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«Ma
Whis!...»
«Beerus,
ti ho già detto di no
ben due volte, non farmelo ripetere ancora! Santo cielo,
cos’è tutta questa
insistenza? Comunque, io per te sono ancora il
“maestro” Whis. Ai tuoi diciotto
anni manca qualche mese».
Il
giovane dio alzò gli occhi al
cielo, sbuffando, senza capire quale differenza potesse fare qualche
mese in
più o in meno. «Seh, seh, me lo hai già
fatto notare più volte».
«“Sì”».
«Hm?»
«Si
dice “sì”» lo
rimproverò
l’angelo «Non “seh”».
«E
si dice “rompiscatole”, non
“maestro”!» ribatté Beerus,
senza riflettere.
Solo
quando sollevò lo sguardo e
notò l’aria mortalmente offesa di Whis
capì di aver fatto una
stupidaggine colossale.
«Tieni
tanto a girovagare in
questa benedetta foresta in piena notte, alla ricerca di neppure tu
sai bene
cosa, e solo perché ti è sembrato di riconoscere
una varietà di fiori che hai
visto nell’ultimo sogno che hai fatto? Benissimo, fallo
pure. »
disse Whis, facendo comparire
il proprio bastone «Da solo».
«C-che
cos… aspetta un secondo,
non mi puoi abbandonare qui!» esclamò Beerus
«Sai che non sono ancora bravo a
percepire l’aura altrui, non riuscirei a
ritrovarti!»
«Imparerai
a farlo, o imparerai
di nuovo un po’di umiltà»
sentenziò l’angelo «Sarà
sempre una lezione
preziosa».
«No,
dai, aspetta! Whis!»
Troppo
tardi: il maestro era
sparito in un lampo di luce, e ora lui era solo.
«Questo
dovrebbe essere
illegale… e per fortuna che dovrebbe provvedere a
me» borbottò il dio,
guardandosi attorno con aria spaesata.
La
foresta in cui si trovava era
estremamente grande, intricata
e fitta.
Vista dall’alto era come se la terra fosse coperta da
un’ampia trapunta verde
scuro, in certi punti squarciata da qualche strapiombo più o
meno visibile.
Non
avrebbe avuto senso andare a
infilarsi lì dentro, e Beerus non l’avrebbe fatto,
se non fosse stato per il sogno.
“Potrei
provare a vedere se Whis
è tornato nella cittadina in cui siamo stati fino a qualche
ora fa” pensò “Ma
non credo che mi renderebbe così facile trovarlo, e in ogni
caso non voglio
dargliela vinta. Nel sogno c’ero io che seguivo questo fiume,
c’era la salita
con le pietre, poi lo strapiombo con sopra quell’albero, e
l’altalena e…e poi
non lo so, perché quello là” alias Whis
“Mi ha svegliato!”
Era
determinato ad andare fino
in fondo a quella faccenda, maestro al seguito oppure no. Non temeva
quel che
avrebbe potuto incontrare nel bosco, perché non era soltanto
un ragazzo quasi
diciottenne: lui era Lord Beerus, Hakaishin del settimo Universo, una
divinità
in grado di distruggere qualunque cosa anche col semplice schiocco
delle dita, e a
breve il suo stesso maestro avrebbe iniziato
a obbedirgli e dargli del “lei”… cosa di
cui, a essere onesto, non vedeva
l’ora.
“A
quel punto non potrà più
sognarsi di ‘impartirmi una lezione’ abbandonandomi
da qualche parte” pensò con
soddisfazione, accingendosi a risalire lungo il fiume.
Se
non altro era stato piantato
in asso accanto a un punto di riferimento, e la strada non sarebbe
stata troppo
difficoltosa, anche perché nei punti particolarmente impervi
poteva sempre
volare. Se non lo faceva di già era perché il
maestro gli aveva consigliato di
camminare, correre e limitare il volo, o “si sarebbe
ritrovato presto a dover
chiedere in prestito i vestiti a Champa”. Volare consumava
energie, ma non
faceva lavorare i muscoli.
Non
che fosse un problema, non
gli dispiaceva camminare, non in quel posto. Anche il suo pianeta
natale era
pieno di boschi, da quel che ricordava: alberi, fiumi, e sassi
ricoperti di
muschi e licheni vagamente simili a quelli dove stava posando i piedi,
e si
respirava un’aria purissima.
“Forse
non è un caso che in
pianeti dall’ambiente simile vivano razze con delle
caratteristiche in comune”
rifletté “Anche i Lusan sono felini”.
