La
musica le rimbombava violentemente sui timpani, imponendole un ritmo
frenetico al corpo. Percepiva il sangue ribollire nelle vene, carico di
ormoni, mentre lo stomaco bruciava per l’alcool che
continuava ad ingurgitare, creandole davanti agli occhi un vortice
pieno di colori, odori e rumori.
Hanabi
sentiva la testa meravigliosamente vuota. Era come se il suo cervello
si fosse preso una vacanza, lasciando tutto in mano al suo istinto,
guidato dall’alcool e dalle continue incitazioni di Kabera,
che la spingevano a buttarsi in mezzo alla folla del locale con sempre
più convinzione.
Era
stata un’idea dell’Anbu bionda quella rimpatriata
con la divisione Rho, la sera prima della sua nuova vita come Sensei.
La cena era stata molto piacevole, ma quando l’alcool aveva
abbassato a sufficienza il loro raziocino, finire invischiati in quella
baraonda, in uno dei nuovi locali aperti nella periferia di Konoha, era
stato un attimo. Era strano per loro comportarsi normalmente per una
sera, apparire come persone qualsiasi, ma era il miglior modo per dire
addio a colei che li aveva guidati ed addestrati negli ultimi tre anni.
Ma
per quanto tentassero di controllarsi, fu per loro impossibile tenere a
bada Hanabi. La giovane Hyuga bevve fino a star male, limonò
con due ragazzi diversi e tentò di farlo anche con Kabera;
litigò furiosamente con un gruppetto di giovani ninja della
Nuvola in visita a Konoha e sulla strada del ritorno, appoggiata di
peso sulla spalla della coinquilina, vomitò per cinque
minuti ininterrotti. Quando infine si buttò a letto cadde in
un sonno profondissimo, puzzolente di vomito, alcool e sudore.
La
mattina dopo il risveglio fu un trauma. La sveglia suonò fin
troppo presto, facendola gemere di dolore. Aveva un mal di testa
orrendo, la bocca impastata e quando tentò di aprire gli
occhi il mondo prese a girarle attorno, facendole montare la nausea.
“Ben
svegliata, Sensei.” cinguettò Kabera.
“Dovreste sbrigarvi, siete in ritardo per il vostro nuovo
lavoro.”
“Si
fottano quei marmocchi.” gemette la kunoichi, percependo la
nausea salire sempre di più. Era come se qualcuno le
strizzasse le budella dal basso, spingendo affinché le
uscissero dalla bocca.
“Ti
prego…” rantolò, trattenendo a stento
un conato acido. “Dimmi che hai qualcosa per farmi stare in
piedi.”
Mmm…”
la kunoichi bionda si dondolò sui talloni, apparentemente
pensierosa. “Ma se lo facessi, poi lei non imparerebbe nulla
da quello che è accaduto. Non le sembra ingiusto?”
“Kabera…
se non vuoi che ti riempia di vomito la casa, prepara uno stramaledetto
intruglio che mi faccia sparire la nausea!”
ringhiò a denti stretti la mora, nel tentativo di evitare di
riempire il letto di acida bile.
Dieci
minuti dopo, Kabera tornò con una tazza ricolma di una
brodaglia verdastra, il cui odore ricordava il finocchio lesso. Hanabi
la ingurgitò a grandi sorsate, insensibile alle vesciche che
la bevanda bollente gli causò in gola. Rimase stupita nel
sentire la nausea scomparire quasi subito, mentre il mal di testa si
attenuava fortemente, permettendole di alzarsi con le proprie gambe.
“Purtroppo
non ho potuto far bollire quanto volevo le foglie di valeriana, e
inoltre…”
“Non
ho intenzione di sapere cosa di preciso ho appena bevuto.”
borbottò la Hyuga, chiudendosi in bagno. “Grazie
mille, ma preferisco rimanere nella mia sacra ignoranza.”
Mezzora
dopo, lavata e vestita, Hanabi si accingeva a compiere il primo passo
della sua nuova vita. Il fatto che fosse in un ritardo mostruoso le era
indifferente, così come che si fosse rifiutata di vestirsi
come un normale Jonin. Benché non appartenesse formalmente
più agli Anbu, lei continuava a sentirsi una di loro.
“Pronta?”
Kabera fece capolino dalla porta della stanza, le iridi cerulee che
fissavano con allegria la figura della Hyuga, così diversa
dal solito.
Hanabi
si legò il copri fronte di Konoha sul braccio sinistro con
un nodo stretto, coprendo così il tatuaggio degli Anbu,
odiandosi per quello che stava facendo.
“Per
niente.”
Mirai
Sarutobi non sapeva di preciso come sentirsi. Da quando le avevano
comunicato che aveva superato gli esami finali
dell’Accademia, rendendola a tutti gli effetti un ninja di
Konoha, le era sembrato di vivere in un limbo, lontana dalla
quotidianità che aveva scandito la sua vita negli ultimi
anni.
La
prima emozione che sentiva era sicuramente l’eccitazione. Da
quando aveva ricevuto il proprio copri fonte due giorni prima non era
più riuscita a prendere sonno. Continuava a pensare a chi
sarebbe stato il suo Sensei, quali prodigiose tecniche le avrebbe
insegnato e se sarebbe stata capace di portare a termine le missioni
che le avrebbero assegnato d’ora in avanti. Quando rifletteva
su questi argomenti, il più delle volte sopraggiungeva la
paura, che le strizzava le viscere, bloccandole il respiro. Nonostante
le rassicurazioni di sua madre, che continuava a ripeterle che sarebbe
stato qualcosa di tranquillo e normale, Mirai continuava ad essere
nervosa. D’ora in avanti sarebbe stata sotto la supervisione
di un Sensei sconosciuto, diverso da tutti quelli che aveva imparato a
conoscere, e a prendere in giro, durante i suoi anni
all’Accademia. Una figura che avrebbe cambiato,
inevitabilmente, la sua vita.
A
volte provava ad immaginarselo, seppure con scarso successo. A parte
sua mamma, erano pochi i ninja adulti che conosceva. C’erano
suo zio Shikamaru e sua moglie Temari, così come gli zii
Kiba e Shino, ma erano tutti così eccentrici che faticava ad
immaginarsi qualcuno di anche solo vagamente simile a loro. Ovviamente
anche i suoi vecchi maestri dell’Accademia erano dei ninja,
ma erano sempre apparsi così tranquilli e pazienti che
veniva difficile immaginarseli nelle vesti di pericolosi e letali
guerrieri. Se si concentrava, le veniva in mente solo una figura scura,
altissima, con il volto coperto, dagli occhi fiammeggianti. Era una
fantasia sciocca, lo sapeva, ma la giovane Sarutobi pensava che sarebbe
stato veramente figo apprendere le tecniche ninja più letali
da un simile figuro.
La
sera prima di conoscere il suo nuovo Sensei vennero a trovarla i suoi
zii Kiba e Shino, i quali le portarono dei regali per festeggiare la
sua promozione a Genin. Kiba le regalò un paio di
mezziguanti in pelle, perfetti per avere una presa salda durante un
combattimento. Shino aveva invece optato per una borsa da ninja nera,
ricolma di rotoli di filo d’acciaio, file di shuriken lucenti
e bombe fumogene, oltre ad una discreta quantità di carte
bombe.
“Un
vero ninja deve sempre essere provvisto di simili strumenti. Non sai
mai cosa potrebbe accaderti.” dichiarò
l’Aburame mentre le consegnava il tutto.
“Sono
bellissimi!” esclamò la mora, abbracciando di
scatto i propri zii adottivi, il tutto sotto lo sguardo divertito di
Kurenai. “Grazie mille, zii!”
Nonostante
fosse cresciuta senza il padre, morto prima che nascesse, Mirai non
aveva sofferto l’assenza di figure maschili durante la sua
infanzia. Una volta alla settimana si fermava a dormire dal suo padrino
Shikamaru, che lei amava chiamare zio Shika, mentre Kiba e Shino, suo
zii adottivi ed ex allievi di sua madre, l’andavano a trovare
minimo due volte a settimana, se non di più, riempiendola di
regali, e spesso aiutandola con i suoi esercizi. L’Inuzuka si
era proposto anche di addestrarla, ma la ragazzina aveva preferito
allenarsi con Temari-san. C’era qualcosa che
l’attirava in quel miscuglio di autorità e
sarcasmo che era la moglie del suo padrino. Nonostante fosse
estremamente severa e rigida con lei, aveva imparato molto negli ultimi
due anni dalla kunoichi di Suna, tra cui l’utilizzo della
Futon, nella quale Temari non aveva eguali.
