Anime & Manga > Naruto
Segui la storia  |       
Autore: giambo    01/11/2017    2 recensioni
Crescere è una sfida difficile. Lo sa Naruto, lo sa Hinata così come lo sanno tutti i loro compagni ed amici di Konoha. Eppure, in un mondo che sta vivendo una pace con ancora troppi lati oscuri, essi dovranno imparare a diventare adulti, ad affrontare i propri demoni, le proprie paure, ed anche i propri fallimenti. Con la consapevolezza che una coppia non si costruisce in una notte di passione sfrenata, ma giorno dopo giorno, affrontando le sfide della vita, consci delle proprie forze e delle proprie debolezze.
Raccolta di One-Shot incentrata sulla coppia Naruto/Hinata, ma con ampi spazi dedicati alle altre coppie canoniche del manga, con in più qualche sorpresa.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Boruto Uzumaki, Himawari Uzumaki, Hinata Hyuuga, Kurama, Naruto Uzumaki | Coppie: Hinata/Naruto, Sasuke/Sakura, Shikamaru/Temari
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
The Biggest Challenge
 

2gwt8jd

Croci

parte prima

 
 

La musica le rimbombava violentemente sui timpani, imponendole un ritmo frenetico al corpo. Percepiva il sangue ribollire nelle vene, carico di ormoni, mentre lo stomaco bruciava per l’alcool che continuava ad ingurgitare, creandole davanti agli occhi un vortice pieno di colori, odori e rumori.

Hanabi sentiva la testa meravigliosamente vuota. Era come se il suo cervello si fosse preso una vacanza, lasciando tutto in mano al suo istinto, guidato dall’alcool e dalle continue incitazioni di Kabera, che la spingevano a buttarsi in mezzo alla folla del locale con sempre più convinzione.

Era stata un’idea dell’Anbu bionda quella rimpatriata con la divisione Rho, la sera prima della sua nuova vita come Sensei. La cena era stata molto piacevole, ma quando l’alcool aveva abbassato a sufficienza il loro raziocino, finire invischiati in quella baraonda, in uno dei nuovi locali aperti nella periferia di Konoha, era stato un attimo. Era strano per loro comportarsi normalmente per una sera, apparire come persone qualsiasi, ma era il miglior modo per dire addio a colei che li aveva guidati ed addestrati negli ultimi tre anni.

Ma per quanto tentassero di controllarsi, fu per loro impossibile tenere a bada Hanabi. La giovane Hyuga bevve fino a star male, limonò con due ragazzi diversi e tentò di farlo anche con Kabera; litigò furiosamente con un gruppetto di giovani ninja della Nuvola in visita a Konoha e sulla strada del ritorno, appoggiata di peso sulla spalla della coinquilina, vomitò per cinque minuti ininterrotti. Quando infine si buttò a letto cadde in un sonno profondissimo, puzzolente di vomito, alcool e sudore.

La mattina dopo il risveglio fu un trauma. La sveglia suonò fin troppo presto, facendola gemere di dolore. Aveva un mal di testa orrendo, la bocca impastata e quando tentò di aprire gli occhi il mondo prese a girarle attorno, facendole montare la nausea.

“Ben svegliata, Sensei.” cinguettò Kabera. “Dovreste sbrigarvi, siete in ritardo per il vostro nuovo lavoro.”

“Si fottano quei marmocchi.” gemette la kunoichi, percependo la nausea salire sempre di più. Era come se qualcuno le strizzasse le budella dal basso, spingendo affinché le uscissero dalla bocca.

“Ti prego…” rantolò, trattenendo a stento un conato acido. “Dimmi che hai qualcosa per farmi stare in piedi.”

Mmm…” la kunoichi bionda si dondolò sui talloni, apparentemente pensierosa. “Ma se lo facessi, poi lei non imparerebbe nulla da quello che è accaduto. Non le sembra ingiusto?”

“Kabera… se non vuoi che ti riempia di vomito la casa, prepara uno stramaledetto intruglio che mi faccia sparire la nausea!” ringhiò a denti stretti la mora, nel tentativo di evitare di riempire il letto di acida bile.

Dieci minuti dopo, Kabera tornò con una tazza ricolma di una brodaglia verdastra, il cui odore ricordava il finocchio lesso. Hanabi la ingurgitò a grandi sorsate, insensibile alle vesciche che la bevanda bollente gli causò in gola. Rimase stupita nel sentire la nausea scomparire quasi subito, mentre il mal di testa si attenuava fortemente, permettendole di alzarsi con le proprie gambe.

“Purtroppo non ho potuto far bollire quanto volevo le foglie di valeriana, e inoltre…”

“Non ho intenzione di sapere cosa di preciso ho appena bevuto.” borbottò la Hyuga, chiudendosi in bagno. “Grazie mille, ma preferisco rimanere nella mia sacra ignoranza.”

Mezzora dopo, lavata e vestita, Hanabi si accingeva a compiere il primo passo della sua nuova vita. Il fatto che fosse in un ritardo mostruoso le era indifferente, così come che si fosse rifiutata di vestirsi come un normale Jonin. Benché non appartenesse formalmente più agli Anbu, lei continuava a sentirsi una di loro.

“Pronta?” Kabera fece capolino dalla porta della stanza, le iridi cerulee che fissavano con allegria la figura della Hyuga, così diversa dal solito.

Hanabi si legò il copri fronte di Konoha sul braccio sinistro con un nodo stretto, coprendo così il tatuaggio degli Anbu, odiandosi per quello che stava facendo.

“Per niente.”

 

 

Mirai Sarutobi non sapeva di preciso come sentirsi. Da quando le avevano comunicato che aveva superato gli esami finali dell’Accademia, rendendola a tutti gli effetti un ninja di Konoha, le era sembrato di vivere in un limbo, lontana dalla quotidianità che aveva scandito la sua vita negli ultimi anni.

La prima emozione che sentiva era sicuramente l’eccitazione. Da quando aveva ricevuto il proprio copri fonte due giorni prima non era più riuscita a prendere sonno. Continuava a pensare a chi sarebbe stato il suo Sensei, quali prodigiose tecniche le avrebbe insegnato e se sarebbe stata capace di portare a termine le missioni che le avrebbero assegnato d’ora in avanti. Quando rifletteva su questi argomenti, il più delle volte sopraggiungeva la paura, che le strizzava le viscere, bloccandole il respiro. Nonostante le rassicurazioni di sua madre, che continuava a ripeterle che sarebbe stato qualcosa di tranquillo e normale, Mirai continuava ad essere nervosa. D’ora in avanti sarebbe stata sotto la supervisione di un Sensei sconosciuto, diverso da tutti quelli che aveva imparato a conoscere, e a prendere in giro, durante i suoi anni all’Accademia. Una figura che avrebbe cambiato, inevitabilmente, la sua vita.

A volte provava ad immaginarselo, seppure con scarso successo. A parte sua mamma, erano pochi i ninja adulti che conosceva. C’erano suo zio Shikamaru e sua moglie Temari, così come gli zii Kiba e Shino, ma erano tutti così eccentrici che faticava ad immaginarsi qualcuno di anche solo vagamente simile a loro. Ovviamente anche i suoi vecchi maestri dell’Accademia erano dei ninja, ma erano sempre apparsi così tranquilli e pazienti che veniva difficile immaginarseli nelle vesti di pericolosi e letali guerrieri. Se si concentrava, le veniva in mente solo una figura scura, altissima, con il volto coperto, dagli occhi fiammeggianti. Era una fantasia sciocca, lo sapeva, ma la giovane Sarutobi pensava che sarebbe stato veramente figo apprendere le tecniche ninja più letali da un simile figuro.

La sera prima di conoscere il suo nuovo Sensei vennero a trovarla i suoi zii Kiba e Shino, i quali le portarono dei regali per festeggiare la sua promozione a Genin. Kiba le regalò un paio di mezziguanti in pelle, perfetti per avere una presa salda durante un combattimento. Shino aveva invece optato per una borsa da ninja nera, ricolma di rotoli di filo d’acciaio, file di shuriken lucenti e bombe fumogene, oltre ad una discreta quantità di carte bombe.

“Un vero ninja deve sempre essere provvisto di simili strumenti. Non sai mai cosa potrebbe accaderti.” dichiarò l’Aburame mentre le consegnava il tutto.