Pelo
soffice, corto e sottile,
coda lunga e affusolata con tre punte di colore nero, e orecchie dalla
punta
nera anch’esse: quelli erano i tratti che tutti i Lusan
avevano in comune. Al
di là di questi -e una prevalenza di Lusan dal manto bianco-
bisognava comunque
riconoscere una certa varietà: non aveva visto un Lusan
uguale all’altro, se
non in casi di somiglianze tra parenti, e anche in quei casi non sempre
erano
palesi.
“Tengo a farti
notare che i Lusan non sono un popolo
avanzatissimo, Beerus, né sembra che tra loro ci siano
combattenti di potenza
degna di nota: nessuno di loro sa volare, né sono in grado
di controllare il
Ki. Questo potrebbe essere un pianeta passibile di
distruzione”.
Il
giovane dio emise un verso
seccato. Forse il suo maestro aveva ragione, ma quel pianeta gli
piaceva, e
aveva apprezzato anche la qualità del cibo che gli avevano
offerto, motivo per
cui aveva replicato con un deciso “E invece resta
dov’è!” alle parole di Whis.
“La
salita inizia a farsi molto
più dura” notò “Voglio
sperare che a breve troverò…”
«ah!
Eccola!» esultò.
Il
letto del fiume in quel punto
si faceva più roccioso, e guardando più in alto
poté vedere che le pietre si
ingrandivano man mano, creando un passaggio nel fiume fruibile da
coloro che
erano tanto abili da non aver paura di scivolare e cadere
nell’acqua. Era una
sorta di “scalinata” di rocce, tanto ben disposte
da far quasi pensare che la
sua presenza non fosse merito della natura, quanto piuttosto della mano
di
qualcuno.
Un
breve volo, e Beerus atterrò
senza esitazione sulla prima pietra, iniziando poi a saltare agilmente
dall’una
all’altra. Il maestro Whis non dava molto peso a quel che
lui vedeva nei suoi
sogni, ma il fiume era reale, la “scalinata” era
reale, e allora doveva esserlo
anche tutto il resto.
“Magari
quell’albero che ho
visto nel sogno era da frutto. Era un sogno profetico per dirmi che
avrei
trovato il frutto più buono dell’Universo, o
addirittura del Multiverso!” si
convinse “Lo -o li- mangerò tutti io, e a Whis non
ne lascerò neppure uno. Almeno impara!”
La
salita era molto lunga, ma
l’Hakaishin finì di percorrerla in brevissimo
tempo, esaltato all’idea di
“vendicarsi” di Whis. Notare di non essere ancora
arrivato a destinazione non
riuscì a demolire il suo entusiasmo, che anzi,
aumentò quando notò il tronco
cavo ricoperto di muschio posto in orizzontale tra una riva e
l’altra del
fiume: anche quello era un elemento presente del sogno, a ulteriore
conferma
che voler proseguire era stata la scelta giusta.
“Pregusto
già quel frutto,
dolce, succoso” pensò mentre avanzava alla svelta,
sfregandosi le mani “Saporito!”
Fu
a quel punto che le sue
sensibilissime orecchie captarono qualcosa di insolito, tanto da
spingerlo a
rallentare: una melodia suonata da qualcuno, o qualcosa.
“Non
sono solo in questa
foresta. Però anche questo suono mi è familiare.
Che fosse anch’esso nel mio
sogno, anche se non lo ricordo?” si chiese “Un
momento: non vorranno
appropriarsi del mio frutto?! No,
eh!” pensò, muovendosi rapidamente in direzione
della musica “Possono
dimenticarsene. Appartiene al Dio della Distruzione!”
La
luce dei due candidi
satelliti che ruotavano attorno al pianeta del Lusan iniziava a
diventare più
visibile, segno che la boscaglia andava diradandosi, e Beerus
cominciò ad
avvertire sulla pelle una piacevole brezza, ma al momento non gli
importava,
avendo in testa solo l’intenzione di non lasciare che
qualcuno rubasse il suo
cibo.
Era
tanto preso dall’idea che a
un certo punto, pur continuando a seguire la melodia, prese il sentiero
sbagliato. Saltò fuori dalla selva, pronto a dare battaglia,
su un piccolo promontorio
che dava su uno strapiombo di circa quindici metri.
Si guardò attorno. «Ho sbagliato
posto,
accidenti a… me…»
Sulla
sinistra, a neppure venti
metri di distanza, c’era un altro promontorio, decisamente
più grande di quello
in cui era finito lui. Sul promontorio c’era
l’albero del suo sogno, e lì, in
piedi sull’altalena oscillante, c’era una giovane
Lusan dal pelo candido.
Era
una ragazza alta, un po’troppo magrolina,
con indosso un abito leggero di
colore chiaro e lunghi
capelli argentei sciolti al vento. Nell’arco della giornata
il dio aveva posato
gli occhi su ragazze Lusan più formose, e per tale
motivo considerabili più belle, ma non abbastanza da sviare
la sua attenzione
dal cibo.