Nonostante
questo, Mirai era profondamente legata alla figura del padre. Con il
passare degli anni, tramite i racconti di sua madre e di Shikamaru, la
piccola Sarutobi aveva iniziato a mitizzarlo, prendendolo come esempio
del ninja perfetto. Il suo sogno era di diventare esattamente come lui:
un grande ninja, rispettato da tutti, degno erede del Terzo Hokage. Per
questo aveva pregato Shikamaru di allenarla all’uso delle
lame di chackra, segno distintivo del genitore defunto, ma il Nara non
aveva voluto sentire ragioni in merito.
“Quando
sarai diventata Chuunin potremo riparlarne, non prima.” Mirai
aveva tentato di insistere, chiedendo aiuto anche a Temari-san, ma
sull’argomento lo shinobi delle ombre era rimasto
irremovibile, resistendo perfino innanzi al cipiglio incazzato della
moglie.
Così,
la giovane Sarutobi si era limitata ad omaggiare il padre tutte le
volte che usciva di casa, oltre a andare a trovarlo una volta alla
settimana al cimitero. Tuttavia, ora che era Genin, sentiva di aver
compiuto un passo fondamentale per avvicinarsi al suo obbiettivo, quasi
potesse avvicinarsi a quella figura che non aveva mai potuto conoscere.
Il
giorno dopo il nervosismo ritornò a farsi vivo, chiudendole
lo stomaco. La sera prima Kiba e Shino avevano fatto
l’impossibile per tranquillizzarla in merito alla faccenda
del nuovo Sensei e perfino Akamaru aveva dato fondo a tutto il proprio
repertorio di tenerezza per farla sorridere. Eppure, ora che era sul
punto di conoscere colui, o colei, che l’avrebbe avvicinata
al suo obbiettivo, sentiva lo stomaco contrarsi, e la paura strisciare
infida dentro di lei.
“Dovresti
mangiare qualcosa.” osservò sua madre, notando con
occhio critico il piatto intonso lasciato dalla figlia. “Oggi
sarà una giornata impegnativa, avrai bisogno di
energie.”
Mirai
si limitò a scuotere la testa, i corti capelli scuri che si
aggrovigliavano ulteriormente. Erano anni che Kurenai tentava di
regolare i capelli della figlia con il pettine, ma alla fine aveva
dovuto cedere, accettando il fatto che non sarebbero mai diventati
lisci ed ordinati come i suoi.
“D’accordo,
niente colazione.” sospirò la Yuhi, togliendo il
piatto da sotto gli occhi della giovane Sarutobi. “Almeno
portati dietro qualcosa, in caso più tardi ti venga
fame.”
Mirai
annuì, desiderosa di uscire di casa. Sentiva che se fosse
rimasta ancora un minuto seduta senza muoversi, sarebbe impazzita.
Raccolse le proprie cose, si mise qualche merendina in tasca per
accontentare il genitore, salutò il padre con un rapido
inchino ed infine uscì, dirigendosi a passo rapido verso
l’Accademia, il cuore in gola per l’eccitazione.
Tra
un’ora conoscerò il mio nuovo Sensei… non
le era mai parsa così breve un’ora come in quel
momento.
Il
percorso abituale verso l’Accademia finì fin
troppo presto per i suoi gusti. Fu strano rivedersi con tutti i propri
compagni di classe, nella loro vecchia aula, per quella che sarebbe
stata l’ultima volta. Era probabile che il loro prossimo
incontro tutti insieme sarebbe stato agli esami dei Chuunin, sei mesi
dopo, rendendoli non più compagni ma rivali. Era una
mutazione terribile se ci si pensava un istante, ma Mirai non
poté rimuginare troppo sull’argomento. Non appena
mise piede in classe, un tornado di capelli dorati le si
parò di fronte, mentre due occhi celesti presero a fissarla
con disprezzo.
“Dunque
sei venuta!” borbottò la nuova arrivata a denti
stretti. Era una bella ragazzina, nel pieno del suo sviluppo, alta e
sinuosa, con le prime forme da donna che premevano da sotto la tunica
viola che indossava. Aveva lunghi capelli biondi che teneva legati in
una coda che le arrivava alle scapole, occhi di un azzurro chiarissimo,
ed un viso dai tratti delicati e pallidi, quasi fosse fatta di
porcellana.
“Sì,
sono venuta.” replicò con tono altrettanto astioso
Mirai. “Benché non provo alcuna gioia a dover
stare in squadra con te, Aimi.”
Aimi
Yogonuchi scosse la coda con fare altezzoso, squadrando
dall’alto verso il basso la sua nuova compagna di team. Il
disprezzo che l’una nutriva per l’altra era
palpabile nell’aria ed era chiaro che nessuna di loro aveva
la minima intenzione di sotterrare l’ascia da guerra che
insanguinava il loro rapporto da quattro anni a questa parte.
Premunendosi di urtare la rivale con una spallata, Mirai
andò verso il suo banco, sentendo lo stomaco ribollire di
rabbia all’idea di dover lavorare con quella smorfiosa per
chissà quanto tempo.
Mirai
ed Aimi erano rivali acerrime fin dal primo anno in Accademia, quando
erano soltanto due bambine. Aimi proveniva da una famiglia di ricchi
proprietari terrieri, i quali si erano trasferiti a Konoha dopo la
Grande Guerra. Questo rendeva la ragazza bionda altezzosa, arrogante ma
anche prepotente e battagliera, disposta a dimostrare al mondo la
propria superiorità. Benché fosse solo la prima
della famiglia che si cimentava negli studi per diventare un ninja,
Aimi era convinta di avere grande talento e di essere la migliore
kunoichi di tutta l’Accademia. Il contrasto con
l’irrequieta e vulcanica Mirai, sempre pronta a menare le
mani se necessario, era stato inevitabile, considerando anche come
Mirai, benché appartenesse ad un clan antico e potente come
quello dei Sarutobi, fosse cresciuta lontana dalla famiglia paterna, in
un modesto appartamento assieme alla madre, il cui clan era invece di
umili origini. Aimi la definiva con disprezzo una ‘nobile
impoverita’ ed una volta aveva pure deriso Asuma, definendolo
uno scemo a sposare una donna di umili origini, e dichiarando
malignamente che la morte era stata la giusta punizione per i suoi
errori. A quel punto, la Sarutobi non ci aveva visto più e
le era saltata semplicemente addosso, dando vita alla migliore rissa
che l’Accademia avesse mai visto dai tempi di Uzumaki Naruto
e Uchiha Sasuke. Il risultato finale era stato un pareggio, ma da
allora non era passato giorno che le due ragazzine non si fissassero in
cagnesco, promettendosi di chiudere definitivamente, in un futuro
prossimo, la questione rimasta in sospeso.
Il
pensiero di dover collaborare con colei che aveva offeso suo padre, il
ninja a cui si ispirava con tutta se stessa, era tremendo. Si chiese
per quale motivo i loro insegnanti avessero permesso una cosa simile,
dopo tutto quello che era accaduto durante il loro percorso in
Accademia.
Forse
vogliono farci fare pace… il
pensiero fu così stomachevole che storse la bocca in un
conato immaginario. Preferiva pulire il sedere per un anno di fila al
suo fratellino Shikadai, piuttosto che fare pace con quella smorfiosa.
La rabbia era così forte che le tornò fame,
costringendola a scartare la prima merendina, che finì in
modo poco signorile nella sua bocca in un sol boccone.
“Non
dovresti abbuffarti in questo modo di dolciumi.”
osservò una voce bassa e monotona alla sua sinistra.
“È un modo sicuro per avere qualche
carie.”
Ci
mancava solo lui! Mirai
sbuffò, impegnata ad inghiottire l’enorme pezzo di
cioccolata e pan di spagna. Il proprietario della voce, un ragazzino
minuto, infagottato in una giacca grigia, si limitò a
sistemarsi delle lenti scure sugli occhi, preferendo non fare ulteriori
commenti in merito alla dieta della compagna.
Shigeru
Aburame… la
Sarutobi si cacciò in bocca una seconda merendina, spostando
la propria rabbia dall’arrogante Aimi al silenzioso Shigeru,
il ragazzo intabarrato, il terzo elemento della sua squadra.