“Sono bellissimi!” esclamò la mora, abbracciando di scatto i propri zii adottivi, il tutto sotto lo sguardo divertito di Kurenai. “Grazie mille, zii!”

Nonostante fosse cresciuta senza il padre, morto prima che nascesse, Mirai non aveva sofferto l’assenza di figure maschili durante la sua infanzia. Una volta alla settimana si fermava a dormire dal suo padrino Shikamaru, che lei amava chiamare zio Shika, mentre Kiba e Shino, suo zii adottivi ed ex allievi di sua madre, l’andavano a trovare minimo due volte a settimana, se non di più, riempiendola di regali, e spesso aiutandola con i suoi esercizi. L’Inuzuka si era proposto anche di addestrarla, ma la ragazzina aveva preferito allenarsi con Temari-san. C’era qualcosa che l’attirava in quel miscuglio di autorità e sarcasmo che era la moglie del suo padrino. Nonostante fosse estremamente severa e rigida con lei, aveva imparato molto negli ultimi due anni dalla kunoichi di Suna, tra cui l’utilizzo della Futon, nella quale Temari non aveva eguali.

Nonostante questo, Mirai era profondamente legata alla figura del padre. Con il passare degli anni, tramite i racconti di sua madre e di Shikamaru, la piccola Sarutobi aveva iniziato a mitizzarlo, prendendolo come esempio del ninja perfetto. Il suo sogno era di diventare esattamente come lui: un grande ninja, rispettato da tutti, degno erede del Terzo Hokage. Per questo aveva pregato Shikamaru di allenarla all’uso delle lame di chackra, segno distintivo del genitore defunto, ma il Nara non aveva voluto sentire ragioni in merito.

“Quando sarai diventata Chuunin potremo riparlarne, non prima.” Mirai aveva tentato di insistere, chiedendo aiuto anche a Temari-san, ma sull’argomento lo shinobi delle ombre era rimasto irremovibile, resistendo perfino innanzi al cipiglio incazzato della moglie.

Così, la giovane Sarutobi si era limitata ad omaggiare il padre tutte le volte che usciva di casa, oltre a andare a trovarlo una volta alla settimana al cimitero. Tuttavia, ora che era Genin, sentiva di aver compiuto un passo fondamentale per avvicinarsi al suo obbiettivo, quasi potesse avvicinarsi a quella figura che non aveva mai potuto conoscere.

Il giorno dopo il nervosismo ritornò a farsi vivo, chiudendole lo stomaco. La sera prima Kiba e Shino avevano fatto l’impossibile per tranquillizzarla in merito alla faccenda del nuovo Sensei e perfino Akamaru aveva dato fondo a tutto il proprio repertorio di tenerezza per farla sorridere. Eppure, ora che era sul punto di conoscere colui, o colei, che l’avrebbe avvicinata al suo obbiettivo, sentiva lo stomaco contrarsi, e la paura strisciare infida dentro di lei.

“Dovresti mangiare qualcosa.” osservò sua madre, notando con occhio critico il piatto intonso lasciato dalla figlia. “Oggi sarà una giornata impegnativa, avrai bisogno di energie.”

Mirai si limitò a scuotere la testa, i corti capelli scuri che si aggrovigliavano ulteriormente. Erano anni che Kurenai tentava di regolare i capelli della figlia con il pettine, ma alla fine aveva dovuto cedere, accettando il fatto che non sarebbero mai diventati lisci ed ordinati come i suoi.

“D’accordo, niente colazione.” sospirò la Yuhi, togliendo il piatto da sotto gli occhi della giovane Sarutobi. “Almeno portati dietro qualcosa, in caso più tardi ti venga fame.”

Mirai annuì, desiderosa di uscire di casa. Sentiva che se fosse rimasta ancora un minuto seduta senza muoversi, sarebbe impazzita. Raccolse le proprie cose, si mise qualche merendina in tasca per accontentare il genitore, salutò il padre con un rapido inchino ed infine uscì, dirigendosi a passo rapido verso l’Accademia, il cuore in gola per l’eccitazione.

Tra un’ora conoscerò il mio nuovo Sensei… non le era mai parsa così breve un’ora come in quel momento.

Il percorso abituale verso l’Accademia finì fin troppo presto per i suoi gusti. Fu strano rivedersi con tutti i propri compagni di classe, nella loro vecchia aula, per quella che sarebbe stata l’ultima volta. Era probabile che il loro prossimo incontro tutti insieme sarebbe stato agli esami dei Chuunin, sei mesi dopo, rendendoli non più compagni ma rivali. Era una mutazione terribile se ci si pensava un istante, ma Mirai non poté rimuginare troppo sull’argomento. Non appena mise piede in classe, un tornado di capelli dorati le si parò di fronte, mentre due occhi celesti presero a fissarla con disprezzo.

“Dunque sei venuta!” borbottò la nuova arrivata a denti stretti. Era una bella ragazzina, nel pieno del suo sviluppo, alta e sinuosa, con le prime forme da donna che premevano da sotto la tunica viola che indossava. Aveva lunghi capelli biondi che teneva legati in una coda che le arrivava alle scapole, occhi di un azzurro chiarissimo, ed un viso dai tratti delicati e pallidi, quasi fosse fatta di porcellana.

“Sì, sono venuta.” replicò con tono altrettanto astioso Mirai. “Benché non provo alcuna gioia a dover stare in squadra con te, Aimi.”

Aimi Yogonuchi scosse la coda con fare altezzoso, squadrando dall’alto verso il basso la sua nuova compagna di team. Il disprezzo che l’una nutriva per l’altra era palpabile nell’aria ed era chiaro che nessuna di loro aveva la minima intenzione di sotterrare l’ascia da guerra che insanguinava il loro rapporto da quattro anni a questa parte. Premunendosi di urtare la rivale con una spallata, Mirai andò verso il suo banco, sentendo lo stomaco ribollire di rabbia all’idea di dover lavorare con quella smorfiosa per chissà quanto tempo.

Mirai ed Aimi erano rivali acerrime fin dal primo anno in Accademia, quando erano soltanto due bambine. Aimi proveniva da una famiglia di ricchi proprietari terrieri, i quali si erano trasferiti a Konoha dopo la Grande Guerra. Questo rendeva la ragazza bionda altezzosa, arrogante ma anche prepotente e battagliera, disposta a dimostrare al mondo la propria superiorità. Benché fosse solo la prima della famiglia che si cimentava negli studi per diventare un ninja, Aimi era convinta di avere grande talento e di essere la migliore kunoichi di tutta l’Accademia. Il contrasto con l’irrequieta e vulcanica Mirai, sempre pronta a menare le mani se necessario, era stato inevitabile, considerando anche come Mirai, benché appartenesse ad un clan antico e potente come quello dei Sarutobi, fosse cresciuta lontana dalla famiglia paterna, in un modesto appartamento assieme alla madre, il cui clan era invece di umili origini. Aimi la definiva con disprezzo una ‘nobile impoverita’ ed una volta aveva pure deriso Asuma, definendolo uno scemo a sposare una donna di umili origini, e dichiarando malignamente che la morte era stata la giusta punizione per i suoi errori. A quel punto, la Sarutobi non ci aveva visto più e le era saltata semplicemente addosso, dando vita alla migliore rissa che l’Accademia avesse mai visto dai tempi di Uzumaki Naruto e Uchiha Sasuke. Il risultato finale era stato un pareggio, ma da allora non era passato giorno che le due ragazzine non si fissassero in cagnesco, promettendosi di chiudere definitivamente, in un futuro prossimo, la questione rimasta in sospeso.

Il pensiero di dover collaborare con colei che aveva offeso suo padre, il ninja a cui si ispirava con tutta se stessa, era tremendo. Si chiese per quale motivo i loro insegnanti avessero permesso una cosa simile, dopo tutto quello che era accaduto durante il loro percorso in Accademia.

Forse vogliono farci fare pace… il pensiero fu così stomachevole che storse la bocca in un conato immaginario. Preferiva pulire il sedere per un anno di fila al suo fratellino Shikadai, piuttosto che fare pace con quella smorfiosa. La rabbia era così forte che le tornò fame, costringendola a scartare la prima merendina, che finì in modo poco signorile nella sua bocca in un sol boccone.