“Decisamente
non è un frutto”
pensò Beerus.
Poi
sorrise e si sedette perfino
a terra a gambe incrociate, senza smettere di guardarla.
Non
era un frutto, ma andava
bene ugualmente.
Per
diverso tempo rimase
immobile e preda di due profondi desideri distinti, ossia quello di
continuare
a osservarla nel suo ambiente naturale, senza avvicinarsi a rovinare
quell’atmosfera quasi onirica, e quello di prenderla per sé; non nel senso
sessuale del termine -non era quel pensiero
ad avere la priorità, nonostante la giovane età-
quanto piuttosto nel senso di
chi avendo sotto gli occhi la bellezza desidera essere il solo a
poterla
contemplare.
Forse
era un desiderio
egoistico, ma chi più di un dio poteva permettersi di essere
egoista?
Poi
successe: quando l’altalena
raggiunse il punto più alto, la ragazza lasciò la
presa sulle corde e scivolò
giù, precipitando nello strapiombo.
«Ma che accidenti?!-»
allibì Beerus.
Era
successo all’improvviso e
talmente in fretta che non era riuscito a reagire in tempi decenti, o
fare
qualsiasi altra cosa diversa da osservarla sparire oltre la soglia del
burrone,
del quale dalla sua angolazione non riusciva a vedere la parte
frontale.
Quando
riuscì a riscuotersi volò
subito in basso, sotto allo strapiombo, guardandosi attorno con aria
febbrile:
doveva essere caduta lì, doveva essere lì per
forza, nonostante l’altezza forse
non era morta sul colpo e c’erano possibilità di
fare qualcosa, forse poteva
ancora salvarla in qualche modo.
La
cercò ancora, e avrebbe
voluto chiamarla, ma non conosceva il suo nome, e comunque non era
detto che
potesse rispondere. Perché si era lanciata giù?!
Cosa le era passato per la
testa?!
«Eppure
devi essere qui, razza
di sconsiderata!» sbottò, facendosi largo tra i
cespugli «Perché non ti trovo?
Dove sei?!»
Niente
da fare, di lei non c’era
traccia; tutto quel che restava era il suono che l’aveva
attirato lì. Qualunque
cosa lo stesse producendo, era ancora attivo e vicino
all’altalena.
Strinse
i pugni, arrabbiato e
perplesso per la piega che aveva preso quella nottata, e
volò in alto,
intenzionato a recuperare almeno la fonte di quella melodia.
Fu
così che notò vari grossi
rami che sporgevano dalla parete rocciosa, e la presenza
dell’entrata di un
tunnel vicina a uno di essi.
«Ma
non mi dire» mormorò,
sporgendosi a guardare nell’entrata «Allora ti eri
resa conto di essere
osservata».
Era
innervosito a causa del
brutto momento appena passato, ma sorrise lo stesso: gli aveva fatto
prendere
un accidenti, ma probabilmente stava più che bene. Quella
giovane Lusan sembrava
essere un tipetto sfuggente.
“Ora
la cerco, la trovo, e
gliene dico quattro. Giocare simili scherzi a una divinità!
Ma guarda un
po’questa!...”
Prima
di infilarsi nel tunnel
però volle tener fede al suo proposito di recuperare la
fonte del suono, che
scoprì essere una piccola scatola di metallo da far
funzionare con qualche giro
di una levetta posta su un lato, e la infilò in una tasca
dei pantaloni: non
voleva presentarsi da lei a mani vuote.
Fatto
questo volò
all’imboccatura della via di fuga presa dalla ragazza, e vi
si addentrò senza
alcun timore. In quanto felino era in grado di vedere al buio, e
comunque lui
era l’ultimo che potesse aver paura di entrare in qualunque
posto.
“Un
tunnel palesemente non
naturale in mezzo a una foresta è una cosa ben
strana” pensò “Mi chiedo per
quanto si snodi. Sia come sia, non può essere andata troppo
lontana”.
Dovette
contraddirsi quando,
percorsi vari metri, trovò nientemeno che due binari, su uno
dei quali era
presente un carrello. Non sembravano di costruzione troppo recente, ma
era
evidente che fossero tuttora utilizzati da qualcuno -nello specifico,
quella
benedetta ragazza. Forse quella era l’uscita di una vecchia
miniera, o forse
era semplicemente una via di fuga da chissà quale luogo.
“Lo
chiederò a lei più tardi”.
Non
perse tempo a cercare di
mettere in funzione il carrello, anche se magari usarlo avrebbe potuto
rivelarsi divertente, e volò lungo la galleria al massimo
che la sua velocità
divina consentiva.
