa non avrebbe
mai temuto giudizi, mai più spaventata dall'idea continua di
sbagliare, di tentare e fallire, di provare ad amare per poi scoprire
di non esserne più capace. Quel calore, così diverso e allo stesso
tempo così simile, la riportò per un secondo tra le braccia di
Joseph, nella perfezione del silenzio. Cosa gli avrebbe detto, una
volta sveglio, se non se ne fosse andata? Con quali parole avrebbe
esordito? E dove sarebbero andati da lì?
Non
ne aveva idea.
Sapeva
invece benissimo che con quella M impressa sulla pelle avrebbe
comandato gli eserciti di Mancini, facendo ciò in cui sapeva di
essere davvero brava. Diventare di ghiaccio.
Ancora
una volta annuì inconsapevolmente e Robert la guidò fino alla
postazione di Manny, abbastanza rispettoso da trattenere lo sbuffo di
noia che celava per tutte quelle smancerie.
Il
dorso della sua mano si posò sul freddo del panno sterile e lei
rimase a guardarla, quasi non fosse sua. Mentre Manny armeggiava e
l'altro assisteva, la mente di Cara continuò a vagare per quelle
semplici fantasie. Se gli occhi di Joseph si fossero aperti per
primi, se al suo risveglio l'avesse trovato già desto, cosa
avrebbero detto le sue splendide labbra? E sei lei fosse rimasta,
senza dire assolutamente nulla, sarebbe bastato accarezzargli il viso
e sorridere? E una volta fuori dalla porta, sarebbe stata capace di
stringerli la mano e seguirlo per le vie della città? Ridere alle
sue battute? Dividere un panino? Scendere a compromessi?
Ancora
una volta la pistola di Manny prese a vibrare e Cara sussultò
“Cerca
di stare ferma, non ci vorrà molto.”
Lei
deglutì, ma quell'ago era così vicino, così spaventosamente
vicino.
Portami
via.
Sentì
la sua stessa voce nella testa come se non le appartenesse
Portami
via da qui. Da tutto quanto.
I
grandi occhi blu di Cara si spalancarono. Ecco cosa avrebbe detto. Se
fosse rimasta tra quelle lenzuola, non appena le palpebre di Joseph
si fossero sollevate, l'avrebbe guardato dritto in faccia e
gliel'avrebbe chiesto.
Portami
via.
Appena
un secondo prima che l'ago la sfiorasse Cara ritirò di fretta la
mano
“Io
non lo voglio.”
Le
uscì dalla bocca senza controllo. Gli occhi ancora spiritati,
stavolta di terrore, ma il petto sorprendentemente più leggero.
“Cosa?”
Robert
cercò il suo sguardo, ora confuso per davvero. Cara cercò di
respirare facendo un passo indietro e solo dopo aver raggiunto quella
debita distanza, scosse la testa
“Non
lo voglio.”
Ripeté,
a lui e a sé stessa, consapevole di aver messo di nuovo la sua vita
nelle mani dell'uomo che gliel'aveva salvata. Con le iridi velate di
pianto decise allora di confessare
“Io
ti voglio bene. Davvero ti voglio bene... E ti sono grata,
immensamente grata per quello che hai fatto per me...”
Riprese
fiato mentre lui, ancora immobile, assorbiva quelle parole in sommo
silenzio
“...Tu
mi hai salvata. Mi hai resa forte. Mi hai insegnato tutto quello che
so ed io...”
La
voce si spezzò, ma impose a sé stessa di non piangere
“...Io
vorrei davvero, davvero volere questo...”
Indicò
sgraziatamente Manny, anche lui imbalsamato nell'inverosimiglianza di
quella scena
“...Ma
non è così.”
Cara
cadde sulle ginocchia. Se quella era una vera confessione, una che
prima non aveva fatto nemmeno a sé stessa, allora meritava una
preghiera e una penitenza. Penitenza che non avrebbe tardato ad
arrivare.
Robert
inspirò col naso
“Lasciaci
Manny.”
