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Autore: Sinkarii Luna Nera    05/11/2017    4 recensioni
Prequel di ''Reflecting Mirrors"
Una Lusan, un Hakaishin e tutto ciò che è avvenuto prima che centinaia di milioni di anni, assieme a centinaia di milioni di situazioni complesse, portassero al presente per come lo conosciamo -nel bene e nel male.
(Ignoro il motivo per cui l'amministrazione si sia divertita a cancellare un'intro che è stata qui per anni, ma non abbia ancora cambiato il mio nick. Misteri della fede.)
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Champa, Lord Bills, Nuovo personaggio, Vados, Whis
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Reflecting Mirrors'
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«Ma Whis!...»

«Beerus, ti ho già detto di no ben due volte, non farmelo ripetere ancora! Santo cielo, cos’è tutta questa insistenza? Comunque, io per te sono ancora il “maestro” Whis. Ai tuoi diciotto anni manca qualche mese».

Il giovane dio alzò gli occhi al cielo, sbuffando, senza capire quale differenza potesse fare qualche mese in più o in meno. «Seh, seh, me lo hai già fatto notare più volte».

«“Sì”».

«Hm?»

«Si dice “sì”» lo rimproverò l’angelo «Non “seh”».

«E si dice “rompiscatole”, non “maestro”!» ribatté Beerus, senza riflettere.

Solo quando sollevò lo sguardo e notò l’aria mortalmente offesa di Whis capì di aver fatto una stupidaggine colossale.

«Tieni tanto a girovagare in questa benedetta foresta in piena notte, alla ricerca di neppure tu sai bene cosa, e solo perché ti è sembrato di riconoscere una varietà di fiori che hai visto nell’ultimo sogno che hai fatto? Benissimo,
fallo pure. » disse Whis, facendo comparire il proprio bastone «Da solo».

«C-che cos… aspetta un secondo, non mi puoi abbandonare qui!» esclamò Beerus «Sai che non sono ancora bravo a percepire l’aura altrui, non riuscirei a ritrovarti!»

«Imparerai a farlo, o imparerai di nuovo un po’di umiltà» sentenziò l’angelo «Sarà sempre una lezione preziosa».

«No, dai, aspetta! Whis!»

Troppo tardi: il maestro era sparito in un lampo di luce, e ora lui era solo.

«Questo dovrebbe essere illegale… e per fortuna che dovrebbe provvedere a me» borbottò il dio, guardandosi attorno con aria spaesata.

La foresta in cui si trovava era estremamente grande, intricata e fitta. Vista dall’alto era come se la terra fosse coperta da un’ampia trapunta verde scuro, in certi punti squarciata da qualche strapiombo più o meno visibile.
Non avrebbe avuto senso andare a infilarsi lì dentro, e Beerus non l’avrebbe fatto, se non fosse stato per il sogno.

“Potrei provare a vedere se Whis è tornato nella cittadina in cui siamo stati fino a qualche ora fa” pensò “Ma non credo che mi renderebbe così facile trovarlo, e in ogni caso non voglio dargliela vinta. Nel sogno c’ero io che seguivo questo fiume, c’era la salita con le pietre, poi lo strapiombo con sopra quell’albero, e l’altalena e…e poi non lo so, perché quello là” alias Whis “Mi ha svegliato!”

Era determinato ad andare fino in fondo a quella faccenda, maestro al seguito oppure no. Non temeva quel che avrebbe potuto incontrare nel bosco, perché non era soltanto un ragazzo quasi diciottenne: lui era Lord Beerus, Hakaishin del settimo Universo, una divinità in grado di distruggere qualunque cosa anche col semplice schiocco delle dita, e a breve il suo stesso maestro avrebbe iniziato a obbedirgli e dargli del “lei”… cosa di cui, a essere onesto, non vedeva l’ora.

“A quel punto non potrà più sognarsi di ‘impartirmi una lezione’ abbandonandomi da qualche parte” pensò con soddisfazione, accingendosi a risalire lungo il fiume.

Se non altro era stato piantato in asso accanto a un punto di riferimento, e la strada non sarebbe stata troppo difficoltosa, anche perché nei punti particolarmente impervi poteva sempre volare. Se non lo faceva di già era perché il maestro gli aveva consigliato di camminare, correre e limitare il volo, o “si sarebbe ritrovato presto a dover chiedere in prestito i vestiti a Champa”. Volare consumava energie, ma non faceva lavorare i muscoli.