In
brevissimo tempo giunse a
destinazione, e uscendo dal tunnel si trovò a posare i piedi
su un verde e
folto prato fiorito.
Diede
un’occhiata all’orizzonte,
trovando un lago di media grandezza e, vicino a esso, un villaggio.
Aguzzò la
vista: gli edifici c’erano, ma della presenza di abitanti non
era affatto
sicuro. Non vedeva luci, non vedeva fumo salire dai comignoli,
né sentiva alcun
suono, o altro che suggerisse la presenza di qualcuno oltre a lui e,
immaginava, la ragazza.
Giunse
alla conclusione che quel
villaggio dovesse essere stato abbandonato da tempo per
chissà quale ragione, e
quando in seguito si avvicinò alle case l’ipotesi
del paese fantasma trovò
conferma.
“Non
è un luogo adatto per una
ragazza che va in giro da sola nel cuore della notte”
sentenziò Beerus.
C’era
un’atmosfera strana in
quel posto, che non gli piaceva granché, ma non riuscendo a
capire a cosa fosse
dovuta quella sensazione concluse che si trattava soltanto di
suggestione.
Proseguì lungo le vie deserte, osservando ogni edificio
-alcuni erano messi
bene, altri fatiscenti- intuendo che non dovevano essere molto
più recenti
dei binari che aveva visto in precedenza.
Giunse
in quella che un tempo
doveva essere stata la piazza principale del villaggio, si
fermò e fece un
sospiro. «Va bene, è tempo che io provi a
percepire la sua aura. Dev’essere qui
attorno, non può essere troppo complicato, e comunque devo
imparare a farlo per
bene, prima o poi».
Chiuse
gli occhi, cercando di
espandere la percezione sensoriale oltre i limiti fisici e di liberarsi
di ogni
pensiero come gli aveva detto di fare il maestro Whis, ma non riusciva
a
togliersi dalla mente l’immagine della Lusan
sull’altalena, la sua espressione
così seria, il suo…
Quasi
sobbalzò quando di colpo
iniziò ad avvertire l’aura della ragazza in modo
forte e chiaro. Era come seguire
un’unica fonte di luce in un sentiero buio.
Volse
lo sguardo, e subito
individuò il suo nascondiglio: il tetto
dell’edificio posto nella posizione più
alta in tutto il paese, che era anche il più grande. Forse
in passato era stato
la dimora di coloro che erano a capo del villaggio.
Sul
volto del dio comparve un
sogghigno soddisfatto. «Ti ho trovata».
Senza
perdere ulteriore tempo,
l’Hakaishin raggiunse la parte posteriore
dell’edificio. Dubitava fortemente
che lei avesse notato la sua presenza, o sarebbe scappata via
nuovamente, cosa
che non stava facendo. Non che ci fosse da stupirsi, perché
i due satelliti e
la miriade di stelle visibili avrebbero reso il guardare in basso
un’azione da
sciocchi.
Volò
di nuovo in alto e,
atterrato silenziosamente sul terrazzo, vide che la Lusan era intenta a
osservare il cielo, dandogli le spalle.
“Bene!
Ora devo solo… ehm… già,
adesso che l’ho trovata cosa faccio?”
pensò il giovane.
Solo
in quel momento si rese
conto di non avere la minima idea di come muoversi, e sì che
in condizioni normali
era tutto fuorché timido… sebbene il suo rapporto
col sesso femminile fosse
perlopiù limitato alle donne del luogo in cui il maestro
Whis lo portava a,
parole sue, “soddisfare i suoi istinti sessuali senza mettere
in mezzo sentimentalismi
poco utili a un Hakaishin”.
“No,
sul serio, con cosa
esordisco? Con un ‘ehilà, bella serata’?
Con ‘ciao, sono il Dio della
Distruzione Lord Beerus e ti ho seguita fin qui perché sono
anche il dio degli
stalker’? ‘Una ragazza come te non dovrebbe andare
in giro da sola a quest’ora
di notte’? No, così sembra che abbia brutte
intenzioni… ma allora cosa
accidenti devo dirle?! Forse devo limitarmi a dirle la
verità” decise.
«Dando
retta a un sogno
profetico ho camminato nella foresta convinto di trovare un frutto
buonissimo,
e invece ho trovato una Lusan in piedi su un’altalena. Come
la mettiamo?»
“Uccidetemi.
Vi prego”
pensò, dandosi del cretino.
La
ragazza sobbalzò, per poi
voltarsi velocemente a guardarlo. Si sarebbe aspettato
un’espressione spaventata,
e un po’lo era, ma sul suo volto vedeva più
stupore e curiosità che paura.