Ordinò
e, solo dopo aver sentito la porta sbattere, rivolse lo sguardo alla
testa chinata di Cara. Ma il colpo che lei attendeva non arrivò.
Mancini si abbassò al suo livello ed ancora una volta le sollevò il
viso, la sua espressione ferma, nessun accenno di rabbia o
compassione
“Sei
sicura?”
Lei
cercò invano nel vuoto della sua mente
“Da
qui non si torna più indietro.”
Quella
frase le strinse il petto, convinta più che mai che la via di non
ritorno fosse la morte. Nondimeno annuì.
“E
cos'è che vuoi?”
Domandò
lui, costringendola a smascherare anche l'ultimo fantasma
“Voglio
una vita. Una vita reale... Voglio viaggiare, incontrare persone,
entrare in una stanza ed uscirne senza che nessuno venga ucciso...”
Posseduta
dal demonio dell'onestà, Cara trattenne le lacrime ancora una volta
“...Voglio
vivere.”
Le
uscì come un sussurro e la sua testa si abbassò di nuovo, priva di
ogni difesa. Di rimbalzo Robert si alzò, restando a guardarla per
qualche istante
“Pensi
che ti ucciderò?”
Ingoiando
le lacrime che non aveva pianto, Cara gli rivolse lo sguardo, gli
occhi arrossati pur non avendo pianto
“Me
lo merito.”
Ed
il suo viso si ammorbidì, in un'espressione che lei non aveva mai
visto, che non sapeva decifrare. Ancora una volta Mancini si abbassò,
stavolta per afferrarle le spalle e sollevarla, i loro occhi portati
allo stesso livello, la testa scossa appena
“Credi
che ti abbia salvata solo per avere un soldato in più?”
Lei
non rispose
“Posso
avere tutti i pazzi che voglio al mio servizio, pronti a dar fuoco ad
un condominio per cento dollari o poco più...”
Le
strinse il viso tra le mani ancora una volta
“...Tu
sei diversa Cara Phillis...”
Accompagnò
la voce con il volto
“...Non
ho mai pensato né sperato che saresti stata solo un muto soldato al
mio servizio. Ho sempre saputo che un giorno avresti spiegato le tue
ali...”
Poggiò
la fronte scura alla sua, in uno smaliziato gesto d'affetto del tutto
inatteso
“...Non
è certo questo che mi aspettavo, ma se è una vita normale quello
che vuoi, allora sarà quello che avrai.”
A
corto di respiro Cara si perse nel nero delle sue pupille
“Da..
Davvero?”
Robert
sfoderò uno dei suoi magici sorrisi e di nuovo la incantò, così
come nell'attimo del loro primo incontro. Aveva perso un padre, ma un
altro ne aveva trovato. Quell'uomo, che tutti conoscevano come un
mostro, per lei e solo per lei aveva sciolto le nevi perenni.
Quell'uomo,
ancora una volta, la riportò in vita.
SEI
MESI DOPO
“Sei
davvero sicuro?”
Elia
era seduto sulla poltrona del suo studio, la schiena dritta ed i
gomiti posati sul duro legno della scrivania. Coi polsini della
camicia piegati fino ai gomiti continuava a strusciare il foglio tra
le dita, la carta liscia e pesante contro i suoi polpastrelli. Aveva
letto e riletto quel documento fino allo stremo, senza ancora
convincersi che lasciarlo firmare a suo fratello fosse la cosa più
giusta da fare. La famiglia prima di tutto. Di certo non avrebbe
voluto lasciar andare un altro pezzo della sua.
“Sono
più che sicuro fratello.”
Joseph
era in piedi davanti a lui, le spalle rilassate ed il respiro lento.
Da mesi ormai riusciva a dormire serenamente e gli si leggeva in
faccia, tra il colore roseo delle guance ed il luccichio dei suoi
occhi. Era rimasto a New Orleans tutto quel tempo per il bene della
sua famiglia, per sistemare gli affari, aiutare Elia a ristabilire
l'ordine, assicurarsi che tutto fosse a posto. Ora il suo compito era
concluso,
“Ma
non devi farlo per forza.”