“Non dovresti abbuffarti in questo modo di dolciumi.” osservò una voce bassa e monotona alla sua sinistra. “È un modo sicuro per avere qualche carie.”

Ci mancava solo lui! Mirai sbuffò, impegnata ad inghiottire l’enorme pezzo di cioccolata e pan di spagna. Il proprietario della voce, un ragazzino minuto, infagottato in una giacca grigia, si limitò a sistemarsi delle lenti scure sugli occhi, preferendo non fare ulteriori commenti in merito alla dieta della compagna.

Shigeru Aburame… la Sarutobi si cacciò in bocca una seconda merendina, spostando la propria rabbia dall’arrogante Aimi al silenzioso Shigeru, il ragazzo intabarrato, il terzo elemento della sua squadra.

Shigeru non era un ragazzo antipatico, ma come tutti gli Aburame possedeva una personalità particolare. Poco disposto a dare confidenza, Shigeru era stato per anni una figura inquietante della classe di Mirai, preferendo dare la caccia agli insetti nella foresta piuttosto che socializzare con i propri compagni. La Sarutobi aveva appreso da suo zio Shino che il clan Aburame era diverso dagli altri, in quanto i suoi membri erano amanti delle foreste, e tolleravano poco la rumorosità del complesso urbano di Konoha. Tuttavia, il maleducato silenzio di Shigeru era distante anni luce dalla gentilezza e dall’amore che Shino riversava sulla nipote adottiva, la quale era incapace di comprendere come due persone appartenenti allo stesso clan potessero essere così diverse.

Aimi Yogonuchi e Shigeru Aburame. Neanche nei suoi peggiori incubi Mirai aveva pensato di fare team con i due elementi peggiori della sua classe e l’idea di dover collaborare con loro per superare l’esame dei Chuunin le appariva come una chimera. Era più facile che vedesse suo zio Shika uscire dall’ufficio in mutande, mentre cantava serenate d’amore alla moglie.

Con il sopraggiungere del primo Sensei, nell’aula venne un silenzio di tomba, ognuno con il cuore in gola nel cercare di capire chi sarebbe stato il proprio insegnante. Anche Mirai le prime volte divenne nervosa, ma con il passare del tempo, quando una alla volta tutte le squadre venivano assegnate, il nervosismo fece spazio all’irritazione. Se il proprio Sensei era una persona così ritardataria, non poteva essere niente di buono.

“Bella roba!” borbottò Aimi, quando ormai erano rimasta solo la loro squadra in un’aula deserta. “Un Sensei insulso e una stracciona! Non poteva capitarmi sciagura peggiore!”

Mirai socchiuse gli occhi, cercando di contenersi. Non sarebbe stato il massimo dare vita ad una rissa in quel preciso istante, tanto più che sua madre era stata molto chiara sull’argomento: se avesse di nuovo fatto a botte con qualcuno, doveva aspettarsi come minimo una punizione di sei mesi.

“Del resto, non c’è da sorprendersi.” proseguì la kunoichi bionda, lanciando un’occhiata malevola nei confronti della sua rivale. “Avranno voluto assegnarci qualcuno che non facesse sfigurare la figlia di un morto.”

Ora basta! con le orecchie fumanti di rabbia, Mirai si alzò, in procinto di gonfiare di botte quell’arrogante figlia di papà, quando la porta si aprì di colpo, bloccando sul nascere i suoi propositi di omicidio violento.

La figura che entrò era diversa da tutte quelle venuta fino a quel momento, distante anni luce dalle fantasie degli ultimi giorni della Sarutobi, la quale non seppe assolutamente cosa pensare.

La donna che era appena entrata era bassa e minuta. Teneva lunghi capelli neri raccolti in una coda che le arrivava fino a metà schiena. Aveva un bel volto, seppure contratto in un’espressione gelida, con due occhi di un colore chiarissimo, quasi trasparenti, che mettevano i brividi solo a fissarli per qualche secondo. Indossava degli stivali neri dalla suola rialzata, pantaloni mimetici, mezziguanti scuri ed una maglietta bianca senza maniche. Sul braccio sinistro, vicino alla spalla, brillava il simbolo di Konoha.

Nel silenzio dell’ambiente, la kunoichi raggiunse con passo indolente la cattedra, fissando il foglio delle presenze dove mancava solo la sua firma. Le sue labbra divennero una piega inespressiva mentre firmava con rapidità, per poi piantare il proprio sguardo di ghiaccio sui tre ragazzini che la fissavano nervosi, in attesa che dicesse qualcosa.

“Seguitemi.” ordinò con voce fredda, lasciando a passo svelto l’aula, insinuando nei propri studenti un senso di vago disagio. Nessuno di loro, neppure il freddo Shigeru poteva infatti negare che, come primo incontro, era stato una delusione tremenda.

 

 

Hanabi era di pessimo umore. Il fatto che il mal di testa avesse ricominciato a rintronarle il cervello non l’aiutava a calarsi nel suo nuovo ruolo. Ruolo che sentiva di detestare caldamente, fin dal primo momento.

Alla Hyuga era bastata un’occhiata per capire il carattere dei tre elementi a cui avrebbe dovuto fare da balia da quel giorno in avanti. Le due ragazzine erano arroganti e impulsive, gente che sarebbe morta nella missione più semplice se non si fosse data una calmata, mentre l’altro moccioso non sembrava nulla di che. Il classico Aburame cupo e scontroso, deciso più che mai a muoversi da solo piuttosto che fare squadra con le altre due galline. Un comportamento che, sotto molti aspetti, Hanabi capiva e comprendeva.

Cosa dovrei fare con questi pivelli? rimuginò, una volta fermatasi sulle rive del fiume ad osservarli. Dannato Kakashi!

“Dunque, vediamo come potrei dirlo…” esordì, incrociando le braccia. “Usare un termine banale come odio non sarebbe capace di abbracciare appieno la mia attuale sfera emotiva. Quindi ho deciso di inventare una nuova parola.” rivolse i propri occhi verso i tre ragazzini, sfoderando l’espressione più seria che possedeva. “Io vi megaodio.”

Il silenzio che seguì fu tremendamente imbarazzante.

“Dunque, messe in chiaro come stanno le cose, passiamo alle baggianate.” proseguì la kunoichi. “Il mio nome è Hanabi Hyuga, e mi hanno assegnata come vostro insegnante dato che, a quanto pare, voi sareste dei ninja adesso…” prese a sorridere sarcasticamente. “Tutte stronzate.”

“Voi non siete ninja, siete bambocci che sanno appena sciorinare quel poco di teoria sufficiente a rendere felici i professori dell’Accademia. Ora come ora non riuscireste neanche a compiere la missione più semplice, a meno che tale missione non consista nel fallire la missione.”

Mirai prese ad agitarsi sul posto. La sorpresa stava lasciando posto alla delusione, mista però a rabbia. Come si permetteva quella donnina striminzita di definirla una bamboccia? Fece per ribattere, ma Hanabi era troppo smaliziata per farsi prendere in contropiede.

“So quello che stai per dire: come si permette di definirci bambocci?” la Hyuga tramutò il sorriso di derisione in un ghigno mefistofelico, le iridi che brillavano di malizia. “Vi darò la dimostrazione di ciò domani. Voglio che vi presentiate all’alba al campo di addestramento numero otto, con tutte le armi che possedete. Sarà un piccolo test che ci consentirà di conoscerci meglio.” la mora fece per andarsene quando sembrò ricordarsi di una cosa. “Ah, quasi dimenticavo. Vi è severamente proibito fare colazione prima di venire al campo. E fidatevi se vi dico che lo saprò se addenterete anche solo una briciola di pane.”

Se ne andò a passo svelto, desiderosa solamente di mettersi a letto per cercare di dimenticare il mal di testa che l’affliggeva. Mentre si dirigeva verso casa, il suo sguardo cadde sui nomi dei suoi tre allievi. Conosceva abbastanza bene il clan Aburame, in quanto molti suoi membri erano elementi rinomati dentro gli Anbu. Gli Yogonuchi le erano noti solo per sentito dire, dato che si diceva fossero una delle famiglie più ricche di tutto il villaggio, benché non annoverassero tra le loro fila ninja degni di nota. Tuttavia, il suo pensiero rimase molto più a lungo sul terzo nome della lista, un nome che aveva già sentito e che si era legato alla sua vita in maniera molto più intensa di quanto desiderasse ammettere.