Non che fosse un problema, non gli dispiaceva camminare, non in quel posto. Anche il suo pianeta natale era pieno di boschi, da quel che ricordava: alberi, fiumi, e sassi ricoperti di muschi e licheni vagamente simili a quelli dove stava posando i piedi, e si respirava un’aria purissima.

“Forse non è un caso che in pianeti dall’ambiente simile vivano razze con delle caratteristiche in comune” rifletté “Anche i Lusan sono felini”.

Pelo soffice, corto e sottile, coda lunga e affusolata con tre punte di colore nero, e orecchie dalla punta nera anch’esse: quelli erano i tratti che tutti i Lusan avevano in comune. Al di là di questi -e una prevalenza di Lusan dal manto bianco- bisognava comunque riconoscere una certa varietà: non aveva visto un Lusan uguale all’altro, se non in casi di somiglianze tra parenti, e anche in quei casi non sempre erano palesi.



“Tengo a farti notare che i Lusan non sono un popolo avanzatissimo, Beerus, né sembra che tra loro ci siano combattenti di potenza degna di nota: nessuno di loro sa volare, né sono in grado di controllare il Ki. Questo potrebbe essere un pianeta passibile di distruzione”.



Il giovane dio emise un verso seccato. Forse il suo maestro aveva ragione, ma quel pianeta gli piaceva, e aveva apprezzato anche la qualità del cibo che gli avevano offerto, motivo per cui aveva replicato con un deciso “E invece resta dov’è!” alle parole di Whis.

“La salita inizia a farsi molto più dura” notò “Voglio sperare che a breve troverò…”

«ah! Eccola!» esultò.

Il letto del fiume in quel punto si faceva più roccioso, e guardando più in alto poté vedere che le pietre si ingrandivano man mano, creando un passaggio nel fiume fruibile da coloro che erano tanto abili da non aver paura di scivolare e cadere nell’acqua. Era una sorta di “scalinata” di rocce, tanto ben disposte da far quasi pensare che la sua presenza non fosse merito della natura, quanto piuttosto della mano di qualcuno.

Un breve volo, e Beerus atterrò senza esitazione sulla prima pietra, iniziando poi a saltare agilmente dall’una all’altra. Il maestro Whis non dava molto peso a quel che lui vedeva nei suoi sogni, ma il fiume era reale, la “scalinata” era reale, e allora doveva esserlo anche tutto il resto.

“Magari quell’albero che ho visto nel sogno era da frutto. Era un sogno profetico per dirmi che avrei trovato il frutto più buono dell’Universo, o addirittura del Multiverso!” si convinse “Lo -o li- mangerò tutti io, e a Whis non ne lascerò neppure uno. Almeno impara!”

La salita era molto lunga, ma l’Hakaishin finì di percorrerla in brevissimo tempo, esaltato all’idea di “vendicarsi” di Whis. Notare di non essere ancora arrivato a destinazione non riuscì a demolire il suo entusiasmo, che anzi, aumentò quando notò il tronco cavo ricoperto di muschio posto in orizzontale tra una riva e l’altra del fiume: anche quello era un elemento presente del sogno, a ulteriore conferma che voler proseguire era stata la scelta giusta.

“Pregusto già quel frutto, dolce, succoso” pensò mentre avanzava alla svelta, sfregandosi le mani “Saporito!”

Fu a quel punto che le sue sensibilissime orecchie captarono qualcosa di insolito, tanto da spingerlo a rallentare: una melodia suonata da qualcuno, o qualcosa.

“Non sono solo in questa foresta. Però anche questo suono mi è familiare. Che fosse anch’esso nel mio sogno, anche se non lo ricordo?” si chiese “Un momento: non vorranno appropriarsi del mio frutto?! No, eh!” pensò, muovendosi rapidamente in direzione della musica “Possono dimenticarsene. Appartiene al Dio della Distruzione!”

La luce dei due candidi satelliti che ruotavano attorno al pianeta del Lusan iniziava a diventare più visibile, segno che la boscaglia andava diradandosi, e Beerus cominciò ad avvertire sulla pelle una piacevole brezza, ma al momento non gli importava, avendo in testa solo l’intenzione di non lasciare che qualcuno rubasse il suo cibo.
Era tanto preso dall’idea che a un certo punto, pur continuando a seguire la melodia, prese il sentiero sbagliato. Saltò fuori dalla selva, pronto a dare battaglia, su un piccolo promontorio che dava su uno strapiombo di circa quindici metri. Si guardò attorno. «Ho sbagliato posto, accidenti a… me»

Sulla sinistra, a neppure venti metri di distanza, c’era un altro promontorio, decisamente più grande di quello in cui era finito lui. Sul promontorio c’era l’albero del suo sogno, e lì, in piedi sull’altalena oscillante, c’era una giovane Lusan dal pelo candido.
Era una ragazza alta, un po’troppo magrolina, con indosso un abito leggero di colore chiaro e lunghi capelli argentei sciolti al vento. Nell’arco della giornata il dio aveva posato gli occhi su ragazze Lusan più formose, e per tale motivo considerabili più belle, ma non abbastanza da sviare la sua attenzione dal cibo.