Insistette
Elia. Lui scosse la testa
“Non
si tratta di dovere. Voglio farlo...”
E
finalmente afferrò la penna che ormai da lunghi minuti richiamava la
sua attenzione. L'altro gli porse lentamente il foglio e Joseph poté
finalmente poggiare il palmo sulla sua liberazione. Con quel
documento rinunciava all'eredità di William, ogni mattone ed ogni
centesimo che quel bastardo aveva accumulato in una vita di sangue e
tirannia. Non voleva nulla da lui, nulla più.
“...Ho
una casa ed abbastanza soldi da poter vivere una vita più che
agiata. Non mi serve altro...”
Cercando
per l'ultima volta di rassicurare Elia, appose la sua firma con
tratto marcato e deciso. Il suo cuore, finora pensante come una
roccia, divenne di piuma.
“...E
così avrai più soldi da lasciare ai tuoi futuri eredi. Fammi solo
un favore...”
Gli
restituì quel prezioso pezzo di carta sollevando il sopracciglio
“...Non
chiamarli William.”
In
quel momento Nate varcò la soglia, solare come non mai nel suo
golfino verde smeraldo
“E
perché mai dovrebbe quando ha a disposizione scelte ben più di
classe. Nathaniel per esempio.”
Katrina
lo seguì nella stanza trascinando con sé una nuvola di profumo
floreale
“Ed
ecco perché spero che avremo solo femmine.”
Joseph
sorrise, un gesto divenuto così semplice ultimamente. Il lungo
viaggio iniziato in quella grande casa era giunto al termine, una
strada del tutto nuova gli si apriva davanti.
Tese
la mano verso il fratello maggiore
“Non
sarò suo figlio, ma sono ancora tuo fratello. E lo sarò sempre.
Qualsiasi cosa succeda, se hai bisogno di me ti basterà chiamare. Ci
sarò.”
Elia
la strinse forte e presto trasformò quella stretta di mano in un
abbraccio. Il sorriso sincero di suo fratello valeva ogni centimetro
d'inferno.
----------
Fissando
il marmo bianco Joseph sorrise ancora. Il volto fiero e sereno di sua
madre lo fissava dalla lapide, quasi volesse sorridere anche lei.
Joseph passò i polpastrelli su quell'immagine e poggiò a terra le
rose gialle che aveva comprato lungo la strada, le sue preferite.
L'unico
rammarico della sua prossima partenza, il non poter più portar fiori
su quella tomba. Sperò che la vendetta valesse almeno un migliaio di
mazzi.
“So
che non puoi essere orgogliosa di me, non dopo tutto quello che ho
fatto...”
Il
pensiero bruciò, ma decise di ignorarlo
“...So
che non c'è nessun purgatorio o paradiso dove potremo rivederci, ma
adesso sono felice mamma.”
Sospirò
guardandola negli occhi
“Per
quel che resta della mia vita cercherò di farmi perdonare.”
Poggiò
il palmo sul freddo del marmo, sperando che in qualche sovrannaturale
maniera, ovunque fosse, potesse sentire il suo calore. Trattenne
l'urgenza di abbracciare quella fredda pietra
“Le
tue emozioni sono importanti. Le emozioni ti porteranno fuori da qui
un giorno.”
Ripetendo
le parole di sua madre a voce alta riuscì a sentire la sua carezza
in viso ancora una volta. Annuì alla foto sapendo allora di avere la
sua benedizione
“Manterrò
la promessa che ti ho fatto tanto tempo fa...”
“...Non
diventerò mai come lui...”
Per
l'ultima volta toccò quel viso incorniciato
“...Ti
prometto che la troverò.”