Mirai Sarutobi… quando giunse a casa si accorse di non avere più male alla testa, persa com’era nel rimembrare tutti i momenti piacevoli passati con il suo ex fidanzato, riuscendo perfino a sbollire la propria rabbia. Si chiese quale fottuto scherzo del destino avesse deciso che toccasse a lei prendersi cura di sua cugina, e perché la cosa le provocasse un simile rimescolamento di emozioni dentro lo stomaco.

“Già di ritorno?” la voce allegra di Kabera la riscosse dai propri pensieri. “Com’è andata?”

Hanabi si sciolse il copri fronte dal braccio, sedendosi con un profondo respiro su una sedia in cucina.

“Non male.” rispose infine, tornando a fissare il nome di Mirai sulla lista. “Chissà… domani potrei rimanere sorpresa.”

E nonostante tutto, lo sperava veramente.

 

 

Caldo. Percepiva un profondo caldo attorno a sé, quasi esistesse un morbido velo che gli permettesse di rimanere isolato dal resto del mondo. Una sensazione che desiderava fin troppo spesso negli ultimi anni.

Dovrei essere al lavoro in questo istante. 

Quel pensiero gli diede la forza di alzarsi. Si passò le mani sul viso, mentre l’occhio gli cadeva alla sua destra, dove riposava la sua donna. Era strano vederla così rilassata e pacifica, come se nessuno dei suoi incubi potesse più toccarla. Le sfiorò il volto con l’indice, sentendosi improvvisamente vecchio, chiedendosi quanto potesse essere ridicolo lasciarsi a simili cose alla sua età, o se tutto ciò fosse dovuto al fatto che la sua giovinezza era volata via fin troppo presto, in un vortice di dolore e sangue.

Scosse la testa, decidendosi infine di uscire dal letto, quando la voce di lei lo bloccò.

“Kakashi…” Anko miagolò come una gatta, soffocando uno sbadiglio. La kunoichi aprì gli occhi, mentre il primo sorriso beffardo della giornata le si dipingeva sul viso. “Dove stai andando?”

L’albino sospirò. Erano ormai rare le serate in cui poteva dimenticarsi di essere l’Hokage, dove poteva lasciare da parte mantello e cappello per essere solo Kakashi Hatake, ninja e uomo di Konoha. Un piacere peccaminoso a cui faceva sempre più fatica a rinunciarci.

“Sono l’Hokage.” mormorò, rimettendosi la maschera. Era raro che si scoprisse il volto, ma lui per primo trovava fastidioso tenerla quando usava il letto per qualcosa di diverso dal sonno. “Non posso passare la mattinata a dormire.”

“Mmm…” due dita birichine presero a solleticargli la spina dorsale, accarezzando dolcemente le cunette create dalle vertebre. “Preferire delle scartoffie noiose a del buon sesso con la tua donna… potrei diventare gelosa.”

“E quando mai non lo sei?” percepì le unghie scavargli nella carne, mentre i denti di lei presero a marchiargli il collo.

“Dì la verità…” la voce della kunoichi era un caldo sussurro nelle sue orecchie, un dolce richiamo verso una pace che, in fondo, sapeva di non meritarsi. “Tu non vuoi tornare in quell’ufficio polveroso per lavorare… vuoi altro, non è vero?”

“Ci sono molte cose che mi piacerebbe fare.” mormorò Kakashi. “Ma poche di queste sono realizzabili.”

L’amarezza della sua voce fermò Anko dai suoi propositi. Non c’era dolore o disperazione nella figura dell’Hokage, quanto più una sordida rassegnazione. I suoi cari erano tutti morti, e l’unico amico che gli era rimasto era un allegro infermo con cui trascorreva le poche serate libere che il suo lavoro gli concedeva. A volte, l’Hatake si domandava chi glielo facesse fare di continuare a rimanere in carica. Aveva alle spalle già parecchi anni di onorato servizio, e nessuno l’avrebbe accusato di codardia se si fosse tolto il cappello dalla testa, consegnandolo a Naruto e avesse iniziato a trascorrere le proprie giornate in compagnia di Gai, rimembrando la loro giovinezza e i loro amici defunti, bevendo assieme una coppa di saké in loro onore.

Era il corso della vita, qualcosa a cui Kakashi non poteva, né voleva, opporsi.

“Kakashi…” Anko appoggiò la testa sull’incavo del collo del suo uomo, lo sguardo perso in ricordi lontani. L’albino le afferrò la mano, capendo cosa avevano risvegliato le sue parole in lei. Qualcosa che forse non sarebbe mai sparito, neanche dopo cent’anni.

“Avresti mai detto che sarebbe finita così?” mormorò la Mitarashi. “Due vecchi ruderi che si supportano a vicenda?”

L’Hokage non rispose subito. Ripensò ad Obito, Rin, Minato, suo padre, Asuma e tutti gli altri che nel corso della sua vita aveva visto svanire, uno dopo l’altro. Rivide davanti a sé, come se fosse avvenuto pochi istanti prima, il sorriso di Gai quando aveva deciso di dare la propria vita per salvare tutti loro. Si chiese, come sempre, quale fosse stato il motivo che aveva spinto lui così lontano rispetto agli altri. Perché proprio lui? Colui che più di tutti aveva sbagliato nella propria vita? Cos’era che gli aveva permesso di sopravvivere?

Ho incontrato Naruto. Quel pensiero lo colpì con la potenza di un tornado, facendogli comprendere che era stato il suo vecchio allievo a salvarlo, a permettergli di diventare ciò che era. Un mero capriccio del destino che non aveva risparmiato invece Asuma, a suo vedere un uomo, ed un insegnante, migliore di lui sotto tutti i punti di vista.

A volte basta un semplice incontro a cambiare tutto. 

“La storia non ha mai fine, Anko.” rispose infine. “Sono solo i protagonisti a cambiare.”

E dentro di sé, l’Hatake sperava ardentemente che quel giorno un nuovo Naruto ed un nuovo Kakashi si stessero incontrando, permettendo alla nuova generazione di iniziare a scrivere la storia del loro paese con le proprie mani.

 

 

Mirai era delusa. Nel giro di qualche ora era passata dall’eccitazione più intensa alla delusione più atroce. Scoprire che il suo Sensei altri non era che una donnina acida e scortese l’aveva riempita di dubbi sul suo futuro. Si chiese se fosse possibile cambiare insegnante e se Hanabi fosse realmente capace di renderla un ninja migliore, permettendole di raggiungere il suo obiettivo. Le risposte a cui giungeva, per quanto si lambiccasse, erano sempre pessimiste, guastandole ulteriormente l’umore.

Fantastico… proprio fantastico! La mia squadra comprende lo strambo dell’Accademia, l’egocentrica odiosa e un’insopportabile donnetta acida.

Tirò un calcio ad un sasso, cercando di sfogare la propria rabbia. Per un istante pensò di andarsi ad allenare in vista del test del giorno dopo, ma era troppo arrabbiata, presa com’era ad insultare mentalmente Hanabi Hyuga ed i suoi modi sgarbati e freddi.

Dopo essere passata per casa, dove Kurenai scoppiò a ridere nel sentire chi fosse l’insegnante della figlia aumentando ulteriormente il fastidio di quest’ultima, Mirai decise di andare a trovare il suo fratellino. La sua idea iniziale di allenarsi in vista del test era stata subito smontata dalla madre, la quale le aveva detto che sarebbe stato del tutto inutile.

“Ma allora tu sai in cosa consiste?”

“Chissà!” le aveva risposto con un sorriso enigmatico la genitrice. “Lo vedrai domattina. Ora fila subito a fare la brava sorella maggiore!”

Dieci minuti dopo, con la sgradevole sensazione di star buttando via la giornata, Mirai bussò alla porta di casa Nara, preparandosi a passare un po’ di tempo con il piccolo Shikadai.

Quando la porta si aprì, una lama si mosse rapida come un serpente, cogliendola totalmente impreparata, fermandosi soltanto ad un centimetro dalla sua gola.

“Ah…” borbottò Temari, ritraendo il coltello con un guizzo del polso. “Sei tu.”