Beerus
alzò le mani. «Non voglio
farti del male» cercò di rassicurarla.
La
Lusan non si mosse, se non
per appoggiarsi contro la ringhiera di legno. «Lo
so».
Il
dio aggrottò la fronte,
alquanto sorpreso da quella risposta: tutto si sarebbe aspettato,
tranne un “lo
so”. «E come lo sai?»
«Penso
che se avessi voluto
farmene mi avresti già aggredita alle spalle, dal momento
che non ti avevo proprio
sentito arrivare» rispose lei «O avresti cercato di
farlo prima, quando eravamo
nella foresta. Però non sembravi averne
l’intenzione».
«Non
l’avevo» confermò Beerus
«Come non ce l’ho adesso. Dico davvero! Davvero
davvero! Ma davv-» “Smettila di
ripetere quella parola, pezzo d’idiota!” si impose
«Hai capito».
«Oh
sì» annuì la ragazza «Ho
capito davvero davvero. D’accordo: assodato che non vuoi
farmi del male, mi
chiedo sia mi hai trovata, sia il motivo per cui mi hai seguita fin
qui… e
anche come tu abbia fatto ad arrivare così in
fretta» aggiunse «Nonché il tuo
nome, ovviamente».
«Mi
chiamo Beerus. Anzi, per la
precisione io dovrei essere chiamato “Lord”
Beerus» specificò «Perché
vedi, io
sono… una persona importante. Molto importante».
Stava
per dirle che era
l’Hakaishin di quell’Universo, ma aveva cambiato
idea, temendo che per quella
sera fosse troppo. Le era arrivato alle spalle, non voleva rischiare
spaventarla ulteriormente, anche se lei sembrava avere nervi piuttosto
saldi.
«Io
mi chiamo Anise. Anzi, forse
anch’io dovrei essere chiamata “Lady”
perché, vedi» indicò il villaggio con
un
ampio gesto del braccio destro «Sono la regina indiscussa del
qui presente
regno di Vynumeer e dei suoi abitanti! Ossia io. Che oltretutto non
abito qui
per davvero».
“Anise”.
Beerus
lo trovava un bel nome.
Si lasciò scappare una mezza risata: il ghiaccio ormai era
definitivamente
rotto. «La vostra vita da regina dev’essere dura,
maestà! Con tutte queste
persone di cui occuparsi…»
«Lo
è, soprattutto quando hanno
voglia di biscotti alla cannella e in casa non ce
n’è neppure un grammo»
replicò Anise «Ma non divaghiamo: hai delle
domande cui devi rispondere, anche
se sei una persona molto importante. Perché mi hai seguita
fin qui?»
«Vuoi
la verità? L’ho fatto per
dirtene quattro!» esclamò, incrociando le braccia
davanti al petto «Lasciarsi
cadere in quel modo nello strapiombo è da imprudenti, se non
si è in grado di
volare. Ho pensato che fossi caduta e ti fossi fatta male, o peggio. Se
avevi
intuito che non volevo farti del male, perché accidenti lo
hai fatto?!»
«Perché
era piena notte, c’era
un ragazzo alieno sconosciuto che mi stava osservando, e sebbene avessi
intuito
l’assenza di brutte intenzioni ho deciso di allontanarmi per
sicurezza» ribatté
lei «Puoi biasimarmi?... non che sia servito a molto,
comunque, dal momento che
ora siamo entrambi qui».
«D’accordo.
Potevi evitare di
farmi pensare male, ma ammetto che sei scappata via per motivi
sensati» ammise
Beerus «L’altro motivo per cui ti ho seguita
comunque è questo» disse, e tirò
fuori dalla tasca la “scatola del suono”, come la
definiva lui «Te l’ho
riportata. Tieni».
«Grazie
per avermi riportato il
mio za sviranje, Lord
Beerus» disse
Anise con gentilezza, sorridendogli nel riprendersi l’oggetto.
«Avete
il permesso di chiamarmi
solo Beerus, maestà, e sappiate che è un onore
che non concedo a tutte le
regine. Anzi, al momento siete la sola alla quale abbia permesso
tanto!»
Lei
sorrise ancora. Era evidente
che pensasse che lui stesse scherzando, senza sapere che invece quella
che le
aveva appena detto era la pura verità.
«Addirittura… allora passiamo all’altra
mia domanda, Beerus: come mi hai trovata?»
«Quando
ti ho vista cadere sono
volato giù a cercarti, poi non trovandoti sono volato su
lungo la parete
rocciosa, ho visto il tunnel e-»
«Aspetta:
cosa significa che
“sei volato” su e giù?» lo
interruppe la Lusan, alquanto perplessa.