Shigeru
non era un ragazzo antipatico, ma come tutti gli Aburame possedeva una
personalità particolare. Poco disposto a dare confidenza,
Shigeru era stato per anni una figura inquietante della classe di
Mirai, preferendo dare la caccia agli insetti nella foresta piuttosto
che socializzare con i propri compagni. La Sarutobi aveva appreso da
suo zio Shino che il clan Aburame era diverso dagli altri, in quanto i
suoi membri erano amanti delle foreste, e tolleravano poco la
rumorosità del complesso urbano di Konoha. Tuttavia, il
maleducato silenzio di Shigeru era distante anni luce dalla gentilezza
e dall’amore che Shino riversava sulla nipote adottiva, la
quale era incapace di comprendere come due persone appartenenti allo
stesso clan potessero essere così diverse.
Aimi
Yogonuchi e Shigeru Aburame. Neanche
nei suoi peggiori incubi Mirai aveva pensato di fare team con i due
elementi peggiori della sua classe e l’idea di dover
collaborare con loro per superare l’esame dei Chuunin le
appariva come una chimera. Era più facile che vedesse suo
zio Shika uscire dall’ufficio in mutande, mentre cantava
serenate d’amore alla moglie.
Con
il sopraggiungere del primo Sensei, nell’aula venne un
silenzio di tomba, ognuno con il cuore in gola nel cercare di capire
chi sarebbe stato il proprio insegnante. Anche Mirai le prime volte
divenne nervosa, ma con il passare del tempo, quando una alla volta
tutte le squadre venivano assegnate, il nervosismo fece spazio
all’irritazione. Se il proprio Sensei era una persona
così ritardataria, non poteva essere niente di buono.
“Bella
roba!” borbottò Aimi, quando ormai erano rimasta
solo la loro squadra in un’aula deserta. “Un Sensei
insulso e una stracciona! Non poteva capitarmi sciagura
peggiore!”
Mirai
socchiuse gli occhi, cercando di contenersi. Non sarebbe stato il
massimo dare vita ad una rissa in quel preciso istante, tanto
più che sua madre era stata molto chiara
sull’argomento: se avesse di nuovo fatto a botte con
qualcuno, doveva aspettarsi come minimo una punizione di sei mesi.
“Del
resto, non c’è da sorprendersi.”
proseguì la kunoichi bionda, lanciando un’occhiata
malevola nei confronti della sua rivale. “Avranno voluto
assegnarci qualcuno che non facesse sfigurare la figlia di un
morto.”
Ora
basta! con
le orecchie fumanti di rabbia, Mirai si alzò, in procinto di
gonfiare di botte quell’arrogante figlia di papà,
quando la porta si aprì di colpo, bloccando sul nascere i
suoi propositi di omicidio violento.
La
figura che entrò era diversa da tutte quelle venuta fino a
quel momento, distante anni luce dalle fantasie degli ultimi giorni
della Sarutobi, la quale non seppe assolutamente cosa pensare.
La
donna che era appena entrata era bassa e minuta. Teneva lunghi capelli
neri raccolti in una coda che le arrivava fino a metà
schiena. Aveva un bel volto, seppure contratto in
un’espressione gelida, con due occhi di un colore
chiarissimo, quasi trasparenti, che mettevano i brividi solo a fissarli
per qualche secondo. Indossava degli stivali neri dalla suola rialzata,
pantaloni mimetici, mezziguanti scuri ed una maglietta bianca senza
maniche. Sul braccio sinistro, vicino alla spalla, brillava il simbolo
di Konoha.
Nel
silenzio dell’ambiente, la kunoichi raggiunse con passo
indolente la cattedra, fissando il foglio delle presenze dove mancava
solo la sua firma. Le sue labbra divennero una piega inespressiva
mentre firmava con rapidità, per poi piantare il proprio
sguardo di ghiaccio sui tre ragazzini che la fissavano nervosi, in
attesa che dicesse qualcosa.
“Seguitemi.”
ordinò con voce fredda, lasciando a passo svelto
l’aula, insinuando nei propri studenti un senso di vago
disagio. Nessuno di loro, neppure il freddo Shigeru poteva infatti
negare che, come primo incontro, era stato una delusione tremenda.
Hanabi
era di pessimo umore. Il fatto che il mal di testa avesse ricominciato
a rintronarle il cervello non l’aiutava a calarsi nel suo
nuovo ruolo. Ruolo che sentiva di detestare caldamente, fin dal primo
momento.
Alla
Hyuga era bastata un’occhiata per capire il carattere dei tre
elementi a cui avrebbe dovuto fare da balia da quel giorno in avanti.
Le due ragazzine erano arroganti e impulsive, gente che sarebbe morta
nella missione più semplice se non si fosse data una
calmata, mentre l’altro moccioso non sembrava nulla di che.
Il classico Aburame cupo e scontroso, deciso più che mai a
muoversi da solo piuttosto che fare squadra con le altre due galline.
Un comportamento che, sotto molti aspetti, Hanabi capiva e comprendeva.
Cosa
dovrei fare con questi pivelli? rimuginò,
una volta fermatasi sulle rive del fiume ad osservarli. Dannato
Kakashi!
“Dunque,
vediamo come potrei dirlo…” esordì,
incrociando le braccia. “Usare un termine banale come odio
non sarebbe capace di abbracciare appieno la mia attuale sfera emotiva.
Quindi ho deciso di inventare una nuova parola.” rivolse i
propri occhi verso i tre ragazzini, sfoderando l’espressione
più seria che possedeva. “Io vi
megaodio.”
Il
silenzio che seguì fu tremendamente imbarazzante.
“Dunque,
messe in chiaro come stanno le cose, passiamo alle
baggianate.” proseguì la kunoichi. “Il
mio nome è Hanabi Hyuga, e mi hanno assegnata come vostro
insegnante dato che, a quanto pare, voi sareste dei ninja
adesso…” prese a sorridere sarcasticamente.
“Tutte stronzate.”
“Voi
non siete ninja, siete bambocci che sanno appena sciorinare quel poco
di teoria sufficiente a rendere felici i professori
dell’Accademia. Ora come ora non riuscireste neanche a
compiere la missione più semplice, a meno che tale missione
non consista nel fallire la missione.”
Mirai
prese ad agitarsi sul posto. La sorpresa stava lasciando posto alla
delusione, mista però a rabbia. Come si permetteva quella
donnina striminzita di definirla una bamboccia? Fece per ribattere, ma
Hanabi era troppo smaliziata per farsi prendere in contropiede.
“So
quello che stai per dire: come si permette di definirci
bambocci?” la Hyuga tramutò il sorriso di
derisione in un ghigno mefistofelico, le iridi che brillavano di
malizia. “Vi darò la dimostrazione di
ciò domani. Voglio che vi presentiate all’alba al
campo di addestramento numero otto, con tutte le armi che possedete.
Sarà un piccolo test che ci consentirà di
conoscerci meglio.” la mora fece per andarsene quando
sembrò ricordarsi di una cosa. “Ah, quasi
dimenticavo. Vi è severamente proibito fare colazione prima
di venire al campo. E fidatevi se vi dico che lo saprò se
addenterete anche solo una briciola di pane.”
Se
ne andò a passo svelto, desiderosa solamente di mettersi a
letto per cercare di dimenticare il mal di testa che
l’affliggeva. Mentre si dirigeva verso casa, il suo sguardo
cadde sui nomi dei suoi tre allievi. Conosceva abbastanza bene il clan
Aburame, in quanto molti suoi membri erano elementi rinomati dentro gli
Anbu. Gli Yogonuchi le erano noti solo per sentito dire, dato che si
diceva fossero una delle famiglie più ricche di tutto il
villaggio, benché non annoverassero tra le loro fila ninja
degni di nota. Tuttavia, il suo pensiero rimase molto più a
lungo sul terzo nome della lista, un nome che aveva già
sentito e che si era legato alla sua vita in maniera molto
più intensa di quanto desiderasse ammettere.
Mirai
Sarutobi… quando
giunse a casa si accorse di non avere più male alla testa,
persa com’era nel rimembrare tutti i momenti piacevoli
passati con il suo ex fidanzato, riuscendo perfino a sbollire la
propria rabbia. Si chiese quale fottuto scherzo del destino avesse
deciso che toccasse a lei prendersi cura di sua cugina, e
perché la cosa le provocasse un simile rimescolamento di
emozioni dentro lo stomaco.
“Già
di ritorno?” la voce allegra di Kabera la riscosse dai propri
pensieri. “Com’è andata?”