--------
OTTO
MESI e 12 GIORNI DOPO
Francia,
Parigi
Joseph
varcò la soglia del club di Pigalle, immediatamente avvolto in una
nuvola di alcool e sudore. Le ballerine saltellavano sul palco al
ritmo di una melodia che troppo sfacciatamente richiamava il famoso
can-can. Le piume bianche dei loro abiti riflettevano iridescenti
come polvere la luce dei riflettori, le gambe lanciate in aria con
grandi falcate per la gioia degli uomini in prima fila.
Una
cameriera in divisa tradizionale, degna di un film porno, tentò
d'intercettarlo, ma riuscì a sfuggirle facendosi strada tra la
folla. Orde di turisti ubriachi ballavano sgraziatamente sui tavoli,
quasi coprendo la musica coi loro passi e le loro fragorose risate.
Il pavimento appiccicoso di vomito e drink versati.
Joseph
scrutò la folla nella penombra. Troppi corpi e troppi odori
pungenti.
La
musica sguaiata gli feriva le orecchie. Scansò un ragazzo un po'
troppo entusiasta ed evitò d'incappare nel bicchiere di una donna
sbronza di mezz'età. Il liquido denso e rosso del suo bicchiere si
riversò a terra nella beata ignoranza di quel popolo festaiolo.
Riuscì ad avanzare ancora un po', ma senza trovare uno spazio
d'aria sufficiente.
Perché
proprio quel posto?
La
musica ripartì ancor più forte e stonata, facendogli desiderare
d'esser fuori il prima possibile. Scostando le mani invadenti di una
sconosciuta Joseph rivolse allora gli occhi al lato opposto, verso il
bar.
D'improvviso
si fece silenzio. Almeno per lui.
Eccola
lì, stretta in un abito rosso, troppo aderente perfino per i suoi
gusti. Cara se ne stava appoggiata col gomito al bancone, un
bicchiere mezzo pieno stretto nell'altra mano. Lo scemo che le stava
di fronte continuava a blaterare, probabilmente cercando di
conquistarla. Non che i suoi occhi da pesce lesso e la sua camicia
sgualcita avessero qualche speranza.
Cara
scoppiò a ridere lanciando la testa all'indietro. I suoi lunghi
capelli, ancora uguali, rimbalzarono a mezz'aria. Una risata finta,
falsa, totalmente diversa da quelle che solo lui aveva sentito.
Lo
sfigato pensò allora di potersi avvicinare, poggiando una mano
sudaticcia sul suo fianco.
Joseph
si trattenne a stento dal correre a fracassargli il cranio, restando
suo malgrado coi piedi piantati a terra, la visuale continuamente
interrotta dall'andirivieni di tutte quelle inutili comparse.
Lei
sapeva che era lì.
Ne
fu certo quando il sorriso di Cara si paralizzò, per un solo
secondo, uno appena. E se fosse stato più vicino avrebbe potuto
vedere la sua pelle d'oca, ogni pelo sollevato in allerta, ne era
sicuro.
Pur
senza aver mai rivolto lo sguardo dalla sua parte sentiva che era lì.
Considerò
allora di muoversi e raggiungerla, se non altro per togliere dalla
sua vista quell'inutile figlio di una cagna convinto di poterla
toccare.
L'ennesimo
turista gli si scagliò addosso, abbastanza ubriaco da non riuscire
più a calcolare le giuste distanze
“Excuse
moi, excuse moi.”
Ripeté
senza nemmeno guardarlo in faccia e Joseph lo scansò con una
semplice spinta, nemmeno troppo forte.
Quando
risollevò gli occhi lei non c'era più, come fosse stata magicamente
avvolta dall'ombra e dalla puzza. Il bicchiere abbandonato sul
bancone ed il suo stupido spasimante lasciato solo come il cane che
era.
Joseph
sorrise tra sé e sé senza nemmeno provare a seguirla tra la folla.
La
ragazzina non aveva perso il suo tocco.
---------
2
MESI e 26 GIORNI DOPO
Italia,
Firenze
Joseph
si fermò nel mezzo di quell'incrocio di vie, pronto ad attraversare
Ponte Vecchio ancora una volta. Anche se era completamente circondato
da sconosciuti non si sentiva troppo lontano da casa. In mezzo a quel
continuo vociare c'era infatti più inglese che italiano.