«Cosa
vuoi che significhi? Che
sono volato, no? Così!» esclamò
l’Hakaishin, alzandosi in volo davanti a lei.
Da
perplessa che era,
l’espressione di Anise divenne allibita. Vedendo
ciò, e ricordando che i Lusan
non volavano, Beerus temette di aver commesso
un’imperdonabile leggerezza.
«Ciò
conferma la
mia teoria, questo è un sogno» dichiarò
Anise «E tra un po’mi risveglierò nel
mio letto. Avrei dovuto capirlo già da quando hai parlato
del sogno profetico e
del frutto: quale persona si addentrerebbe nella foresta in piena notte
per
cercare un frutto dopo averlo sognato? Sarebbe stupido».
«Non
è affatto stupido!»
protestò Beerus «E comunque il frutto non
l’ho precisamente sognato, mi ero
soltanto convinto della sua presenza».
«Per
non parlare del fatto che
un ragazzo alieno sconosciuto che segue di notte una ragazza sola senza
avere
brutte intenzioni non si è mai visto»
continuò lei, imperterrita «Quindi
niente, può essere solo un sogno, il che rende il volo una
cosa plausibile».
«Ti
assicuro che non è un sogno,
Anise: è tutto vero, e io sono davvero in grado di volare.
Oggi io e il maestro
Whis siamo stati nella cittadina più vicina alla
foresta» le disse, atterrando
a poca distanza da lei «E mi è stato detto che
l’arrivo di alieni non è una
novità per voi Lusan. Non credo di essere il primo di essi in grado di volare ad aver
messo piede qui».
«Non
lo sei» ammise lei «Ma gli
arrivi di alieni non sono mai stati una quantità
spropositata, e il numero di
quelli in grado di volare è persino minore. Credo che la mia
sorpresa sia
dovuta a un insieme di cose, non ultimo il fatto che…
insomma, ti sei davvero
messo a vagare nella foresta per quella ragione?»
«Sì,
ti dico! Però devo
confessarlo: pur non avendo trovato il mio frutto, e pur essendomi
preso un accidente
per colpa di una Lusan finta suicida, mi ritengo piuttosto
soddisfatto».
Anise
fece spallucce. «Contento
tu. Comunque… il tuo maestro non si preoccupa per la tua
assenza?»
«È
lui che mi ha mollato da solo
nella foresta» sbuffò Beerus «In un modo
o nell’altro avrei ritrovato almeno la
strada per la cittadina, e credimi se ti dico che in generale non ho
nulla da
temere, ma il punto è che non è stato affatto un
bel gesto».
«Questo
però non vuol dire che
non si stia chiedendo dove sei finito, soprattutto se è
passato diverso tempo.
Se si aspettava che tornassi indietro potrebbe pensare male, non
vedendoti
tornare».
Quello
era forse un tentativo di
congedarlo? Perché? Sembrava star andando tutto bene!
Avevano rotto il ghiaccio
e stavano parlando tranquillamente, e una volta risolta la questione
del volo
non riusciva a capire cosa potesse aver fatto di sbagliato.
«Non
voglio mandarti via. Ho solo
pensato al tuo maestro, tutto qui».
Il
dio sgranò gli occhi. «Tu…
sei in grado di leggere nel pensiero?»
Anise
scosse la testa. «No. Tu
hai un viso molto espressivo, io ho collegato la faccia che hai fatto a
quello
che ho detto, ho riflettuto e ho concluso che potessi aver mal
interpretato le
mie parole. Ti sei ricomposto in fretta, ma non abbastanza».
Era
una faccenda strana, e
Beerus non era in grado di capire se gli facesse piacere oppure no; non
riuscendo a decidere, pensò che soprassedere fosse la cosa
migliore.
«Comprendo. In ogni caso, conosco abbastanza Whis da sapere
che non sta
impazzendo dalla preoccupazione, e non posso tornare alla cittadina.
Per te
sarà pure un’abitudine, ma io non intendo
lasciarti qui da sola. È da quando ho
messo piede in questo posto che ho addosso una sensazione
spiacevole» le
confessò, guardandosi attorno «Non so
perché».
«Eccone
un altro» sospirò Anise
«Ti sei fatto influenzare da quelle storie imbecilli che
girano a Ulthmeer
riguardo questo posto, vero?»
«Quali
storie?» le domandò
l’Hakaishin, ancor più guardingo.
«La
tua è solo suggestione»
minimizzò lei, senza rispondergli «Per il resto,
io sono cresciuta nella
cittadina in cui sei stato oggi -ossia Ulthmeer- e vengo qui da sola da
quando
avevo cinque anni: penso di potermi considerare abbastanza esperta del
luogo,
ormai».