Hanabi
si sciolse il copri fronte dal braccio, sedendosi con un profondo
respiro su una sedia in cucina.
“Non
male.” rispose infine, tornando a fissare il nome di Mirai
sulla lista. “Chissà… domani potrei
rimanere sorpresa.”
E
nonostante tutto, lo sperava veramente.
Caldo.
Percepiva un profondo caldo attorno a sé, quasi esistesse un
morbido velo che gli permettesse di rimanere isolato dal resto del
mondo. Una sensazione che desiderava fin troppo spesso negli ultimi
anni.
Dovrei
essere al lavoro in questo istante.
Quel
pensiero gli diede la forza di alzarsi. Si passò le mani sul
viso, mentre l’occhio gli cadeva alla sua destra, dove
riposava la sua donna. Era strano vederla così rilassata e
pacifica, come se nessuno dei suoi incubi potesse più
toccarla. Le sfiorò il volto con l’indice,
sentendosi improvvisamente vecchio, chiedendosi quanto potesse essere
ridicolo lasciarsi a simili cose alla sua età, o se tutto
ciò fosse dovuto al fatto che la sua giovinezza era volata
via fin troppo presto, in un vortice di dolore e sangue.
Scosse
la testa, decidendosi infine di uscire dal letto, quando la voce di lei
lo bloccò.
“Kakashi…”
Anko miagolò come una gatta, soffocando uno sbadiglio. La
kunoichi aprì gli occhi, mentre il primo sorriso beffardo
della giornata le si dipingeva sul viso. “Dove stai
andando?”
L’albino
sospirò. Erano ormai rare le serate in cui poteva
dimenticarsi di essere l’Hokage, dove poteva lasciare da
parte mantello e cappello per essere solo Kakashi Hatake, ninja e uomo
di Konoha. Un piacere peccaminoso a cui faceva sempre più
fatica a rinunciarci.
“Sono
l’Hokage.” mormorò, rimettendosi la
maschera. Era raro che si scoprisse il volto, ma lui per primo trovava
fastidioso tenerla quando usava il letto per qualcosa di diverso dal
sonno. “Non posso passare la mattinata a dormire.”
“Mmm…”
due dita birichine presero a solleticargli la spina dorsale,
accarezzando dolcemente le cunette create dalle vertebre.
“Preferire delle scartoffie noiose a del buon sesso con la
tua donna… potrei diventare gelosa.”
“E
quando mai non lo sei?” percepì le unghie
scavargli nella carne, mentre i denti di lei presero a marchiargli il
collo.
“Dì
la verità…” la voce della kunoichi era
un caldo sussurro nelle sue orecchie, un dolce richiamo verso una pace
che, in fondo, sapeva di non meritarsi. “Tu non vuoi tornare
in quell’ufficio polveroso per lavorare… vuoi
altro, non è vero?”
“Ci
sono molte cose che mi piacerebbe fare.” mormorò
Kakashi. “Ma poche di queste sono realizzabili.”
L’amarezza
della sua voce fermò Anko dai suoi propositi. Non
c’era dolore o disperazione nella figura
dell’Hokage, quanto più una sordida rassegnazione.
I suoi cari erano tutti morti, e l’unico amico che gli era
rimasto era un allegro infermo con cui trascorreva le poche serate
libere che il suo lavoro gli concedeva. A volte, l’Hatake si
domandava chi glielo facesse fare di continuare a rimanere in carica.
Aveva alle spalle già parecchi anni di onorato servizio, e
nessuno l’avrebbe accusato di codardia se si fosse tolto il
cappello dalla testa, consegnandolo a Naruto e avesse iniziato a
trascorrere le proprie giornate in compagnia di Gai, rimembrando la
loro giovinezza e i loro amici defunti, bevendo assieme una coppa di
saké in loro onore.
Era
il corso della vita, qualcosa a cui Kakashi non poteva, né
voleva, opporsi.
“Kakashi…”
Anko appoggiò la testa sull’incavo del collo del
suo uomo, lo sguardo perso in ricordi lontani. L’albino le
afferrò la mano, capendo cosa avevano risvegliato le sue
parole in lei. Qualcosa che forse non sarebbe mai sparito, neanche dopo
cent’anni.
“Avresti
mai detto che sarebbe finita così?”
mormorò la Mitarashi. “Due vecchi ruderi che si
supportano a vicenda?”
L’Hokage
non rispose subito. Ripensò ad Obito, Rin, Minato, suo
padre, Asuma e tutti gli altri che nel corso della sua vita aveva visto
svanire, uno dopo l’altro. Rivide davanti a sé,
come se fosse avvenuto pochi istanti prima, il sorriso di Gai quando
aveva deciso di dare la propria vita per salvare tutti loro. Si chiese,
come sempre, quale fosse stato il motivo che aveva spinto lui
così lontano rispetto agli altri. Perché proprio
lui? Colui che più di tutti aveva sbagliato nella propria
vita? Cos’era che gli aveva permesso di sopravvivere?
Ho
incontrato Naruto. Quel
pensiero lo colpì con la potenza di un tornado, facendogli
comprendere che era stato il suo vecchio allievo a salvarlo, a
permettergli di diventare ciò che era. Un mero capriccio del
destino che non aveva risparmiato invece Asuma, a suo vedere un uomo,
ed un insegnante, migliore di lui sotto tutti i punti di vista.
A
volte basta un semplice incontro a cambiare tutto.
“La
storia non ha mai fine, Anko.” rispose infine.
“Sono solo i protagonisti a cambiare.”
E
dentro di sé, l’Hatake sperava ardentemente che
quel giorno un nuovo Naruto ed un nuovo Kakashi si stessero
incontrando, permettendo alla nuova generazione di iniziare a scrivere
la storia del loro paese con le proprie mani.
Mirai
era delusa. Nel giro di qualche ora era passata
dall’eccitazione più intensa alla delusione
più atroce. Scoprire che il suo Sensei altri non era che una
donnina acida e scortese l’aveva riempita di dubbi sul suo
futuro. Si chiese se fosse possibile cambiare insegnante e se Hanabi
fosse realmente capace di renderla un ninja migliore, permettendole di
raggiungere il suo obiettivo. Le risposte a cui giungeva, per quanto si
lambiccasse, erano sempre pessimiste, guastandole ulteriormente
l’umore.
Fantastico…
proprio fantastico! La mia squadra comprende lo strambo
dell’Accademia, l’egocentrica odiosa e
un’insopportabile donnetta acida.
Tirò
un calcio ad un sasso, cercando di sfogare la propria rabbia. Per un
istante pensò di andarsi ad allenare in vista del test del
giorno dopo, ma era troppo arrabbiata, presa com’era ad
insultare mentalmente Hanabi Hyuga ed i suoi modi sgarbati e freddi.
Dopo
essere passata per casa, dove Kurenai scoppiò a ridere nel
sentire chi fosse l’insegnante della figlia aumentando
ulteriormente il fastidio di quest’ultima, Mirai decise di
andare a trovare il suo fratellino. La sua idea iniziale di allenarsi
in vista del test era stata subito smontata dalla madre, la quale le
aveva detto che sarebbe stato del tutto inutile.
“Ma
allora tu sai in cosa consiste?”
“Chissà!”
le aveva risposto con un sorriso enigmatico la genitrice. “Lo
vedrai domattina. Ora fila subito a fare la brava sorella
maggiore!”
Dieci
minuti dopo, con la sgradevole sensazione di star buttando via la
giornata, Mirai bussò alla porta di casa Nara, preparandosi
a passare un po’ di tempo con il piccolo Shikadai.
Quando
la porta si aprì, una lama si mosse rapida come un serpente,
cogliendola totalmente impreparata, fermandosi soltanto ad un
centimetro dalla sua gola.
“Ah…”
borbottò Temari, ritraendo il coltello con un guizzo del
polso. “Sei tu.”
“B-buongiorno
Temari-san.” balbettò la ragazza, ancora convinta
di essere sul punto di navigare lungo il fiume Stige.
“Perdonami.”
proseguì con tono secco la kunoichi, lasciandola entrare.
“Ero convinta che fossi uno di quei stramaledetti venditori
ambulanti.”
“Capisco.”
Mirai provò a calmare la propria tremarella, fallendo
miseramente. Per quanto fosse abituata ai modi bruschi della moglie del
padrino, certe cose la riducevano sempre ad un fascio di nervi
palpitante.
“Se
sei venuta in cerca della Disgrazia, è in salotto che
dorme… tanto per cambiare.” borbottò la
kunoichi di Suna.