Nella
luce del tramonto guardò la cupola del Brunelleschi affacciarsi
all'altro lato e di nuovo si meravigliò di quanto fosse bella quella
città. Tutta quell'arte, tutto quel buon cibo, tutta la cultura che
trasudava da ogni chiesa ed ogni mattone. Era felice di esser giunto
fin lì.
Riportando
lo sguardo alla strada si rimise in cammino, deciso a setacciare ogni
via ed ogni piazza.
L'Arno
scorreva lento sotto i suoi piedi, coppie felici si scattavano foto
con quello splendido panorama alle spalle, un bimbo giapponese rideva
contento apprezzando il suo gelato. L'oro luccicava dalle vetrine
delle oreficerie ed un musicista di strada accordava la chitarra,
quasi pronto per lo spettacolo che di lì a poco avrebbe regalato ai
passanti.
Quando
finalmente sollevò gli occhi la trovò lì, all'altro capo del
ponte, ferma, sfiorata appena dal flusso continuo dei turisti.
L'abito bianco, le scarpe da tennis ed i capelli raccolti sulla testa
la facevano sembrare ancor più giovane di quanto non fosse,
bellissima come sempre.
Diversamente
da quanto era successo a Parigi, stavolta Cara non finse di non
vederlo, anzi, i suoi grandi occhi blu gli si piantarono addosso,
bloccando i suoi passi all'istante. Non che non volesse raggiungerla,
ma quel viso, quel viso perfetto, diceva in silenzio più di quanto
la bocca avesse mai potuto spiegare.
E
così rimase fermo a guardarla, loro due gli unici esseri immobili in
una città senza sonno.
Il
viso pulito e riposato di Cara gli raccontò la sua storia, di quanto
amasse quel posto, di quanti piatti di pasta avesse mangiato, di
quante giornate tranquille avesse già passato ad osservare gli
artisti di strada e a svaligiare i negozi di souvenir.
L'ombra
di un sorriso comparve su quel bel viso, così, solo per lui.
Era
felice di vederlo.
Felice,
ma non pronta.
Joseph
rimase fermo ancora una volta mentre lei spariva tra la folla.
10
MESI e 4 GIORNI DOPO
Cuba,
L'Avana
Era
stato difficile stavolta seguire le sue tracce. La ragazzina si era
fatta furba, ma lui aveva pazienza da vendere. Joseph sapeva in cuor
suo che Cara non voleva sfuggirli, ma voleva solo tempo. A cosa le
servisse, non ne era sicuro. Forse aveva bisogno di scrollarsi di
dosso tutti gli anni passati nell'ombra di Mancini e di suo padre,
forse voleva fare le sue esperienze, recuperare ciò che aveva perso
durante l'adolescenza. Forse voleva sfidarlo, sparire da sotto il suo
naso ancora ed ancora per scoprire dopo quanto si sarebbe stufato. Se
quello era il caso, non gliel'avrebbe data vinta.
Nella
povertà di quella via spoglia, lontano dalle luci del porto e dal
chiasso del centro, Joseph seguì il ritmo della musica fino alla
piazzetta, sul retro della Bodeguita del Corsario, dalle cui finestre
aperte proveniva a gran volume il ritmo incalzante delle chitarre e
delle percussioni. La voce di un uomo cantava in spagnolo la sua
ennesima disgrazia d'amore. Dall'alto della sua ignoranza
l'identificò come salsa.
Come
dentro al locale decine di coppie si strusciavano ancheggiando l'una
addosso all'altra, così nella piazzetta ballavano i più giovani,
cercando di sfiorarsi il più possibile sotto le stelle.
Tra
tutti quegli ormoni e quel sudore c'era lei, la sua pelle chiarissima
che luccicava alla luce della luna piena.
Ballava
Cara, ballava con gli occhi chiusi e le braccia spalancate, quasi
come ci fosse solo lei. Con addosso nulla più che un paio di shorts
e una maglietta, ballava scalza sulla terra sporca di quella
piazzetta.