“B-buongiorno Temari-san.” balbettò la ragazza, ancora convinta di essere sul punto di navigare lungo il fiume Stige.

“Perdonami.” proseguì con tono secco la kunoichi, lasciandola entrare. “Ero convinta che fossi uno di quei stramaledetti venditori ambulanti.”

“Capisco.” Mirai provò a calmare la propria tremarella, fallendo miseramente. Per quanto fosse abituata ai modi bruschi della moglie del padrino, certe cose la riducevano sempre ad un fascio di nervi palpitante.

“Se sei venuta in cerca della Disgrazia, è in salotto che dorme… tanto per cambiare.” borbottò la kunoichi di Suna.

Mirai si tolse subito le scarpe, correndo nella stanza affianco, alla ricerca del suo fratellino. Shikadai Nara era seduto sul divano, la schiena stranamente rigida, il volto rivolto verso il televisore acceso su un ridicolo programma di satira. Teneva gli occhi socchiusi, il pollice destro ben stretto tra le labbra, lo sguardo perso e sognante. A prima vista poteva sembrare annoiato, ma la ragazzina sapeva che il bambino stava solo cercando di capire se quel programma in tv fosse di suo gusto oppure no.

“Buh!” con un balzo, Mirai afferrò il fratello, iniziando a girare su se stessa, fino a quando non cadde a terra, godendosi l’espressione infastidita del piccolo Nara.

“Seccatura.” borbottò il bambino. “Lascia in pace!”

“Non sono una seccatura.” lo redarguì la Sarutobi, facendo toccare i loro nasi. “Per te sono Mirai-oneesan.”

“Seccatura.”

“No, ti ho appena detto che sono Mirai-oneesan!”

“Sei seccatura per me.”

Mirai si mise a sedere, tenendo stretto il fratello tra le braccia il quale, pur non apprezzando quel gesto, non tentò minimamente di divincolarsi. Era il bambino più pigro che la giovane kunoichi avesse mai incontrato, e spesso potevano passare ore prima di vederlo muovere anche un solo dito.

“Sei proprio un cattivo fratellino!” esclamò la mora, iniziando a fargli il solletico dappertutto. “E i fratelli minori cattivi vanno puniti!”

“No!” Shikadai tentò di divincolarsi, ma il pigiama azzurro che indossava non lo aiutava, senza contare che la presa della Genin era dura come l’acciaio. Il Nara iniziò a ridere, mentre le dita birichine della sorella non gli davano tregua, fino a quando Mirai non decise che la punizione era stata sufficiente.

“Allora!” esclamò la ragazzina, dando un bacio sulla fronte del bambino. “Chi sono io?”

“Seccatura.” borbottò l’altro, per nulla felice di essere stato costretto ad una dose massiccia di solletico.

“Sei proprio cocciuto! Cosa devo fare per farmi chiamare Oneesan?!”

“Lasciarmi in pace… seccatura!”

Mirai gli fece una linguaccia, mentre riprendeva a fargli il solletico, interrompendosi ogni tanto per rifargli la stessa domanda, ma la risposta del bambino non cambiava mai.

“Sei una seccatura.”

“E tu un testone!” esclamò alla fine la Sarutobi, sospirando. “Noi siamo fratelli, quindi mettitela via, capito?”

Shikadai non replicò, ormai sfinito dalla lunga lotta di solletico. Sbadigliando, il piccolo Nara si accasciò sul petto della sorella maggiore, cadendo subito in un sonno profondo.

“Seccatura…” borbottò nel dormiveglia.

E nonostante tutto, Mirai sorrise. Stare con il suo fratellino riusciva a donarle una splendida calma, permettendole di dimenticare la delusione dell’incontro con il suo Sensei.

Un giorno mi chiamerà Oneesan… ne sono convinta.

 

 

Ore dopo, quando ormai stava calando la notte e Temari aveva iniziato a preparare la cena, uno sfatto Shikamaru fece il suo ingresso in casa, annunciato dall’odore di nicotina dell’onnipresente sigaretta che teneva mollemente tra le labbra.

“Sono a casa…” borbottò. Strascicò i piedi fino al salotto, gettò sul divano la giacca e si lasciò cadere in maniera scomposta sulla propria poltrona preferita, emettendo un sospiro di piacere.

“Zio!” Mirai giunse di corsa in salotto, andando a mettere un braccio attorno alle spalle del padrino, un sorriso gioioso sul volto. Aveva passato le ultime ore a giocare con Shikadai, per poi aiutare Temari in cucina con il piccolo, ma il ritorno del capofamiglia Nara significava solo una cosa: quella sera avrebbero giocato a Shogi.

“Ti vedo in forma, Mirai.” esordì Shikamaru, soffocando a stento uno sbadiglio. “Come è andato il primo giorno da Genin? Hanabi vi ha ridotto in mucchietti di ossa doloranti?”

Il sorriso svanì dal volto della kunoichi, dando spazio ad un’espressione offesa.

“Tu lo sapevi!” accusò il padrino. “Sapevi che mi avrebbero dato come insegnante quella donna orrenda e non hai mosso un dito!”

“A volte sospetto che tu mi sopravvaluti…”

“Perché hai permesso che fosse lei il mio Sensei? Con lei non riuscirò mai a diventare un grande ninja!”

“Deduco che il vostro primo incontro non sia andato bene.”

“Finalmente l’hai capito!” proseguì la mora, sempre più frustrata ed arrabbiata nel ricordare il deludente incontro di quella mattina. “È arrogante, dispotica, antipatica, scontrosa e…”

“Frena la tua dolce lingua.” la prese in giro il Nara, soffiando fumo dalle narici. “Tieni questa rabbia per dopo. Mi auguro che stasera riuscirai ad usare una tattica quantomeno interessante…”

“Ho avuto gli esami nei giorni scorsi.” si difese la Sarutobi, consapevole di non essersi mai esercitata nell’ultima settimana. Raramente quelle scuse funzionavano con Shikamaru, ma quella sera lo shinobi delle ombre pareva troppo stanco per mettersi a rimproverare la figlioccia.

“Vedremo dopo cena.” con un gemito, il moro si alzò dalla poltrona, buttando il mozzicone in un posacenere lì vicino. “Adesso vediamo cosa ha preparato la mia dolce metà…”

Durante la cena, Mirai si divertì un mondo, come sempre, nel vedere il padrino e sua moglie beccarsi in continuazione su ogni cosa. Sembrava impossibile che due persone così diverse, che apparentemente non si sopportavano minimamente, avessero deciso di mettere su famiglia.

“Potevi almeno lavarti la faccia prima di venire a mangiare.” lo redarguì seccamente la kunoichi, le iridi cerulee che bruciavano di rabbia. “Puzzi di sigaretta da fare schifo.”

“Cerco solo di assomigliare alla tua alitosi mattutina.” replicò serafico l’uomo, cacciandosi pigramente in bocca un grosso pezzo di trota affumicata.

“È il mio metodo per tenerti lontano almeno quando mi sveglio.”

“Non serve. Mi basta guardarti in faccia per scappare a gambe levate.”

“Si può essere più stronzi di te?”

“Si può avere un culo più grosso del tuo?”

Successivamente, Temari colpì con un pugno in faccia il marito, scaraventandolo al suolo, il tutto mentre Mirai cercava di soffocare le risate nella purea di funghi.

“Ho fatto dei dolcetti oggi, ne vuoi uno?” domandò subito dopo la kunoichi bionda al marito, ignorando il fatto che quest’ultimo stesse ancora contorcendosi al suolo per il dolore.

“Sarebbe meraviglioso…” gracchiò cupamente quest’ultimo, rialzandosi, sul volto un grosso livido violaceo.

“Ottimo.”

 

 

“Zio Shika…”

“Sì?” borbottò il Nara, ancora intento a massaggiarsi la parte lesa.

“Perché hai deciso di diventare un ninja?”

Era un quesito che l’assillava da settimane ormai. Come mai Shikamaru, l’uomo più pigro che conoscesse, aveva deciso di diventare uno shinobi, un guerriero? Mirai aveva letto centinaia di volte le storie riguardanti le imprese del padrino durante la Grande Guerra, ma faceva davvero fatica a collegare quel sarcastico fumatore alla figura del geniale tattico, capace di mantenere unito l’esercito dei ninja durante lo scontro con il Juubi.