Mirai
si tolse subito le scarpe, correndo nella stanza affianco, alla ricerca
del suo fratellino. Shikadai Nara era seduto sul divano, la schiena
stranamente rigida, il volto rivolto verso il televisore acceso su un
ridicolo programma di satira. Teneva gli occhi socchiusi, il pollice
destro ben stretto tra le labbra, lo sguardo perso e sognante. A prima
vista poteva sembrare annoiato, ma la ragazzina sapeva che il bambino
stava solo cercando di capire se quel programma in tv fosse di suo
gusto oppure no.
“Buh!”
con un balzo, Mirai afferrò il fratello, iniziando a girare
su se stessa, fino a quando non cadde a terra, godendosi
l’espressione infastidita del piccolo Nara.
“Seccatura.”
borbottò il bambino. “Lascia in pace!”
“Non
sono una seccatura.” lo redarguì la Sarutobi,
facendo toccare i loro nasi. “Per te sono
Mirai-oneesan.”
“Seccatura.”
“No,
ti ho appena detto che sono Mirai-oneesan!”
“Sei
seccatura per me.”
Mirai
si mise a sedere, tenendo stretto il fratello tra le braccia il quale,
pur non apprezzando quel gesto, non tentò minimamente di
divincolarsi. Era il bambino più pigro che la giovane
kunoichi avesse mai incontrato, e spesso potevano passare ore prima di
vederlo muovere anche un solo dito.
“Sei
proprio un cattivo fratellino!” esclamò la mora,
iniziando a fargli il solletico dappertutto. “E i fratelli
minori cattivi vanno puniti!”
“No!”
Shikadai tentò di divincolarsi, ma il pigiama azzurro che
indossava non lo aiutava, senza contare che la presa della Genin era
dura come l’acciaio. Il Nara iniziò a ridere,
mentre le dita birichine della sorella non gli davano tregua, fino a
quando Mirai non decise che la punizione era stata sufficiente.
“Allora!”
esclamò la ragazzina, dando un bacio sulla fronte del
bambino. “Chi sono io?”
“Seccatura.”
borbottò l’altro, per nulla felice di essere stato
costretto ad una dose massiccia di solletico.
“Sei
proprio cocciuto! Cosa devo fare per farmi chiamare Oneesan?!”
“Lasciarmi
in pace… seccatura!”
Mirai
gli fece una linguaccia, mentre riprendeva a fargli il solletico,
interrompendosi ogni tanto per rifargli la stessa domanda, ma la
risposta del bambino non cambiava mai.
“Sei
una seccatura.”
“E
tu un testone!” esclamò alla fine la Sarutobi,
sospirando. “Noi siamo fratelli, quindi mettitela via,
capito?”
Shikadai
non replicò, ormai sfinito dalla lunga lotta di solletico.
Sbadigliando, il piccolo Nara si accasciò sul petto della
sorella maggiore, cadendo subito in un sonno profondo.
“Seccatura…”
borbottò nel dormiveglia.
E
nonostante tutto, Mirai sorrise. Stare con il suo fratellino riusciva a
donarle una splendida calma, permettendole di dimenticare la delusione
dell’incontro con il suo Sensei.
Un
giorno mi chiamerà Oneesan… ne sono convinta.
Ore
dopo, quando ormai stava calando la notte e Temari aveva iniziato a
preparare la cena, uno sfatto Shikamaru fece il suo ingresso in casa,
annunciato dall’odore di nicotina dell’onnipresente
sigaretta che teneva mollemente tra le labbra.
“Sono
a casa…” borbottò. Strascicò
i piedi fino al salotto, gettò sul divano la giacca e si
lasciò cadere in maniera scomposta sulla propria poltrona
preferita, emettendo un sospiro di piacere.
“Zio!”
Mirai giunse di corsa in salotto, andando a mettere un braccio attorno
alle spalle del padrino, un sorriso gioioso sul volto. Aveva passato le
ultime ore a giocare con Shikadai, per poi aiutare Temari in cucina con
il piccolo, ma il ritorno del capofamiglia Nara significava solo una
cosa: quella sera avrebbero giocato a Shogi.
“Ti
vedo in forma, Mirai.” esordì Shikamaru,
soffocando a stento uno sbadiglio. “Come è andato
il primo giorno da Genin? Hanabi vi ha ridotto in mucchietti di ossa
doloranti?”
Il
sorriso svanì dal volto della kunoichi, dando spazio ad
un’espressione offesa.
“Tu
lo sapevi!” accusò il padrino. “Sapevi
che mi avrebbero dato come insegnante quella donna orrenda e non hai
mosso un dito!”
“A
volte sospetto che tu mi sopravvaluti…”
“Perché
hai permesso che fosse lei il mio Sensei? Con lei non
riuscirò mai a diventare un grande ninja!”
“Deduco
che il vostro primo incontro non sia andato bene.”
“Finalmente
l’hai capito!” proseguì la mora, sempre
più frustrata ed arrabbiata nel ricordare il deludente
incontro di quella mattina. “È arrogante,
dispotica, antipatica, scontrosa e…”
“Frena
la tua dolce lingua.” la prese in giro il Nara, soffiando
fumo dalle narici. “Tieni questa rabbia per dopo. Mi auguro
che stasera riuscirai ad usare una tattica quantomeno
interessante…”
“Ho
avuto gli esami nei giorni scorsi.” si difese la Sarutobi,
consapevole di non essersi mai esercitata nell’ultima
settimana. Raramente quelle scuse funzionavano con Shikamaru, ma quella
sera lo shinobi delle ombre pareva troppo stanco per mettersi a
rimproverare la figlioccia.
“Vedremo
dopo cena.” con un gemito, il moro si alzò dalla
poltrona, buttando il mozzicone in un posacenere lì vicino.
“Adesso vediamo cosa ha preparato la mia dolce
metà…”
Durante
la cena, Mirai si divertì un mondo, come sempre, nel vedere
il padrino e sua moglie beccarsi in continuazione su ogni cosa.
Sembrava impossibile che due persone così diverse, che
apparentemente non si sopportavano minimamente, avessero deciso di
mettere su famiglia.
“Potevi
almeno lavarti la faccia prima di venire a mangiare.” lo
redarguì seccamente la kunoichi, le iridi cerulee che
bruciavano di rabbia. “Puzzi di sigaretta da fare
schifo.”
“Cerco
solo di assomigliare alla tua alitosi mattutina.”
replicò serafico l’uomo, cacciandosi pigramente in
bocca un grosso pezzo di trota affumicata.
“È
il mio metodo per tenerti lontano almeno quando mi sveglio.”
“Non
serve. Mi basta guardarti in faccia per scappare a gambe
levate.”
“Si
può essere più stronzi di te?”
“Si
può avere un culo più grosso del tuo?”
Successivamente,
Temari colpì con un pugno in faccia il marito,
scaraventandolo al suolo, il tutto mentre Mirai cercava di soffocare le
risate nella purea di funghi.
“Ho
fatto dei dolcetti oggi, ne vuoi uno?” domandò
subito dopo la kunoichi bionda al marito, ignorando il fatto che
quest’ultimo stesse ancora contorcendosi al suolo per il
dolore.
“Sarebbe
meraviglioso…” gracchiò cupamente
quest’ultimo, rialzandosi, sul volto un grosso livido
violaceo.
“Ottimo.”
“Zio
Shika…”
“Sì?”
borbottò il Nara, ancora intento a massaggiarsi la parte
lesa.
“Perché
hai deciso di diventare un ninja?”
Era
un quesito che l’assillava da settimane ormai. Come mai
Shikamaru, l’uomo più pigro che conoscesse, aveva
deciso di diventare uno shinobi, un guerriero? Mirai aveva letto
centinaia di volte le storie riguardanti le imprese del padrino durante
la Grande Guerra, ma faceva davvero fatica a collegare quel sarcastico
fumatore alla figura del geniale tattico, capace di mantenere unito
l’esercito dei ninja durante lo scontro con il Juubi.
“Per
pagarmi gli antidepressivi che mi tengono così
allegro.” fu la risposta sarcastica dello shinobi delle
ombre, mentre decideva di accendersi l’ennesima sigaretta
della giornata.
“Zio…”
Shikamaru
sospirò. Si trovavano nel suo studio, seduti per terra,
intenti a giocare a Shogi, come ogni mercoledì sera.