Nessun
ragazzo le ballava vicino e, se qualcuno tentava un approccio, era
subito pronta a voltarsi e riprendere il ritmo un po' più in là.
Non
l'aveva mai vista così, mai così libera, mai così spensierata, mai
così indifesa.
Tanto
persa nella musica, stavolta non si accorse nemmeno che lui era lì.
E
Joseph tornò da dove era venuto.
Non
le avrebbe mai rovinato quel momento. In cuor suo sapeva bene che
dall'attimo stesso in cui fosse tornato nella sua vita, quel tipo di
serenità non sarebbe più stato possibile. Per quanto l'amasse, per
quanto potesse impegnarsi, non avrebbe mai saputo come dargliela.
-----------
1
ANNO, 1 MESE e 19 GIORNI DOPO
Inghilterra,
Londra
Il
cielo sulla sua città è grigio e le nuvole promettono pioggia come
al solito. I giardini di Kensington sono più deserti del solito,
probabilmente perché nemmeno i turisti sono interessati a bagnarsi.
Ma
a lui non importa.
Riesce
già a vederla in lontananza e stavolta è deciso a non lasciarla
scappare. Troppo tempo è già passato.
Cara
è stretta in un cappotto grigio da cui spuntano dei lucidi stivali
neri. Indossa un cappello a falda larga di un rosso denso e scuro,
che la fa sembrare più adulta di quanto non sia potuta diventare in
un solo anno. I suoi capelli, più corti ma dello stesso biondo di
sempre, tentano di resistere al vento.
La
raggiunge alle spalle senza dire nulla, già pronto a vederla correre
via.
Ma
lei non si muove, resta lì immobile, intenta a fissare la statua di
bronzo di cui tanto ha sentito parlare.
“Ho
girovagato in questo stupido parco per ore cercando questa statua...”
Il
suono della sua voce sembra cosi diverso
“...E
guarda, nemmeno assomiglia a Peter Pan.”
Conclude
con tangibile sdegno. Joseph sorride, ma nessuno dei due si muove
ancora.
Lei
solleva le spalle
“Ci
hai messo parecchio.”
Ovviamente
lo stava aspettando, certa che non appena si fosse fermata lui
sarebbe comparso.
“Scusami
ragazzina, sono stato un po' impegnato.”
Quel
nomignolo, uscito così naturale dalla bocca di Joseph, le accende le
guance e per un momento, nonostante l'inverno, smette di fare freddo.
Dio,
quanto le è mancato.
“Tu
sei nato qui vero?”
“Nato
e cresciuto, almeno per un po'.”
Cara
inspira a pieni polmoni. Non ha paura. Non più. L'unico timore è
che le gambe non la reggano nel momento in cui i loro occhi si
incontreranno di nuovo.
“Bene...”
Rilassa
le spalle
“...Allora
spero che potrai mostrarmi qualcosa di un po' più interessante di
questa stupida statua...”
E
finalmente si volta verso di lui
“...Ti
va?”
Il
suo viso è sereno, ma i suoi occhi tremano, quasi possa davvero
temere un suo rifiuto.
Joseph
si perde tra quei tratti per tutto il tempo necessario a riprendere
fiato, improvvisamente consapevole di quanto tempo abbiano lasciato
passare.
Troppo.
La
mano di Cara si tende lenta ed incerta verso di lui, i loro occhi si
incontrano ed il mondo si ferma.
Ogni
lotta, ogni morte, ogni schiaffo ed ogni ferita è stata per questo.
Solo per questo.
Quella
piccola mano fredda si perde nella sua mentre la pioggia inizia a
cadere.
Joseph
la stringe, la stringe forte.
“Che
dici se inizio mostrandoti la mia stanza d'albergo?”
Cara
ride, pura e cristallina, solo per lui.
Ed
è il suono più bello che Joseph Michaelson abbia mai sentito.
FINE
|