“Per pagarmi gli antidepressivi che mi tengono così allegro.” fu la risposta sarcastica dello shinobi delle ombre, mentre decideva di accendersi l’ennesima sigaretta della giornata.

“Zio…”

Shikamaru sospirò. Si trovavano nel suo studio, seduti per terra, intenti a giocare a Shogi, come ogni mercoledì sera. Tuttavia, quella volta la giovane Sarutobi non era veramente interessata alle pedine ed alle tattiche che si celavano dietro. Il suo padrino sembrò capirlo, visto che anche lui non si impegnava eccessivamente, comprendendo che quell’incontro sarebbe servito a parlare, piuttosto che a giocare.

“Non c’è un vero motivo.” borbottò, muovendo intenzionalmente un pedone in modo da lasciare un varco per l’alfiere avversario. “Le persone cambiano… e ciò che ti spinge a studiare ed allenarti ogni giorno a vent’anni può non essere ciò che ti spingeva a farlo a dodici.”

Mirai non rispose. Mosse l’alfiere nel varco appena apertosi, ma si accorse, con un istante di ritardo, la trappola che si celava dietro: il re di Shikamaru non ebbe alcuna pietà nel catturare la sua pedina.

“Quindi ora è qualcosa di diverso che ti spinge a fare il tuo lavoro?” domandò. “Qualcosa di diverso rispetto a quando avevi dodici anni?”

Il Nara aspirò silenziosamente una boccata di fumo, la mente invasa da ricordi frammentati della propria infanzia, un mondo che ormai non esisteva più. Si sentì terribilmente vecchio, nonostante continuasse a ripetersi che non aveva neanche trent’anni.

“Sì.” fu la sua laconica risposta. “Sono poche le persone che riescono a rimanere coerenti, e questo perché il più delle volte le loro convinzioni poggiano su basi errate.” il sorriso gioioso di Naruto riempì la sua mente, facendolo sorridere amaramente. “Per fortuna… esistono le eccezioni.”

La kunoichi mora lanciò un’occhiata perplessa in direzione del tutore. Era sempre così quando parlava con Shikamaru: enigmatico, sarcastico, irritante… pareva odiasse parlare chiaro, quasi trovasse tremendamente faticoso spiegare nei dettagli il significato dei propri discorsi.

“Credi che le mie motivazioni cambieranno in futuro?” mormorò, quasi sperasse di non ricevere risposta. Aveva spesso la sensazione che il suo padrino la considerasse ancora una bambina, e il fatto che si rifiutasse di spiegarle molte sue affermazioni rafforzavano questa convinzione.

“Dipende da te.” il Nara mosse un cavallo, mettendo pressione alle difese nemiche. Era deciso a vedere se la figlioccia avrebbe puntato sull’evitare lo scontro, oppure se avrebbe caricato a testa bassa per riguadagnare il terreno perduto. “Ho sempre preferito evitare di inculcarti stupide ideologie, perché voglio che tu ragioni con la tua testa.” osservò la mossa della ragazzina in silenzio, il volto che non lasciava trasparire alcune emozione. “Non mi importa niente che tu decida di dedicare la tua vita a quella o quest’altra causa, ma voglio che tu possa viverla senza alcun rimpianto, in modo da poterti guardare sempre allo specchio a testa alta.”

“Vorrei essere come mio padre.” sussurrò lei, sentendosi il cuore in gola. “Mi piacerebbe diventare come lui.”

Shikamaru si grattò la testa, effettuando uno sbadiglio. Quella sera la strategia languiva sulla scacchiera, pertanto gli era difficile rimanere concentrato per più di qualche secondo.

“Se vuoi diventare come lui, allora significa che per prima cosa dovrai capire veramente che persona era.” replicò, muovendo un Generale D’oro. “E comprendere se è questo ciò che veramente vuoi.”

“Come faccio a capirlo? Lui non c’è più…”

“Puoi capire moltissimo di persone che ormai non sono più in vita.” un’altra mossa, una delle ultime di una partita piuttosto deludente. “Non vedo perché tuo padre dovrebbe essere un’eccezione.”

La kunoichi ebbe un moto di rabbia nel sentire l’ennesima frase criptica del tutore. Mosse con stizza il cavallo, attaccando ferocemente, decisa a sfogarsi attraverso le pedine.

“Tanto è inutile parlarne.” borbottò acidamente. “Con i compagni che ho, e l’insegnante che mi avete dato, non riuscirò mai a diventare un vero ninja.”

Shikamaru si fermò di colpo, nell’intento di mettere fine alla partita con un’ultima mossa. Tenne sospesa la propria pedina a mezz’aria, mentre i suoi occhi si spostarono dalla scacchiera al volto della figlioccia, scrutandola freddamente.

“Non osare dire mai più una cosa del genere.”

“Perché non dovrei? Quella donna non sarà mai capace di insegnarmi qualcosa! Senza contare che i miei compagni sono dei presuntuosi incapaci! Come posso diventare Chuunin se sono in squadra con gente come…”

“Mirai!” il Nara alzò il proprio tono di voce, facendolo diventare freddo e minaccioso. “Se non diventerai un Chuunin la colpa sarà soltanto tua. Non osare mai incolpare gli altri dei tuoi insuccessi, mi sono spiegato?”

La ragazza rimase immobile, intimidita da quello sguardo di ghiaccio. Era la prima volta che sentiva il suo padrino alzare la voce e fu qualcosa di sconvolgente. Era come se Shikamaru avesse alzato la propria maschera per un istante, mostrandole il volto del freddo e spietato tattico militare.

“Se desideri diventare una vera donna, dovrai sempre farti carico delle tue colpe.” proseguì con tono più dolce lo shinobi. “Tutti hanno le proprie croci, Mirai… non essere così vigliacca da gettarle addosso agli altri.”

Mise giù la pedina, sancendo così la fine della partita.

“Vai a letto, domani devi alzarti presto.” il Nara la salutò arruffandole i capelli, lasciandola successivamente sola con i propri pensieri, incapace di trovare requie dopo le ultime parole del tutore.

 

 

Le solleticò il volto con l’indice, godendosi del calore che percepiva da quel corpicino caldo, incapace di smettere di fissarla.

“Guarda che non scappa mica.” la prese in giro Naruto.

Hinata strinse al petto la piccola Himawari, fissando trucemente il marito.

“È mia.” dichiarò con voce fintamente severa. “L’ho fatta io, e quindi decido io quando metterla giù.”

“Dovresti riposarti, piuttosto.” la rimproverò dolcemente l’Uzumaki. “La piccola starà bene anche quando ti risveglierai.”

“Te l’ho già detto.” rispose la mora, sorridendogli. “Ogni giorno va meglio. La migliore medicina è restare in vostra compagnia.”

“Non credo che Sakura-chan sarebbe d’accordo.” borbottò il biondo.

Hinata scoppiò a ridere, subito imitata dal compagno.

Era passata una settimana da quando Himawari era nata. Hinata si trovava ancora in ospedale, ma la data del suo congedo si avvicinava sempre di più. In quei giorni, la Hyuga aveva iniziato ad avere un attaccamento morboso verso la piccola, come avevano potuto notare Naruto ed Hanabi. Sembrava che tutte le sofferenze patite avessero unito madre e figlia, tramite un legame che nessun’altro poteva comprendere. Nonostante le giornate frenetiche, passate tra l’ufficio, casa ed ospedale, Naruto si sentiva leggero e felice come non accadeva da tempo. Sua moglie e la sua bambina stavano bene e presto sarebbero tornate a casa da lui e dal piccolo Boruto. Onestamente, anche desiderandolo, lo shinobi non avrebbe saputo cosa fare per essere più felice.

“Mi auguro che quando tornerete a casa riuscirai a staccarti da lei per qualche secondo.” la prese in giro, osservando la moglie cullare la figlia con tutta la delicatezza possibile.

“Ed io mi auguro di tornare in una casa pulita.” replicò la mora.

“L’altra volta era pulita!” si difese Naruto, parlando della prima gravidanza.

“Ah sì? E allora cos’erano tutte quelle ragnatele sul soffitto?”

“Servivano da sostegno per evitare che il tetto crollasse.”