Tuttavia, quella volta la giovane Sarutobi non era veramente
interessata alle pedine ed alle tattiche che si celavano dietro. Il suo
padrino sembrò capirlo, visto che anche lui non si impegnava
eccessivamente, comprendendo che quell’incontro sarebbe
servito a parlare, piuttosto che a giocare.
“Non
c’è un vero motivo.”
borbottò, muovendo intenzionalmente un pedone in modo da
lasciare un varco per l’alfiere avversario. “Le
persone cambiano… e ciò che ti spinge a studiare
ed allenarti ogni giorno a vent’anni può non
essere ciò che ti spingeva a farlo a dodici.”
Mirai
non rispose. Mosse l’alfiere nel varco appena apertosi, ma si
accorse, con un istante di ritardo, la trappola che si celava dietro:
il re di Shikamaru non ebbe alcuna pietà nel catturare la
sua pedina.
“Quindi
ora è qualcosa di diverso che ti spinge a fare il tuo
lavoro?” domandò. “Qualcosa di diverso
rispetto a quando avevi dodici anni?”
Il
Nara aspirò silenziosamente una boccata di fumo, la mente
invasa da ricordi frammentati della propria infanzia, un mondo che
ormai non esisteva più. Si sentì terribilmente
vecchio, nonostante continuasse a ripetersi che non aveva neanche
trent’anni.
“Sì.”
fu la sua laconica risposta. “Sono poche le persone che
riescono a rimanere coerenti, e questo perché il
più delle volte le loro convinzioni poggiano su basi
errate.” il sorriso gioioso di Naruto riempì la
sua mente, facendolo sorridere amaramente. “Per
fortuna… esistono le eccezioni.”
La
kunoichi mora lanciò un’occhiata perplessa in
direzione del tutore. Era sempre così quando parlava con
Shikamaru: enigmatico, sarcastico, irritante… pareva odiasse
parlare chiaro, quasi trovasse tremendamente faticoso spiegare nei
dettagli il significato dei propri discorsi.
“Credi
che le mie motivazioni cambieranno in futuro?”
mormorò, quasi sperasse di non ricevere risposta. Aveva
spesso la sensazione che il suo padrino la considerasse ancora una
bambina, e il fatto che si rifiutasse di spiegarle molte sue
affermazioni rafforzavano questa convinzione.
“Dipende
da te.” il Nara mosse un cavallo, mettendo pressione alle
difese nemiche. Era deciso a vedere se la figlioccia avrebbe puntato
sull’evitare lo scontro, oppure se avrebbe caricato a testa
bassa per riguadagnare il terreno perduto. “Ho sempre
preferito evitare di inculcarti stupide ideologie, perché
voglio che tu ragioni con la tua testa.” osservò
la mossa della ragazzina in silenzio, il volto che non lasciava
trasparire alcune emozione. “Non mi importa niente che tu
decida di dedicare la tua vita a quella o quest’altra causa,
ma voglio che tu possa viverla senza alcun rimpianto, in modo da
poterti guardare sempre allo specchio a testa alta.”
“Vorrei
essere come mio padre.” sussurrò lei, sentendosi
il cuore in gola. “Mi piacerebbe diventare come
lui.”
Shikamaru
si grattò la testa, effettuando uno sbadiglio. Quella sera
la strategia languiva sulla scacchiera, pertanto gli era difficile
rimanere concentrato per più di qualche secondo.
“Se
vuoi diventare come lui, allora significa che per prima cosa dovrai
capire veramente che persona era.” replicò,
muovendo un Generale D’oro. “E comprendere se
è questo ciò che veramente vuoi.”
“Come
faccio a capirlo? Lui non c’è
più…”
“Puoi
capire moltissimo di persone che ormai non sono più in
vita.” un’altra mossa, una delle ultime di una
partita piuttosto deludente. “Non vedo perché tuo
padre dovrebbe essere un’eccezione.”
La
kunoichi ebbe un moto di rabbia nel sentire l’ennesima frase
criptica del tutore. Mosse con stizza il cavallo, attaccando
ferocemente, decisa a sfogarsi attraverso le pedine.
“Tanto
è inutile parlarne.” borbottò
acidamente. “Con i compagni che ho, e l’insegnante
che mi avete dato, non riuscirò mai a diventare un vero
ninja.”
Shikamaru
si fermò di colpo, nell’intento di mettere fine
alla partita con un’ultima mossa. Tenne sospesa la propria
pedina a mezz’aria, mentre i suoi occhi si spostarono dalla
scacchiera al volto della figlioccia, scrutandola freddamente.
“Non
osare dire mai più una cosa del genere.”
“Perché
non dovrei? Quella donna non sarà mai capace di insegnarmi
qualcosa! Senza contare che i miei compagni sono dei presuntuosi
incapaci! Come posso diventare Chuunin se sono in squadra con gente
come…”
“Mirai!”
il Nara alzò il proprio tono di voce, facendolo diventare
freddo e minaccioso. “Se non diventerai un Chuunin la colpa
sarà soltanto tua. Non osare mai incolpare gli altri dei
tuoi insuccessi, mi sono spiegato?”
La
ragazza rimase immobile, intimidita da quello sguardo di ghiaccio. Era
la prima volta che sentiva il suo padrino alzare la voce e fu qualcosa
di sconvolgente. Era come se Shikamaru avesse alzato la propria
maschera per un istante, mostrandole il volto del freddo e spietato
tattico militare.
“Se
desideri diventare una vera donna, dovrai sempre farti carico delle tue
colpe.” proseguì con tono più dolce lo
shinobi. “Tutti hanno le proprie croci, Mirai… non
essere così vigliacca da gettarle addosso agli
altri.”
Mise
giù la pedina, sancendo così la fine della
partita.
“Vai
a letto, domani devi alzarti presto.” il Nara la
salutò arruffandole i capelli, lasciandola successivamente
sola con i propri pensieri, incapace di trovare requie dopo le ultime
parole del tutore.
Le
solleticò il volto con l’indice, godendosi del
calore che percepiva da quel corpicino caldo, incapace di smettere di
fissarla.
“Guarda
che non scappa mica.” la prese in giro Naruto.
Hinata
strinse al petto la piccola Himawari, fissando trucemente il marito.
“È
mia.” dichiarò con voce fintamente severa.
“L’ho fatta io, e quindi decido io quando metterla
giù.”
“Dovresti
riposarti, piuttosto.” la rimproverò dolcemente
l’Uzumaki. “La piccola starà bene anche
quando ti risveglierai.”
“Te
l’ho già detto.” rispose la mora,
sorridendogli. “Ogni giorno va meglio. La migliore medicina
è restare in vostra compagnia.”
“Non
credo che Sakura-chan sarebbe d’accordo.”
borbottò il biondo.
Hinata
scoppiò a ridere, subito imitata dal compagno.
Era
passata una settimana da quando Himawari era nata. Hinata si trovava
ancora in ospedale, ma la data del suo congedo si avvicinava sempre di
più. In quei giorni, la Hyuga aveva iniziato ad avere un
attaccamento morboso verso la piccola, come avevano potuto notare
Naruto ed Hanabi. Sembrava che tutte le sofferenze patite avessero
unito madre e figlia, tramite un legame che nessun’altro
poteva comprendere. Nonostante le giornate frenetiche, passate tra
l’ufficio, casa ed ospedale, Naruto si sentiva leggero e
felice come non accadeva da tempo. Sua moglie e la sua bambina stavano
bene e presto sarebbero tornate a casa da lui e dal piccolo Boruto.
Onestamente, anche desiderandolo, lo shinobi non avrebbe saputo cosa
fare per essere più felice.
“Mi
auguro che quando tornerete a casa riuscirai a staccarti da lei per
qualche secondo.” la prese in giro, osservando la moglie
cullare la figlia con tutta la delicatezza possibile.
“Ed
io mi auguro di tornare in una casa pulita.”
replicò la mora.
“L’altra
volta era pulita!” si difese Naruto, parlando della prima
gravidanza.
“Ah
sì? E allora cos’erano tutte quelle ragnatele sul
soffitto?”
“Servivano
da sostegno per evitare che il tetto crollasse.”
Hinata
sbuffò ma preferì proseguire ad accarezzare la
figlia, piuttosto che dare retta agli scherzi del marito.
C’era qualcosa di meraviglioso nello stare lì,
immobile, a fissarla dormire. Riusciva a farla stare meglio,
alleviandole i dolori e la fatica accumulata nei mesi precedenti.