“Decisamente non è un frutto” pensò Beerus.

Poi sorrise e si sedette perfino a terra a gambe incrociate, senza smettere di guardarla.

Non era un frutto, ma andava bene ugualmente.

Per diverso tempo rimase immobile e preda di due profondi desideri distinti, ossia quello di continuare a osservarla nel suo ambiente naturale, senza avvicinarsi a rovinare quell’atmosfera quasi onirica, e quello di prenderla per sé; non nel senso sessuale del termine -non era quel pensiero ad avere la priorità, nonostante la giovane età- quanto piuttosto nel senso di chi avendo sotto gli occhi la bellezza desidera essere il solo a poterla contemplare.
Forse era un desiderio egoistico, ma chi più di un dio poteva permettersi di essere egoista?

Poi successe: quando l’altalena raggiunse il punto più alto, la ragazza lasciò la presa sulle corde e scivolò giù, precipitando nello strapiombo.

«Ma che accidenti?!-» allibì Beerus.

Era successo all’improvviso e talmente in fretta che non era riuscito a reagire in tempi decenti, o fare qualsiasi altra cosa diversa da osservarla sparire oltre la soglia del burrone, del quale dalla sua angolazione non riusciva a vedere la parte frontale.

Quando riuscì a riscuotersi volò subito in basso, sotto allo strapiombo, guardandosi attorno con aria febbrile: doveva essere caduta lì, doveva essere lì per forza, nonostante l’altezza forse non era morta sul colpo e c’erano possibilità di fare qualcosa, forse poteva ancora salvarla in qualche modo.
La cercò ancora, e avrebbe voluto chiamarla, ma non conosceva il suo nome, e comunque non era detto che potesse rispondere. Perché si era lanciata giù?! Cosa le era passato per la testa?!

«Eppure devi essere qui, razza di sconsiderata!» sbottò, facendosi largo tra i cespugli «Perché non ti trovo? Dove sei?!»

Niente da fare, di lei non c’era traccia; tutto quel che restava era il suono che l’aveva attirato lì. Qualunque cosa lo stesse producendo, era ancora attivo e vicino all’altalena.
Strinse i pugni, arrabbiato e perplesso per la piega che aveva preso quella nottata, e volò in alto, intenzionato a recuperare almeno la fonte di quella melodia.

Fu così che notò vari grossi rami che sporgevano dalla parete rocciosa, e la presenza dell’entrata di un tunnel vicina a uno di essi.

«Ma non mi dire» mormorò, sporgendosi a guardare nell’entrata «Allora ti eri resa conto di essere osservata».

Era innervosito a causa del brutto momento appena passato, ma sorrise lo stesso: gli aveva fatto prendere un accidenti, ma probabilmente stava più che bene. Quella giovane Lusan sembrava essere un tipetto sfuggente.

“Ora la cerco, la trovo, e gliene dico quattro. Giocare simili scherzi a una divinità! Ma guarda un po’questa!...”

Prima di infilarsi nel tunnel però volle tener fede al suo proposito di recuperare la fonte del suono, che scoprì essere una piccola scatola di metallo da far funzionare con qualche giro di una levetta posta su un lato, e la infilò in una tasca dei pantaloni: non voleva presentarsi da lei a mani vuote.

Fatto questo volò all’imboccatura della via di fuga presa dalla ragazza, e vi si addentrò senza alcun timore. In quanto felino era in grado di vedere al buio, e comunque lui era l’ultimo che potesse aver paura di entrare in qualunque posto.

“Un tunnel palesemente non naturale in mezzo a una foresta è una cosa ben strana” pensò “Mi chiedo per quanto si snodi. Sia come sia, non può essere andata troppo lontana”.