Hinata sbuffò ma preferì proseguire ad accarezzare la figlia, piuttosto che dare retta agli scherzi del marito. C’era qualcosa di meraviglioso nello stare lì, immobile, a fissarla dormire. Riusciva a farla stare meglio, alleviandole i dolori e la fatica accumulata nei mesi precedenti. Himawari era poi una bambina strana, diversa dal fratello maggiore: era raro che piangesse, e il più delle volte dormiva anche otto ore di fila, senza interrompersi per bisogni fisiologici o per mangiare. Anche il nome che il marito le aveva dato suonava strano, quasi straniero. Hinata aveva chiesto un paio di volte il perché dietro a quel nome, ma l’Uzumaki si era sempre difeso definendolo un nome come un altro e la kunoichi aveva preferito credergli, piuttosto che dare vita ad un litigio che sapeva non avere la forza di sorreggere.

Naruto scosse la testa, sorridendo, mentre vedeva la moglie proseguire nelle coccole ad Himawari. Si alzò, con l’intento di fare due passi per il corridoio quando, aprendo la porta, si trovò di fronte Hazuba Hyuga.

“Sto cercando mia nipote.” nessun saluto o sorriso. Il bel volto della kunoichi rimase impassibile, i freddi occhi chiari che squadravano con disgusto l’uomo che aveva di fronte.

Naruto non seppe cosa dire. Aveva sentito parlare della terribile nonna di sua moglie, una donna capace di mettere in buona luce un elemento sgradevole come Danzo, ma trovarsela di fronte, senza alcun preavviso, lo prese in contropiede.

“Ti ho fatto una domanda… Jinchuuriki.” il disprezzo era intriso in ogni singola sillaba che gli rivolgeva. Non c’era alcun dubbio che quella donna gli avrebbe conficcato un pugnale nella gola alla prima occasione.

“Kurama.” percepì l’amico sollevare la testa, gli occhi scarlatti vigili, teso come prima di uno scontro. “Tieniti pronto.”

“Io sono sempre pronto, moccioso.”

“Si accomodi.” lo shinobi si fece da parte, permettendo all’anziana Hyuga di entrare nella stanza. Non appena Hinata la vide, i suoi occhi si spalancarono, percependo uno spiacevole groppo in fondo alla gola. Da quando si era fidanzata con Naruto, Hazuba si era rifiutata di rivolgerle la parola, ritenendola indegna di essere sua parente. Ora, dopo oltre cinque anni, era lì, di fronte a lei, le iridi glaciali che per anni avevano popolato i suoi incubi erano di nuovo dentro la sua vita.

“Hazuba-sama…” mormorò. “E’… una sorpresa. Non l’aspettavo.”

Hazuba si sedette, la schiena perfettamente dritta. Non disse nulla, limitandosi a rivolgere uno sguardo glaciale in direzione di Naruto, quasi si aspettasse che quest’ultimo uscisse.

“Mi dispiace, ma se ha intenzione di parlare con mia moglie, io resto.” fu la secca replica dello shinobi, incrociando le braccia con fare bellicoso.

“Naruto-kun.” la voce della moglie lo colpì come una sferzata, pur rimanendo estremamente bassa. “Esci, per favore.”

“Ma…”

“Ti prego… vai fuori.” il tono della kunoichi non ammetteva repliche.

Riluttante, Naruto uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Tuttavia, una volta fuori, non esitò ad appiccicare l’orecchio alla serratura, guadagnandosi più di un’occhiataccia da parte delle infermiere di passaggio.

“Dunque…” Hinata strinse inconsapevolmente con maggiore forza al petto la figlia, tentando di riordinare le idee. “Di cosa voleva parlarmi?”

“Desideravo vederti.” rispose Hazuba. “Dopo cinque anni, credo che sia giunto il momento di porre fine a questo sciocco dissapore che ci divide.”

“Sono lieta che siate giunta a questa conclusione…” nonostante la kunoichi continuasse a ripetersi che lei era un’adulta, c’era qualcosa in Hazuba che la faceva tornare una bambina piccola, sola e profondamente indifesa, accusata da tutti di essere nient’altro che un fallimento del clan Hyuga.

“Io e te, Hinata, abbiamo idee profondamente diverse.” proseguì con tono secco l’anziana kunoichi. “Posso capirlo. Dopotutto, siamo cresciute in contesti differenti, ed è normale che la nostra società cambi, per restare al passo con i tempi.” il volto stranamente giovanile di Hazuba si contrasse, quasi non credesse neanche lei a ciò che stava dicendo. “Tuttavia, io penso che senza solide basi… ogni cambiamento possa alla lunga essere dannoso.”

“Quindi… quali sarebbero le basi che lei considera imprescindibili?”

Un sorriso di rara dolcezza si dipinse sulle carnose labbra di Hazuba, rendendola ancora più affascinante.

“Sono lieta di sentirti parlare in questo modo, mia cara.” continuò con tono leggermente più caldo. “Vedi… io credo che sia indispensabile, per mantenere l’ordine sociale, dare una guida forte alla nostra comunità. Una guida che possa occuparsi a tempo pieno dei problemi del nostro popolo, non sei d’accordo?”

“Sì.” sospirò la Hyuga più giovane, iniziando a capire dove intendesse andare a parare la parente. “Penso che ci sia saggezza in queste parole, ma sarebbero molto più convincenti se lei ci credesse veramente, Hazuba-sama.”

Il sorriso della donna si incrinò, mentre una fiamma prese a brillare nei suoi occhi.

“Vedo che tuo padre ti ha cresciuta con troppi pregiudizi nei miei confronti.”

“Non è stato mio padre.” rispose con tono calmo, ma fermo, la mora. “Sono stati i miei amici. Gente che lei disprezza in quanto ‘impuri’.”

Il sorriso sparì del tutto dal volto di Hazuba.

“Fedele fino in fondo al proprio padrone...” sibilò con tono velenoso, gli occhi brucianti di collera.

“No, Hazuba-sama.” replicò nuovamente Hinata, lo sguardo duro quanto quello della parente. “Io non ho padroni, ed è questo che la disturba così profondamente da portarla addirittura qui da me dopo cinque anni: il desiderio di farmi diventare il suo cagnolino.” anche la voce della kunoichi più giovane diventò fredda e spietata. “Non lascerò la mia eredità nelle mani di una persona come lei, qualcuno che giudica le persone dal sangue che possiedono piuttosto che dalle azioni che compiono.”

Hazuba chiuse gli occhi per un istante, tracimando rabbia. Poi, improvvisamente, si rilassò, riacquisendo la propria arrogante sicurezza.

“Sei davvero tenera, mia cara.” sussurrò, sorridendole velenosamente. “Tu e quella bestia che chiami marito siete convinti di poter giocare questa partita ad armi pari.” si alzò. “Pensa ai tuoi bambini, piccola. Dubito che vogliano crescere senza genitori, non trovi?”

“E’ una minaccia?”

“No, un semplice consiglio… per ora.”

Se ne andò, spalancando la porta di botto, solo per trovarsi di fronte Naruto. Storse la bocca, faticando a reprimere il proprio disgusto per ciò che aveva di fronte.

“Spostati… bestia.” ordinò con tono glaciale.

“E se io non mi spostassi?” la provocò l’Uzumaki, irritato dall’arroganza della donna. “Oserebbe sporcarsi le mani, dandomi una spinta?”

“Ritieniti fortunato che a governarci ci sia un debole come Kakashi Hatake, Jinchuuriki.” fu la risposta di Hazuba. “Qualsiasi persona degna di essere chiamata ninja ti avrebbe sepolto vivo nelle prigioni del Villaggio già da tempo, bastardo mezzosangue.”

Naruto percepì il sangue premergli sulle tempie, spazzando via ogni raziocino ‘umano’ dentro di lui. Le sue iridi azzurre assunsero una tonalità rossastra, mentre il desiderio di squarciare la gola di quella spregevole donna cresceva in lui ogni secondo che passava.

“Lascia perdere.”

“Kurama?” sentì la propria rabbia svanire innanzi alla mente gelida dell’amico, il quale era tornato a sonnecchiare tranquillo da qualche minuto.

“Sprecheresti tempo.” borbottò il demone, sbadigliando. “Lasciala andare per la sua strada.”

 Con uno sforzo immane, lo shinobi si fece da parte, permettendo ad Hazuba di incamminarsi verso l’uscita dell’ospedale.