Tralasciando
l’opinione di
Beerus sul fatto che a una piccola lince fosse permesso allontanarsi
così tanto
da casa -per chi non volava, la strada da Ulthmeer a Vynumeer era tanta- in completa solitudine, non era
affatto felice all’idea di lasciarla lì,
checché lei ne dicesse. «Ne sono
sicuro, ma questo per me non cambia le cose».
«Conosco
questo posto molto
meglio di quanto conosca te, visto che siamo poco più di due
estranei.
Probabilmente mi consideri una fanciulla in potenziale pericolo, stai
agendo di
conseguenza e in un certo senso è anche una cosa, diciamo,
carina… ma ti
assicuro che non ho bisogno di un baldo forestiero che mi protegga.
Chissà da cosa,
poi».
«Non
so neppure io da cosa, o
l’avrei già distrutto»
ribatté lui.
«Addirittura
distruggerlo? La
vedo difficile».
«Non
per me! Io… ah, e va bene!
Non volevo dirlo, non già questa sera, ma se lo faccio
magari prenderai
seriamente quel
che ti ho detto» fece una pausa «Oggi a Ulthmeer ho
visto che voi Lusan sapete cos’è
un Hakaishin…»
«Siamo
arretrati per varie
ragioni, inclusa l’ultima guerra, ma non siamo
così tanto “bestie” da non
sapere che esiste il Dio della Distruzione»
replicò lei.
«Sono
io, Anise. Io sono
l’Hakaishin di questo Universo».
La
Lusan lo fissò per qualche
istante, senza apparire troppo convinta. «Saresti un dio
piuttosto piccolo,
come età».
«Piccolo?!
Ho diciotto anni,
io!» protestò Beerus «E il mio maestro
dice che sono molto più forte di vari
miei colleghi più vecchi di me!»
«Colleghi?
Di Hakaishin ce ne è
solo uno».
«Uno
per Universo» la corresse
Beerus «Ce ne sono dodici. Questo è il
settimo».
«D’accordo,
credo di averne sentite
abbastanza per stasera. Perdonami, ma crederti mi risulta
difficile».
Il
dio sospirò nervosamente,
dicendosi che c’era da aspettarselo, e si guardò
attorno. «Dimmi un po’: quel costone
roccioso ti piace?» le chiese, indicandone uno a una certa
distanza dal lago.
Anise
lo guardò con aria
perplessa. «Sono rocce. Non mi fanno né caldo
né freddo. Forse impiccia un po’,
senza quello si vedrebbe il resto della foresta».
Beerus
tese un braccio davanti a
sé, col palmo della mano dritto. «Benissimo. Hakai».
Appena
finì di parlare, il
costone roccioso venne avvolto da un alone viola, per poi disgregarsi
sotto lo
sguardo attonito della ragazza.
Il
panorama era indubbiamente
migliorato.
«Va
bene» disse Anise, dopo
qualche istante di silenzio «Tu sei l’Hakaishin di
questo Universo, e io credo
di dovermi sedere da qualche parte… anzi, no, non ne ho
bisogno».
Era
una reazione normale, Beerus
ne era consapevole, ma se ne dispiacque ugualmente. «Volevo
solo che mi
credessi, non volevo spaventarti».
«Sono
un po’scossa per via del
tuo potere» disse lei «Ma tu sei la persona che eri
fino a un minuto fa. Se non
avevi brutte intenzioni prima, non dovresti averne neppure adesso.
Giusto?»
«Esatto!»
esclamò il dio, un po’sollevato
«Sono sempre quello del frutto, non dimenticarlo».
«Dimenticare
una stupidaggine
come questa è impossibile» sorrise la Lusan.
«Attenta
a come parlate, maestà:
vi state rivolgendo a un dio!» la rimproverò lui,
scherzosamente.
«Resta
comunque una stupidaggine».
«Ehi!... ad ogni modo, ora che sai che
sono un dio prenderai sul
serio quel che ho detto su questo posto? Non so
com’è gli altri giorni, ma al
momento percepisco qualcosa di strano. In caso contrario non
insisterei».
«Ti
credo, ma continuo a non
capire il motivo. Per non parlare del fatto che sono un
po’stanca, tra l’ora
tarda e tutto» aggiunse «Se non ci fossi tu,
probabilmente starei già dormendo
qui».
«Qui?»
«Nell’edificio
ho cuscini,
coperte e altro. In questa stagione spesso dormo fuori, sotto le
stelle, e… sai
cosa?» Anise sollevò lo sguardo «Se
è vero che il tuo maestro non si preoccupa,
puoi farmi compagnia».
Beerus
sgranò gli occhi, stupito
di quella proposta e felice sia della fiducia che gli era stata
concessa, sia del
fatto che lei non si fosse spaventata più di tanto sapendo
di avere a che fare
con un Hakaishin. «A me sta bene. Però sono un
po’stupito».