Dovette contraddirsi quando, percorsi vari metri, trovò nientemeno che due binari, su uno dei quali era presente un carrello. Non sembravano di costruzione troppo recente, ma era evidente che fossero tuttora utilizzati da qualcuno -nello specifico, quella benedetta ragazza. Forse quella era l’uscita di una vecchia miniera, o forse era semplicemente una via di fuga da chissà quale luogo.

“Lo chiederò a lei più tardi”.

Non perse tempo a cercare di mettere in funzione il carrello, anche se magari usarlo avrebbe potuto rivelarsi divertente, e volò lungo la galleria al massimo che la sua velocità divina consentiva.

In brevissimo tempo giunse a destinazione, e uscendo dal tunnel si trovò a posare i piedi su un verde e folto prato fiorito.
Diede un’occhiata all’orizzonte, trovando un lago di media grandezza e, vicino a esso, un villaggio. Aguzzò la vista: gli edifici c’erano, ma della presenza di abitanti non era affatto sicuro. Non vedeva luci, non vedeva fumo salire dai comignoli, né sentiva alcun suono, o altro che suggerisse la presenza di qualcuno oltre a lui e, immaginava, la ragazza.
Giunse alla conclusione che quel villaggio dovesse essere stato abbandonato da tempo per chissà quale ragione, e quando in seguito si avvicinò alle case l’ipotesi del paese fantasma trovò conferma.

“Non è un luogo adatto per una ragazza che va in giro da sola nel cuore della notte” sentenziò Beerus.

C’era un’atmosfera strana in quel posto, che non gli piaceva granché, ma non riuscendo a capire a cosa fosse dovuta quella sensazione concluse che si trattava soltanto di suggestione. Proseguì lungo le vie deserte, osservando ogni edificio -alcuni erano messi bene, altri fatiscenti- intuendo che non dovevano essere molto più recenti dei binari che aveva visto in precedenza.

Giunse in quella che un tempo doveva essere stata la piazza principale del villaggio, si fermò e fece un sospiro. «Va bene, è tempo che io provi a percepire la sua aura. Dev’essere qui attorno, non può essere troppo complicato, e comunque devo imparare a farlo per bene, prima o poi».

Chiuse gli occhi, cercando di espandere la percezione sensoriale oltre i limiti fisici e di liberarsi di ogni pensiero come gli aveva detto di fare il maestro Whis, ma non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine della Lusan sull’altalena, la sua espressione così seria, il suo…

Quasi sobbalzò quando di colpo iniziò ad avvertire l’aura della ragazza in modo forte e chiaro. Era come seguire un’unica fonte di luce in un sentiero buio.
Volse lo sguardo, e subito individuò il suo nascondiglio: il tetto dell’edificio posto nella posizione più alta in tutto il paese, che era anche il più grande. Forse in passato era stato la dimora di coloro che erano a capo del villaggio.

Sul volto del dio comparve un sogghigno soddisfatto. «Ti ho trovata».

Senza perdere ulteriore tempo, l’Hakaishin raggiunse la parte posteriore dell’edificio. Dubitava fortemente che lei avesse notato la sua presenza, o sarebbe scappata via nuovamente, cosa che non stava facendo. Non che ci fosse da stupirsi, perché i due satelliti e la miriade di stelle visibili avrebbero reso il guardare in basso un’azione da sciocchi.

Volò di nuovo in alto e, atterrato silenziosamente sul terrazzo, vide che la Lusan era intenta a osservare il cielo, dandogli le spalle.

“Bene! Ora devo solo… ehm… già, adesso che l’ho trovata cosa faccio?” pensò il giovane.
Solo in quel momento si rese conto di non avere la minima idea di come muoversi, e sì che in condizioni normali era tutto fuorché timido… sebbene il suo rapporto col sesso femminile fosse perlopiù limitato alle donne del luogo in cui il maestro Whis lo portava a, parole sue, “soddisfare i suoi istinti sessuali senza mettere in mezzo sentimentalismi poco utili a un Hakaishin”.

“No, sul serio, con cosa esordisco? Con un ‘ehilà, bella serata’? Con ‘ciao, sono il Dio della Distruzione Lord Beerus e ti ho seguita fin qui perché sono anche il dio degli stalker’? ‘Una ragazza come te non dovrebbe andare in giro da sola a quest’ora di notte’? No, così sembra che abbia brutte intenzioni… ma allora cosa accidenti devo dirle?! Forse devo limitarmi a dirle la verità” decise.
«Dando retta a un sogno profetico ho camminato nella foresta convinto di trovare un frutto buonissimo, e invece ho trovato una Lusan in piedi su un’altalena. Come la mettiamo?»