“Le consiglio di rinunciarci.” esordì improvvisamente il biondo, ancora troppo infuriato per tenere la bocca chiusa. “Non lo sa che i mostri non vanno mai provocati?”

La kunoichi si voltò, tornando rapidamente di fronte all’Uzumaki.

“E cosa ne sai tu dei mostri, Jinchuuriki?” sussurrò velenosa la donna, un sorrisetto maligno sulle morbide labbra. “Credi veramente di conoscerli? Tutto quello che hai visto sono stati uomini amareggiati e deboli, schiacciati dai loro stessi fallimenti, ma i mostri… sono ben altro.” il sorriso divenne inquietante. “Qualcosa che va oltre Madara Uchiha ed il suo patetico clan.”

Se ne andò, lasciando a Naruto una sensazione sgradevole nello stomaco. Un sentimento che riuscì solo dopo alcuni secondi ad identificare: paura.

“Avresti dovuto lasciarmela fare fuori.” brontolò, mentre rientrava nella stanza della moglie.

“Era indifesa. Da quando uccidi qualcuno solo perché ti insulta o minaccia?”

“E da quando tu sei così diplomatico?! Non sei sempre stato quello che prima uccideva e poi parlava?!”

“Mi stai dando del codardo?” la volpe aprì un occhio, scrutando trucemente l’amico.

“Diciamo che gli ultimi anni di pace ti hanno rammollito! Dov’è finito il demone con cui ho combattuto per sedici anni?! Tira fuori le palle, perché quella vecchia può diventare una fonte di guai!”

“Non insultarmi!” un ringhio tremendo uscì dalla gola del demone, facendo vibrare le ossa dello shinobi. “Conosco quanto te la pericolosità di quella donna! E proprio per questo sono convinto che l’ultima cosa da fare sia dare vita ad una miserevole scazzottata con essa!” l’iride scarlatta di Kurama fissò con fare accusatorio l’amico, mettendolo a disagio. “Quando verrà il momento la combatteremo, ma ora avresti solo fatto il suo gioco rispondendo alle sue provocazioni. Dimostrati superiore.”

“Dillo alle vittime di lei.” borbottò Naruto, ancora di cattivo umore. “Se lasciamo quella donna libera di agire, avremo una montagna di guai.”

“I processi alle intenzioni li facevano uomini come Madara… vedi di non prendere esempio da lui.”

Pure la lezione di filosofia mi fa… volpe del cavolo!

Il suo malumore fu percepito anche dalla moglie, la quale gli fece cenno di avvicinarsi.

“Non avresti dovuto provocarla in quel modo.” lo rimproverò subito Hinata. “Lei è una donna che gioca sulle emozioni degli altri. Se vuoi riuscire a parlarle, devi essere capace di rimanere freddo e controllato.”

Lo shinobi si sedette al suo fianco, sospirando. La rabbia stava svanendo lasciando il posto ad un’amara consapevolezza di aver sbagliato.

Sempre la solita testa calda… idiota!

“Scusami.” borbottò. “Lo sai che mantenere il sangue freddo non è il mio forte.”

La donna gli afferrò la mano destra, pur tenendo stretta al petto la figlia.

“Cosa facciamo, ora?”

“In che senso?”

“Hazuba non si fermerà fino a quando non avrà messo le mani sul mio clan. Se vogliamo che ciò non accada, dovremo combatterla.”

“È solo una vecchia ancorata al passato!” replicò Naruto, desiderando tranquillizzare la compagna. “Cosa potrebbe mai fare? Scatenare una guerra da sola?”

Il volto di Hinata rimase serio.

“Non la conosci, Naruto-kun.” osservò a voce bassa. “Non sei cresciuto con la sensazione che lei fosse onnipresente, con la consapevolezza che niente di ciò che fai o dici sfugge al suo sguardo.” si morse il labbro inferiore, gli occhi divenuti freddi nel rimembrare il passato. “Lei è pericolosa… troppo.” tornò a rivolgere lo sguardo verso il compagno. “Dovremo combatterla se vogliamo che i nostri figli abbiano un futuro a Konoha.”

L’Uzumaki fece un profondo respiro, chiedendosi per quale motivo doveva esserci sempre qualcuno nella sua vita che lo voleva far fuori. Era snervante sotto un certo senso, e si chiese se quella situazione sarebbe mai cambiata.

“Quindi cosa facciamo?” chiese.

Hinata tornò a fissare Himawari, rimanendo incantata nel vederla dormire pacifica, priva di ogni preoccupazione. Il pensiero che lei e Boruto potessero venirle strappati dalle mani la terrorizzò, facendole scorrere un brivido lungo il filo della schiena. Hazuba voleva morti i suoi figli, tutto ciò che aveva costruito con fatica e sofferenza in quegli anni. Ma soprattutto voleva distruggere il sacrificio di Neji, qualcosa che non poteva permettere per niente al mondo.

“Non possiamo parlarne con nessuno.” rispose, stringendo con maggiore forza la mano del marito. “Non servirebbe a niente, ora come ora. Tutto quello che possiamo fare è tenere gli occhi aperti e… prepararsi a controbattere colpo su colpo ad ogni sua mossa.”

Naruto comprese ciò che voleva dire la kunoichi. Quello che avevano deciso di fare, anni prima, era di cambiare il mondo, rifiutandosi di vivere la propria vita nella diffidenza e nel pregiudizio. Tuttavia, quel cambiamento non era arrivato in un giorno. Era stato un percorso da compiere giorno dopo giorno, vincendo le resistenze di chi era cresciuto e vissuto dentro un mondo che ora loro volevano relegare ai libri di storia. Ed ora, quelle resistenze si erano raccolte attorno alla figura di Hazuba, astuta e calcolatrice, che sembrava disposta a sacrificare qualsiasi cosa, anche la sua famiglia, per poter distruggere quel cambiamento.

Non possiamo perdere.

“Lo faremo.” dichiarò. “Riusciremo a vincere anche questa sfida.” baciò sulla fronte la moglie, sfiorando una manina di Himawari. “Wari e Boruto cresceranno in un mondo migliore… te lo prometto.”

Non permetterò che il tuo sacrificio sia stato vano, Wari…

Era il loro peso, la loro croce da portare in silenzio, nascosta a tutti. Avrebbero combattuto l’ennesima battaglia della loro vita per loro, ma soprattutto per i loro figli, affinché ciò che avevano vissuto non si ripetesse mai più.

E Hinata ne era convinta. Avrebbero vinto.

“Così sia.”

 

 

CONTINUA

 

 

Ehm… salve!

Dunque, cosa dire dopo mesi e mesi di silenzio colpevolissimo?

Beh… diciamo che sono in dirittura d’arrivo con la laurea, e questo comporta che, tra tirocinio, tesi ed ultimi esami da preparare, il mio tempo libero è diventato una chimera.

Comunque, problemi personali a parte, volevo subito dire che questo capitolo all’inizio era nato come unico. Solo che alla fine ho deciso di spezzarlo in due per dare maggiore spazio a Mirai ed Hanabi, il cui rapporto sarà analizzato nella seconda parte del capitolo. E sì, so bene che Naruto e Hinata negli ultimi capitolo sono comparsi poco, ma vi prometto che dopo questo capitolo torneranno padroni indiscussi della scena (o almeno lo spero).

Il motivo per cui ho scelto di legare Mirai ad Hanabi è essenzialmente questo: ritengo la figlia di Asuma un personaggio non facente parte della generazione di Boruto. Pertanto ho scelto di analizzare la sua crescita in questa storia, legandola ad uno dei personaggi con pochi legami rimasti, appunto Hanabi. Il loro rapporto, tuttavia, sarà molto diverso sia da quello di Naruto con Kakashi che di quello con Shikamaru e Asuma. Sarà una cosa diversa, che cercherò di iniziare ad introdurre già nella seconda metà di questo capitolo.

Bene… direi che è tutto. Cercherò di pubblicare la seconda parte il prima possibile, ma purtroppo non ho tempi certi, anche se posso assicurarvi che questa specie di raccolta (chiamiamola così va!) non sarà abbandonata a se stessa.

Un saluto! E grazie in anticipo a chiunque voglia lasciarmi una sua impressione, positiva o meno.


Giambo

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Naruto / Vai alla pagina dell'autore: giambo