Himawari era poi una bambina strana, diversa dal fratello maggiore: era
raro che piangesse, e il più delle volte dormiva anche otto
ore di fila, senza interrompersi per bisogni fisiologici o per
mangiare. Anche il nome che il marito le aveva dato suonava strano,
quasi straniero. Hinata aveva chiesto un paio di volte il
perché dietro a quel nome, ma l’Uzumaki si era
sempre difeso definendolo un nome come un altro e la kunoichi aveva
preferito credergli, piuttosto che dare vita ad un litigio che sapeva
non avere la forza di sorreggere.
Naruto
scosse la testa, sorridendo, mentre vedeva la moglie proseguire nelle
coccole ad Himawari. Si alzò, con l’intento di
fare due passi per il corridoio quando, aprendo la porta, si
trovò di fronte Hazuba Hyuga.
“Sto
cercando mia nipote.” nessun saluto o sorriso. Il bel volto
della kunoichi rimase impassibile, i freddi occhi chiari che
squadravano con disgusto l’uomo che aveva di fronte.
Naruto
non seppe cosa dire. Aveva sentito parlare della terribile nonna di sua
moglie, una donna capace di mettere in buona luce un elemento
sgradevole come Danzo, ma trovarsela di fronte, senza alcun preavviso,
lo prese in contropiede.
“Ti
ho fatto una domanda… Jinchuuriki.” il disprezzo
era intriso in ogni singola sillaba che gli rivolgeva. Non
c’era alcun dubbio che quella donna gli avrebbe conficcato un
pugnale nella gola alla prima occasione.
“Kurama.” percepì
l’amico sollevare la testa, gli occhi scarlatti vigili, teso
come prima di uno scontro. “Tieniti
pronto.”
“Io
sono sempre pronto, moccioso.”
“Si
accomodi.” lo shinobi si fece da parte, permettendo
all’anziana Hyuga di entrare nella stanza. Non appena Hinata
la vide, i suoi occhi si spalancarono, percependo uno spiacevole groppo
in fondo alla gola. Da quando si era fidanzata con Naruto, Hazuba si
era rifiutata di rivolgerle la parola, ritenendola indegna di essere
sua parente. Ora, dopo oltre cinque anni, era lì, di fronte
a lei, le iridi glaciali che per anni avevano popolato i suoi incubi
erano di nuovo dentro la sua vita.
“Hazuba-sama…”
mormorò. “E’… una sorpresa.
Non l’aspettavo.”
Hazuba
si sedette, la schiena perfettamente dritta. Non disse nulla,
limitandosi a rivolgere uno sguardo glaciale in direzione di Naruto,
quasi si aspettasse che quest’ultimo uscisse.
“Mi
dispiace, ma se ha intenzione di parlare con mia moglie, io
resto.” fu la secca replica dello shinobi, incrociando le
braccia con fare bellicoso.
“Naruto-kun.”
la voce della moglie lo colpì come una sferzata, pur
rimanendo estremamente bassa. “Esci, per favore.”
“Ma…”
“Ti
prego… vai fuori.” il tono della kunoichi non
ammetteva repliche.
Riluttante,
Naruto uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Tuttavia, una
volta fuori, non esitò ad appiccicare l’orecchio
alla serratura, guadagnandosi più di
un’occhiataccia da parte delle infermiere di passaggio.
“Dunque…”
Hinata strinse inconsapevolmente con maggiore forza al petto la figlia,
tentando di riordinare le idee. “Di cosa voleva
parlarmi?”
“Desideravo
vederti.” rispose Hazuba. “Dopo cinque anni, credo
che sia giunto il momento di porre fine a questo sciocco dissapore che
ci divide.”
“Sono
lieta che siate giunta a questa conclusione…”
nonostante la kunoichi continuasse a ripetersi che lei era
un’adulta, c’era qualcosa in Hazuba che la faceva
tornare una bambina piccola, sola e profondamente indifesa, accusata da
tutti di essere nient’altro che un fallimento del clan Hyuga.
“Io
e te, Hinata, abbiamo idee profondamente diverse.”
proseguì con tono secco l’anziana kunoichi.
“Posso capirlo. Dopotutto, siamo cresciute in contesti
differenti, ed è normale che la nostra società
cambi, per restare al passo con i tempi.” il volto
stranamente giovanile di Hazuba si contrasse, quasi non credesse
neanche lei a ciò che stava dicendo. “Tuttavia, io
penso che senza solide basi… ogni cambiamento possa alla
lunga essere dannoso.”
“Quindi…
quali sarebbero le basi che lei considera imprescindibili?”
Un
sorriso di rara dolcezza si dipinse sulle carnose labbra di Hazuba,
rendendola ancora più affascinante.
“Sono
lieta di sentirti parlare in questo modo, mia cara.”
continuò con tono leggermente più caldo.
“Vedi… io credo che sia indispensabile, per
mantenere l’ordine sociale, dare una guida forte alla nostra
comunità. Una guida che possa occuparsi a tempo pieno dei
problemi del nostro popolo, non sei d’accordo?”
“Sì.”
sospirò la Hyuga più giovane, iniziando a capire
dove intendesse andare a parare la parente. “Penso che ci sia
saggezza in queste parole, ma sarebbero molto più
convincenti se lei ci credesse veramente, Hazuba-sama.”
Il
sorriso della donna si incrinò, mentre una fiamma prese a
brillare nei suoi occhi.
“Vedo
che tuo padre ti ha cresciuta con troppi pregiudizi nei miei
confronti.”
“Non
è stato mio padre.” rispose con tono calmo, ma
fermo, la mora. “Sono stati i miei amici. Gente che lei
disprezza in quanto ‘impuri’.”
Il
sorriso sparì del tutto dal volto di Hazuba.
“Fedele
fino in fondo al proprio padrone...” sibilò con
tono velenoso, gli occhi brucianti di collera.
“No,
Hazuba-sama.” replicò nuovamente Hinata, lo
sguardo duro quanto quello della parente. “Io non ho padroni,
ed è questo che la disturba così profondamente da
portarla addirittura qui da me dopo cinque anni: il desiderio di farmi
diventare il suo cagnolino.” anche la voce della kunoichi
più giovane diventò fredda e spietata.
“Non lascerò la mia eredità nelle mani
di una persona come lei, qualcuno che giudica le persone dal sangue che
possiedono piuttosto che dalle azioni che compiono.”
Hazuba
chiuse gli occhi per un istante, tracimando rabbia. Poi,
improvvisamente, si rilassò, riacquisendo la propria
arrogante sicurezza.
“Sei
davvero tenera, mia cara.” sussurrò, sorridendole
velenosamente. “Tu e quella bestia che chiami marito siete
convinti di poter giocare questa partita ad armi pari.” si
alzò. “Pensa ai tuoi bambini, piccola. Dubito che
vogliano crescere senza genitori, non trovi?”
“E’
una minaccia?”
“No,
un semplice consiglio… per ora.”
Se
ne andò, spalancando la porta di botto, solo per trovarsi di
fronte Naruto. Storse la bocca, faticando a reprimere il proprio
disgusto per ciò che aveva di fronte.
“Spostati…
bestia.” ordinò con tono glaciale.
“E
se io non mi spostassi?” la provocò
l’Uzumaki, irritato dall’arroganza della donna.
“Oserebbe sporcarsi le mani, dandomi una spinta?”
“Ritieniti
fortunato che a governarci ci sia un debole come Kakashi Hatake,
Jinchuuriki.” fu la risposta di Hazuba. “Qualsiasi
persona degna di essere chiamata ninja ti avrebbe sepolto vivo nelle
prigioni del Villaggio già da tempo, bastardo
mezzosangue.”
Naruto
percepì il sangue premergli sulle tempie, spazzando via ogni
raziocino ‘umano’ dentro di lui. Le sue iridi
azzurre assunsero una tonalità rossastra, mentre il
desiderio di squarciare la gola di quella spregevole donna cresceva in
lui ogni secondo che passava.
“Lascia
perdere.”
“Kurama?” sentì
la propria rabbia svanire innanzi alla mente gelida
dell’amico, il quale era tornato a sonnecchiare tranquillo da
qualche minuto.
“Sprecheresti
tempo.” borbottò
il demone, sbadigliando. “Lasciala
andare per la sua strada.”
Con
uno sforzo immane, lo shinobi si fece da parte, permettendo ad Hazuba
di incamminarsi verso l’uscita dell’ospedale.
“Le
consiglio di rinunciarci.” esordì improvvisamente
il biondo, ancora troppo infuriato per tenere la bocca chiusa.