“Uccidetemi. Vi prego” pensò, dandosi del cretino.

La ragazza sobbalzò, per poi voltarsi velocemente a guardarlo. Si sarebbe aspettato un’espressione spaventata, e un po’lo era, ma sul suo volto vedeva più stupore e curiosità che paura.
Beerus alzò le mani. «Non voglio farti del male» cercò di rassicurarla.

La Lusan non si mosse, se non per appoggiarsi contro la ringhiera di legno. «Lo so».

Il dio aggrottò la fronte, alquanto sorpreso da quella risposta: tutto si sarebbe aspettato, tranne un “lo so”. «E come lo sai?»

«Penso che se avessi voluto farmene mi avresti già aggredita alle spalle, dal momento che non ti avevo proprio sentito arrivare» rispose lei «O avresti cercato di farlo prima, quando eravamo nella foresta. Però non sembravi averne l’intenzione».

«Non l’avevo» confermò Beerus «Come non ce l’ho adesso. Dico davvero! Davvero davvero! Ma davv-» “Smettila di ripetere quella parola, pezzo d’idiota!” si impose «Hai capito».

«Oh sì» annuì la ragazza «Ho capito davvero davvero. D’accordo: assodato che non vuoi farmi del male, mi chiedo sia mi hai trovata, sia il motivo per cui mi hai seguita fin qui… e anche come tu abbia fatto ad arrivare così in fretta» aggiunse «Nonché il tuo nome, ovviamente».

«Mi chiamo Beerus. Anzi, per la precisione io dovrei essere chiamato “Lord” Beerus» specificò «Perché vedi, io sono… una persona importante. Molto importante».

Stava per dirle che era l’Hakaishin di quell’Universo, ma aveva cambiato idea, temendo che per quella sera fosse troppo. Le era arrivato alle spalle, non voleva rischiare spaventarla ulteriormente, anche se lei sembrava avere nervi piuttosto saldi.

«Io mi chiamo Anise. Anzi, forse anch’io dovrei essere chiamata “Lady” perché, vedi» indicò il villaggio con un ampio gesto del braccio destro «Sono la regina indiscussa del qui presente regno di Vynumeer e dei suoi abitanti! Ossia io. Che oltretutto non abito qui per davvero».

Anise”.
Beerus lo trovava un bel nome. Si lasciò scappare una mezza risata: il ghiaccio ormai era definitivamente rotto. «La vostra vita da regina dev’essere dura, maestà! Con tutte queste persone di cui occuparsi…»

«Lo è, soprattutto quando hanno voglia di biscotti alla cannella e in casa non ce n’è neppure un grammo» replicò Anise «Ma non divaghiamo: hai delle domande cui devi rispondere, anche se sei una persona molto importante. Perché mi hai seguita fin qui?»

«Vuoi la verità? L’ho fatto per dirtene quattro!» esclamò, incrociando le braccia davanti al petto «Lasciarsi cadere in quel modo nello strapiombo è da imprudenti, se non si è in grado di volare. Ho pensato che fossi caduta e ti fossi fatta male, o peggio. Se avevi intuito che non volevo farti del male, perché accidenti lo hai fatto?!»

«Perché era piena notte, c’era un ragazzo alieno sconosciuto che mi stava osservando, e sebbene avessi intuito l’assenza di brutte intenzioni ho deciso di allontanarmi per sicurezza» ribatté lei «Puoi biasimarmi?... non che sia servito a molto, comunque, dal momento che ora siamo entrambi qui».

«D’accordo. Potevi evitare di farmi pensare male, ma ammetto che sei scappata via per motivi sensati» ammise Beerus «L’altro motivo per cui ti ho seguita comunque è questo» disse, e tirò fuori dalla tasca la “scatola del suono”, come la definiva lui «Te l’ho riportata. Tieni».

«Grazie per avermi riportato il mio za sviranje, Lord Beerus» disse Anise con gentilezza, sorridendogli nel riprendersi l’oggetto.

«Avete il permesso di chiamarmi solo Beerus, maestà, e sappiate che è un onore che non concedo a tutte le regine. Anzi, al momento siete la sola alla quale abbia permesso tanto!»

Lei sorrise ancora. Era evidente che pensasse che lui stesse scherzando, senza sapere che invece quella che le aveva appena detto era la pura verità. «Addirittura… allora passiamo all’altra mia domanda, Beerus: come mi hai trovata?»