«Io
lo sono di più» ribatté lei,
scomparendo all’interno dell’edificio per poi
tornare fuori con due cuscini e
due coperte «Non ho mai amato molto la compagnia delle altre
persone. È uno dei
motivi per cui vivo da sola nella foresta. Tieni».
Beerus
prese un cuscino e una
coperta. «Credevo vivessi a Ulthmeer».
Lei
scosse la testa e si sdraiò
a terra, imbozzolandosi nella sua coperta. «Non
più. Oidhche gishery,
Beerus».
«Eh?»
«Significa
“buonanotte”. Se
saltasse fuori un mostro mentre dormo, tu distruggilo, mi
raccomando».
“No,
direi che nonostante tutto
non prenda ancora sul serio quel che ho detto su Vynumeer. O
beh” sospirò,
sdraiandosi accanto a lei “Magari è davvero
un’impressione sbagliata, se lei
viene qui da anni e non le è mai capitato nulla”.
«Contaci. Buonanotte, Anise».
La
terrazza non era comoda come
il morbidissimo letto cui Beerus era abituato, ma non passò
molto tempo prima
che entrambi si addormentassero, chi per la stanchezza, chi per la
tranquillità, o per entrambe le cose.
Lord
Beerus si risvegliò alle
undici del mattino successivo, immerso nella più totale
confusione post- sonno.
«Maestro
Whis, dov’è la mia
colazione?» bofonchiò, stropicciandosi gli occhi
«Non ricordavo che il
materasso fosse così duro…»
Fu
solo tastandolo che si rese
conto che il materasso non era tale, e a quel punto ricordò
di trovarsi su una
terrazza di legno in un villaggio fantasma insieme a una giovane Lusan
di nome
Anise.
Almeno
in teoria, perché di lei
non c’era traccia.
Si
alzò in piedi di scatto,
improvvisamente sveglissimo: addormentarsi era stato un errore, le era
sicuramente successo qualcosa, e-
Un
momento... non ricordava la
presenza di quei dodici frutti accanto a lui, e nemmeno quella di un
biglietto.
Si chinò a raccoglierlo, incuriosito.
Un
tributo al dio dei cercatori di frutta (poco abili).
Ti
regalo anche la coperta.
A.
«Ma
guarda un po’che insolente!»
commentò Beerus, intascando il biglietto senza riuscire a
evitare di sorridere.
Raccolse
uno dei frutti più
grossi, una grossa bacca rotonda di colore rosato, e
l’addentò.
«È buonissimooooooooo!»
esclamò, contento come una Pasqua «Lo dicevo
io, che in quella foresta c’era qualcosa di buono da
mangiare!»
Fu
proprio in quel momento che
Whis comparve accanto a lui senza alcun preavviso. «Sei
veramente un gran
testardo, lo sai? Hai preferito passare la notte
all’addiaccio, piuttosto che
darmi ascolto!»
«Esatto,
e ho anche trovato
quello che cercavo» sogghignò Beerus, passato il
momento di sorpresa,
sventolando una bacca davanti al volto dell’angelo
«Sono i frutti più dolci,
succosi e saporiti che abbia mai mangiato... e sono miei!»
dichiarò, usando la
coperta per infagottare i dieci rimasti «Tutti
miei!»
«È
ingeneroso da parte tua non
condividere il cibo con chi si prende cura di te» disse Whis.
«Certo,
perché dopo avermi
abbandonato te lo meriti proprio! Torniamo a casa, dai. Ho trovato
quello che
cercavo».
“E
anche qualcosa in più”.
Non
si era sentito di dire al suo maestro di aver incontrato una ragazza e
di aver voglia
di rivederla: sapeva che Whis voleva che lui si concentrasse sul suo
compito e
sugli allenamenti, e avendo appena conosciuto Anise riteneva prematuro
parlargli di lei, ma avrebbe trovato il modo di incontrarla ancora
senza che
Whis lo venisse a sapere… e lo avrebbe fatto molto presto.
Non
ci credo, l’ho iniziata sul
serio :”D
Ringrazio
tutti coloro che hanno
letto fin qui, e le persone che in “Reflecting
Mirrors” hanno mostrato
interesse per il qui presente prequel con questo Beerus giovanissimo e
all’inizio
piuttosto imbranato :”D
P.s.: se vi interessa vi lascio il link
della melodia della "scatola che suona" (perché
carillon era troppo semplice :"D)
Qui
sotto, un tentativo di
disegnare Anise sull’altalena (non sono in grado di fare gli
sfondi, quindi
niente, non li faccio :”D)
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