“Non lo sa che i mostri non vanno mai provocati?”
La
kunoichi si voltò, tornando rapidamente di fronte
all’Uzumaki.
“E
cosa ne sai tu dei mostri, Jinchuuriki?” sussurrò
velenosa la donna, un sorrisetto maligno sulle morbide labbra.
“Credi veramente di conoscerli? Tutto quello che hai visto
sono stati uomini amareggiati e deboli, schiacciati dai loro stessi
fallimenti, ma i mostri… sono ben altro.” il
sorriso divenne inquietante. “Qualcosa che va oltre Madara
Uchiha ed il suo patetico clan.”
Se
ne andò, lasciando a Naruto una sensazione sgradevole nello
stomaco. Un sentimento che riuscì solo dopo alcuni secondi
ad identificare: paura.
“Avresti
dovuto lasciarmela fare fuori.” brontolò,
mentre rientrava nella stanza della moglie.
“Era
indifesa. Da quando uccidi qualcuno solo perché ti insulta o
minaccia?”
“E
da quando tu sei così diplomatico?! Non sei sempre stato
quello che prima uccideva e poi parlava?!”
“Mi
stai dando del codardo?” la
volpe aprì un occhio, scrutando trucemente l’amico.
“Diciamo
che gli ultimi anni di pace ti hanno rammollito!
Dov’è finito il demone con cui ho combattuto per
sedici anni?! Tira fuori le palle, perché quella vecchia
può diventare una fonte di guai!”
“Non
insultarmi!” un
ringhio tremendo uscì dalla gola del demone, facendo vibrare
le ossa dello shinobi. “Conosco
quanto te la pericolosità di quella donna! E proprio per
questo sono convinto che l’ultima cosa da fare sia dare vita
ad una miserevole scazzottata con essa!” l’iride
scarlatta di Kurama fissò con fare accusatorio
l’amico, mettendolo a disagio. “Quando
verrà il momento la combatteremo, ma ora avresti solo fatto
il suo gioco rispondendo alle sue provocazioni. Dimostrati
superiore.”
“Dillo
alle vittime di lei.” borbottò
Naruto, ancora di cattivo umore. “Se
lasciamo quella donna libera di agire, avremo una montagna di
guai.”
“I
processi alle intenzioni li facevano uomini come Madara…
vedi di non prendere esempio da lui.”
Pure
la lezione di filosofia mi fa… volpe del cavolo!
Il
suo malumore fu percepito anche dalla moglie, la quale gli fece cenno
di avvicinarsi.
“Non
avresti dovuto provocarla in quel modo.” lo
rimproverò subito Hinata. “Lei è una
donna che gioca sulle emozioni degli altri. Se vuoi riuscire a
parlarle, devi essere capace di rimanere freddo e
controllato.”
Lo
shinobi si sedette al suo fianco, sospirando. La rabbia stava svanendo
lasciando il posto ad un’amara consapevolezza di aver
sbagliato.
Sempre
la solita testa calda… idiota!
“Scusami.”
borbottò. “Lo sai che mantenere il sangue freddo
non è il mio forte.”
La
donna gli afferrò la mano destra, pur tenendo stretta al
petto la figlia.
“Cosa
facciamo, ora?”
“In
che senso?”
“Hazuba
non si fermerà fino a quando non avrà messo le
mani sul mio clan. Se vogliamo che ciò non accada, dovremo
combatterla.”
“È
solo una vecchia ancorata al passato!” replicò
Naruto, desiderando tranquillizzare la compagna. “Cosa
potrebbe mai fare? Scatenare una guerra da sola?”
Il
volto di Hinata rimase serio.
“Non
la conosci, Naruto-kun.” osservò a voce bassa.
“Non sei cresciuto con la sensazione che lei fosse
onnipresente, con la consapevolezza che niente di ciò che
fai o dici sfugge al suo sguardo.” si morse il labbro
inferiore, gli occhi divenuti freddi nel rimembrare il passato.
“Lei è pericolosa… troppo.”
tornò a rivolgere lo sguardo verso il compagno.
“Dovremo combatterla se vogliamo che i nostri figli abbiano
un futuro a Konoha.”
L’Uzumaki
fece un profondo respiro, chiedendosi per quale motivo doveva esserci
sempre qualcuno nella sua vita che lo voleva far fuori. Era snervante
sotto un certo senso, e si chiese se quella situazione sarebbe mai
cambiata.
“Quindi
cosa facciamo?” chiese.
Hinata
tornò a fissare Himawari, rimanendo incantata nel vederla
dormire pacifica, priva di ogni preoccupazione. Il pensiero che lei e
Boruto potessero venirle strappati dalle mani la terrorizzò,
facendole scorrere un brivido lungo il filo della schiena. Hazuba
voleva morti i suoi figli, tutto ciò che aveva costruito con
fatica e sofferenza in quegli anni. Ma soprattutto voleva distruggere
il sacrificio di Neji, qualcosa che non poteva permettere per niente al
mondo.
“Non
possiamo parlarne con nessuno.” rispose, stringendo con
maggiore forza la mano del marito. “Non servirebbe a niente,
ora come ora. Tutto quello che possiamo fare è tenere gli
occhi aperti e… prepararsi a controbattere colpo su colpo ad
ogni sua mossa.”
Naruto
comprese ciò che voleva dire la kunoichi. Quello che avevano
deciso di fare, anni prima, era di cambiare il mondo, rifiutandosi di
vivere la propria vita nella diffidenza e nel pregiudizio. Tuttavia,
quel cambiamento non era arrivato in un giorno. Era stato un percorso
da compiere giorno dopo giorno, vincendo le resistenze di chi era
cresciuto e vissuto dentro un mondo che ora loro volevano relegare ai
libri di storia. Ed ora, quelle resistenze si erano raccolte attorno
alla figura di Hazuba, astuta e calcolatrice, che sembrava disposta a
sacrificare qualsiasi cosa, anche la sua famiglia, per poter
distruggere quel cambiamento.
Non
possiamo perdere.
“Lo
faremo.” dichiarò. “Riusciremo a vincere
anche questa sfida.” baciò sulla fronte la moglie,
sfiorando una manina di Himawari. “Wari e Boruto cresceranno
in un mondo migliore… te lo prometto.”
Non
permetterò che il tuo sacrificio sia stato vano,
Wari…
Era
il loro peso, la loro croce da portare in silenzio, nascosta a tutti.
Avrebbero combattuto l’ennesima battaglia della loro vita per
loro, ma soprattutto per i loro figli, affinché
ciò che avevano vissuto non si ripetesse mai più.
E
Hinata ne era convinta. Avrebbero vinto.
“Così
sia.”
CONTINUA
Ehm…
salve!
Dunque,
cosa dire dopo mesi e mesi di silenzio colpevolissimo?
Beh…
diciamo che sono in dirittura d’arrivo con la laurea, e
questo comporta che, tra tirocinio, tesi ed ultimi esami da preparare,
il mio tempo libero è diventato una chimera.
Comunque,
problemi personali a parte, volevo subito dire che questo capitolo
all’inizio era nato come unico. Solo che alla fine ho deciso
di spezzarlo in due per dare maggiore spazio a Mirai ed Hanabi, il cui
rapporto sarà analizzato nella seconda parte del capitolo. E
sì, so bene che Naruto e Hinata negli ultimi capitolo sono
comparsi poco, ma vi prometto che dopo questo capitolo torneranno
padroni indiscussi della scena (o almeno lo spero).
Il
motivo per cui ho scelto di legare Mirai ad Hanabi è
essenzialmente questo: ritengo la figlia di Asuma un personaggio non
facente parte della generazione di Boruto. Pertanto ho scelto di
analizzare la sua crescita in questa storia, legandola ad uno dei
personaggi con pochi legami rimasti, appunto Hanabi. Il loro rapporto,
tuttavia, sarà molto diverso sia da quello di Naruto con
Kakashi che di quello con Shikamaru e Asuma. Sarà una cosa
diversa, che cercherò di iniziare ad introdurre
già nella seconda metà di questo capitolo.
Bene…
direi che è tutto. Cercherò di pubblicare la
seconda parte il prima possibile, ma purtroppo non ho tempi certi,
anche se posso assicurarvi che questa specie di raccolta (chiamiamola
così va!) non sarà abbandonata a se stessa.
Un
saluto! E grazie in anticipo a chiunque voglia lasciarmi una sua
impressione, positiva o meno.
Giambo