«Quando ti ho vista cadere sono volato giù a cercarti, poi non trovandoti sono volato su lungo la parete rocciosa, ho visto il tunnel e-»

«Aspetta: cosa significa che “sei volato” su e giù?» lo interruppe la Lusan, alquanto perplessa.

«Cosa vuoi che significhi? Che sono volato, no? Così!» esclamò l’Hakaishin, alzandosi in volo davanti a lei.

Da perplessa che era, l’espressione di Anise divenne allibita. Vedendo ciò, e ricordando che i Lusan non volavano, Beerus temette di aver commesso un’imperdonabile leggerezza.

«Ciò conferma la mia teoria, questo è un sogno» dichiarò Anise «E tra un po’mi risveglierò nel mio letto. Avrei dovuto capirlo già da quando hai parlato del sogno profetico e del frutto: quale persona si addentrerebbe nella foresta in piena notte per cercare un frutto dopo averlo sognato? Sarebbe stupido».

«Non è affatto stupido!» protestò Beerus «E comunque il frutto non l’ho precisamente sognato, mi ero soltanto convinto della sua presenza».

«Per non parlare del fatto che un ragazzo alieno sconosciuto che segue di notte una ragazza sola senza avere brutte intenzioni non si è mai visto» continuò lei, imperterrita «Quindi niente, può essere solo un sogno, il che rende il volo una cosa plausibile».

«Ti assicuro che non è un sogno, Anise: è tutto vero, e io sono davvero in grado di volare. Oggi io e il maestro Whis siamo stati nella cittadina più vicina alla foresta» le disse, atterrando a poca distanza da lei «E mi è stato detto che l’arrivo di alieni non è una novità per voi Lusan. Non credo di essere il primo di essi in grado di volare ad aver messo piede qui».

«Non lo sei» ammise lei «Ma gli arrivi di alieni non sono mai stati una quantità spropositata, e il numero di quelli in grado di volare è persino minore. Credo che la mia sorpresa sia dovuta a un insieme di cose, non ultimo il fatto che… insomma, ti sei davvero messo a vagare nella foresta per quella ragione?»

«Sì, ti dico! Però devo confessarlo: pur non avendo trovato il mio frutto, e pur essendomi preso un accidente per colpa di una Lusan finta suicida, mi ritengo piuttosto soddisfatto».

Anise fece spallucce. «Contento tu. Comunque… il tuo maestro non si preoccupa per la tua assenza?»

«È lui che mi ha mollato da solo nella foresta» sbuffò Beerus «In un modo o nell’altro avrei ritrovato almeno la strada per la cittadina, e credimi se ti dico che in generale non ho nulla da temere, ma il punto è che non è stato affatto un bel gesto».

«Questo però non vuol dire che non si stia chiedendo dove sei finito, soprattutto se è passato diverso tempo. Se si aspettava che tornassi indietro potrebbe pensare male, non vedendoti tornare».

Quello era forse un tentativo di congedarlo? Perché? Sembrava star andando tutto bene! Avevano rotto il ghiaccio e stavano parlando tranquillamente, e una volta risolta la questione del volo non riusciva a capire cosa potesse aver fatto di sbagliato.

«Non voglio mandarti via. Ho solo pensato al tuo maestro, tutto qui».

Il dio sgranò gli occhi. «Tu… sei in grado di leggere nel pensiero?»

Anise scosse la testa. «No. Tu hai un viso molto espressivo, io ho collegato la faccia che hai fatto a quello che ho detto, ho riflettuto e ho concluso che potessi aver mal interpretato le mie parole. Ti sei ricomposto in fretta, ma non abbastanza».

Era una faccenda strana, e Beerus non era in grado di capire se gli facesse piacere oppure no; non riuscendo a decidere, pensò che soprassedere fosse la cosa migliore. «Comprendo. In ogni caso, conosco abbastanza Whis da sapere che non sta impazzendo dalla preoccupazione, e non posso tornare alla cittadina. Per te sarà pure un’abitudine, ma io non intendo lasciarti qui da sola. È da quando ho messo piede in questo posto che ho addosso una sensazione spiacevole» le confessò, guardandosi attorno «Non so perché».

«Eccone un altro» sospirò Anise «Ti sei fatto influenzare da quelle storie imbecilli che girano a Ulthmeer riguardo questo posto, vero?»

«Quali storie?» le domandò l’Hakaishin, ancor più guardingo.

«La tua è solo suggestione» minimizzò lei, senza rispondergli «Per il resto, io sono cresciuta nella cittadina in cui sei stato oggi -ossia Ulthmeer- e vengo qui da sola da quando avevo cinque anni: penso di potermi considerare abbastanza esperta del luogo, ormai».

Tralasciando l’opinione di Beerus sul fatto che a una piccola lince fosse permesso allontanarsi così tanto da casa -per chi non volava, la strada da Ulthmeer a Vynumeer era tanta- in completa solitudine, non era affatto felice all’idea di lasciarla lì, checché lei ne dicesse. «Ne sono sicuro, ma questo per me non cambia le cose».

«Conosco questo posto molto meglio di quanto conosca te, visto che siamo poco più di due estranei. Probabilmente mi consideri una fanciulla in potenziale pericolo, stai agendo di conseguenza e in un certo senso è anche una cosa, diciamo, carina… ma ti assicuro che non ho bisogno di un baldo forestiero che mi protegga. Chissà da cosa, poi».

«Non so neppure io da cosa, o l’avrei già distrutto» ribatté lui.

«Addirittura distruggerlo? La vedo difficile».

«Non per me! Io… ah, e va bene! Non volevo dirlo, non già questa sera, ma se lo faccio magari prenderai seriamente quel che ti ho detto» fece una pausa «Oggi a Ulthmeer ho visto che voi Lusan sapete cos’è un Hakaishin…»

«Siamo arretrati per varie ragioni, inclusa l’ultima guerra, ma non siamo così tanto “bestie” da non sapere che esiste il Dio della Distruzione» replicò lei.

«Sono io, Anise. Io sono l’Hakaishin di questo Universo».

La Lusan lo fissò per qualche istante, senza apparire troppo convinta. «Saresti un dio piuttosto piccolo, come età».

«Piccolo?! Ho diciotto anni, io!» protestò Beerus «E il mio maestro dice che sono molto più forte di vari miei colleghi più vecchi di me!»

«Colleghi? Di Hakaishin ce ne è solo uno».

«Uno per Universo» la corresse Beerus «Ce ne sono dodici. Questo è il settimo».

«D’accordo, credo di averne sentite abbastanza per stasera. Perdonami, ma crederti mi risulta difficile».

Il dio sospirò nervosamente, dicendosi che c’era da aspettarselo, e si guardò attorno. «Dimmi un po’: quel costone roccioso ti piace?» le chiese, indicandone uno a una certa distanza dal lago.

Anise lo guardò con aria perplessa. «Sono rocce. Non mi fanno né caldo né freddo. Forse impiccia un po’, senza quello si vedrebbe il resto della foresta».

Beerus tese un braccio davanti a sé, col palmo della mano dritto. «Benissimo. Hakai».

Appena finì di parlare, il costone roccioso venne avvolto da un alone viola, per poi disgregarsi sotto lo sguardo attonito della ragazza.
Il panorama era indubbiamente migliorato.

«Va bene» disse Anise, dopo qualche istante di silenzio «Tu sei l’Hakaishin di questo Universo, e io credo di dovermi sedere da qualche parte… anzi, no, non ne ho bisogno».

Era una reazione normale, Beerus ne era consapevole, ma se ne dispiacque ugualmente. «Volevo solo che mi credessi, non volevo spaventarti».

«Sono un po’scossa per via del tuo potere» disse lei «Ma tu sei la persona che eri fino a un minuto fa. Se non avevi brutte intenzioni prima, non dovresti averne neppure adesso. Giusto?»

«Esatto!» esclamò il dio, un po’sollevato «Sono sempre quello del frutto, non dimenticarlo».

«Dimenticare una stupidaggine come questa è impossibile» sorrise la Lusan.

«Attenta a come parlate, maestà: vi state rivolgendo a un dio!» la rimproverò lui, scherzosamente.

«Resta comunque una stupidaggine».

«Ehi!... ad ogni modo, ora che sai che sono un dio prenderai sul serio quel che ho detto su questo posto? Non so com’è gli altri giorni, ma al momento percepisco qualcosa di strano. In caso contrario non insisterei».

«Ti credo, ma continuo a non capire il motivo. Per non parlare del fatto che sono un po’stanca, tra l’ora tarda e tutto» aggiunse «Se non ci fossi tu, probabilmente starei già dormendo qui».

«Qui?»

«Nell’edificio ho cuscini, coperte e altro. In questa stagione spesso dormo fuori, sotto le stelle, e… sai cosa?» Anise sollevò lo sguardo «Se è vero che il tuo maestro non si preoccupa, puoi farmi compagnia».

Beerus sgranò gli occhi, stupito di quella proposta e felice sia della fiducia che gli era stata concessa, sia del fatto che lei non si fosse spaventata più di tanto sapendo di avere a che fare con un Hakaishin. «A me sta bene. Però sono un po’stupito».

«Io lo sono di più» ribatté lei, scomparendo all’interno dell’edificio per poi tornare fuori con due cuscini e due coperte «Non ho mai amato molto la compagnia delle altre persone. È uno dei motivi per cui vivo da sola nella foresta. Tieni».

Beerus prese un cuscino e una coperta. «Credevo vivessi a Ulthmeer».

Lei scosse la testa e si sdraiò a terra, imbozzolandosi nella sua coperta. «Non più. Oidhche gishery, Beerus».

«Eh?»

«Significa “buonanotte”. Se saltasse fuori un mostro mentre dormo, tu distruggilo, mi raccomando».

“No, direi che nonostante tutto non prenda ancora sul serio quel che ho detto su Vynumeer. O beh” sospirò, sdraiandosi accanto a lei “Magari è davvero un’impressione sbagliata, se lei viene qui da anni e non le è mai capitato nulla”. «Contaci. Buonanotte, Anise».

La terrazza non era comoda come il morbidissimo letto cui Beerus era abituato, ma non passò molto tempo prima che entrambi si addormentassero, chi per la stanchezza, chi per la tranquillità, o per entrambe le cose.

Lord Beerus si risvegliò alle undici del mattino successivo, immerso nella più totale confusione post- sonno.

«Maestro Whis, dov’è la mia colazione?» bofonchiò, stropicciandosi gli occhi «Non ricordavo che il materasso fosse così duro…»

Fu solo tastandolo che si rese conto che il materasso non era tale, e a quel punto ricordò di trovarsi su una terrazza di legno in un villaggio fantasma insieme a una giovane Lusan di nome Anise.

Almeno in teoria, perché di lei non c’era traccia.

Si alzò in piedi di scatto, improvvisamente sveglissimo: addormentarsi era stato un errore, le era sicuramente successo qualcosa, e-
Un momento... non ricordava la presenza di quei dodici frutti accanto a lui, e nemmeno quella di un biglietto. Si chinò a raccoglierlo, incuriosito.


Un tributo al dio dei cercatori di frutta (poco abili).

Ti regalo anche la coperta.

A.




«Ma guarda un po’che insolente!» commentò Beerus, intascando il biglietto senza riuscire a evitare di sorridere.

Raccolse uno dei frutti più grossi, una grossa bacca rotonda di colore rosato, e l’addentò.

«È buonissimooooooooo!» esclamò, contento come una Pasqua «Lo dicevo io, che in quella foresta c’era qualcosa di buono da mangiare!»

Fu proprio in quel momento che Whis comparve accanto a lui senza alcun preavviso. «Sei veramente un gran testardo, lo sai? Hai preferito passare la notte all’addiaccio, piuttosto che darmi ascolto!»

«Esatto, e ho anche trovato quello che cercavo» sogghignò Beerus, passato il momento di sorpresa, sventolando una bacca davanti al volto dell’angelo «Sono i frutti più dolci, succosi e saporiti che abbia mai mangiato... e sono miei!» dichiarò, usando la coperta per infagottare i dieci rimasti «Tutti miei!»

«È ingeneroso da parte tua non condividere il cibo con chi si prende cura di te» disse Whis.

«Certo, perché dopo avermi abbandonato te lo meriti proprio! Torniamo a casa, dai. Ho trovato quello che cercavo».

“E anche qualcosa in più”.
Non si era sentito di dire al suo maestro di aver incontrato una ragazza e di aver voglia di rivederla: sapeva che Whis voleva che lui si concentrasse sul suo compito e sugli allenamenti, e avendo appena conosciuto Anise riteneva prematuro parlargli di lei, ma avrebbe trovato il modo di incontrarla ancora senza che Whis lo venisse a sapere… e lo avrebbe fatto molto presto.





Non ci credo, l’ho iniziata sul serio :”D
Ringrazio tutti coloro che hanno letto fin qui, e le persone che in “Reflecting Mirrors” hanno mostrato interesse per il qui presente prequel con questo Beerus giovanissimo e all’inizio piuttosto imbranato :”D

P.s.: se vi interessa vi lascio il link della melodia della "scatola che suona" (perché carillon era troppo semplice :"D)


Qui sotto, un tentativo di disegnare Anise sull’altalena (non sono in grado di fare gli sfondi, quindi niente, non li faccio :”D)



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