# Zio
Lo
zio Mike è. Era uno tosto. Voglio dire. Uno tosto davvero.
Uno
di quelli sempre pronti a darti una mano. E per me c’è sempre stato, quando
avevo bisogno. E anche quando non ne avevo. O non ne volevo.
È
stato lo zio Mike a pagarmi quel viaggio che volevo fare. A Springfield. A
vedere la tomba di Lincoln. Sì: ridete pure. Ma se porti il nome di un
presidente, lo devi aver pur visto il posto dove è sepolto. No? Tanto più se è
anche nello stato in cui sei nato.
Ecco.
Lo zio Mike mi ha pagato il viaggio. E mi ci ha accompagnato, anche. Perché di farmici andare da solo la mamma proprio non ne voleva
sapere. Ma con lo zio Mike. Con lo zio Michael sì.
Ed è
stato lo zio Mike a tirarmi fuori dai guai. Una volta. Più di una volta, a dire
il vero. Quando papà. Sì; insomma. Quando papà non c’era e io il mio patrigno
non lo reggevo. Proprio per nulla.
Non
era molto affettuoso, lo zio Mike.
Cioè:
non è mai stato tipo da baci, abbracci e moine. Ma ti guardava. Ecco: a volte ti
guardava. Non so. Ti guardava come se ti facesse sentire il centro del mondo. E
quando ti abbracciava. E, giuro, non capitava spesso. Ma. Dio. Quando lo zio
Mike mi abbracciava mi sentivo al sicuro. Davvero al sicuro. Perché era magro;
cazzo se era magro. Non era robusto come papà; e nemmeno come lo sono diventato
io. Ma. Ma era forte. Io lo sentivo forte. Fortissimo. Invincibile. E sapevo
che lì, in quell’abbraccio, ero al sicuro. Che mi avrebbe protetto da tutto. E
da tutti.
Io me
lo ricordo così, lo zio Mike.
Mentre
mi prende la testa fra le mani. Quella mani grandi e nervose che non riusciva
mai a tenere fermo. Me lo ricordo così, che mi prendeva la testa fra le mani e
me la premeva contro la sua fronte. Vicino. Così vicino che ci vedevo doppio e
dovevo chiudere gli occhi. Ma lo faceva. E mi sussurrava che sarebbe andato
tutto bene. Che le cose si sarebbero aggiusta e papà sarebbe tornato. Da noi.
Da me.
Lo
zio Mike ci ha sempre creduto in mio papà. Anche quando era incazzato, ma
proprio incazzato incazzato. Perché mio papà era un
campione nel fare le scelte sbagliate. Anche per i motivi giusti. E di solito
era lo zio Mike che ce lo doveva tirare fuori. Ma anche allora. Anche allora
poi mi chiamava. E mi diceva che le cose da grandi sono complicate. Che a volte
i grandi litigano, ma che io non ci devo pensare.
Perché
papà mi vuole bene. Mi vuole un mondo di bene. E anche lui. Anche lui me ne
vuole. E che per me ci sarebbero sempre stati. Mio papà. E lui.
Ed
era vero. È sempre stato vero.
Quando
succedeva. Quando mio padre finiva nei guai, lo zio Mike c’era, per me. Mi
veniva a prendere e andavamo al parco. Magari restavamo seduti su una panchina
per ore, in silenzio; magari camminavamo un po’. Non parlava molto, ma stava
con me. Stava sempre con me, se succedeva qualcosa a mio padre.
E
poi. Poi mi faceva i pancakes ai mirtilli.
Facevano
schifo. Cioè. Facevano davvero schifo. Lo zio Mike era bravo in tante cose, ma
i pancakes proprio non li ha mai saputi fare. Ma ci
provava lo stesso. Perché sapeva che erano i miei preferiti. E sapeva che mi
ricordavano mio padre.
Non
gliel’ho mai detto. Non gli ho mai detto che quei pancakes
erano orribili, ma che io ero contento lo stesso. E adesso, ogni tanto, quando
succede qualcosa. Quando succede qualcosa di brutto, o sono giù. In quelle
occasioni li vorrei mangiare ancora, i pancakes dello
zio Mike.
E
siamo arrivati al quinto tassello di questo ritratto a mosaico.
Dopo
il marito, il padre e il fratello, arriva lo zio. O meglio: la voce del nipote.
E
devo ammettere che scrivere di L.J. è stato difficile
e stimolante assieme. Perché del rapporto che questi due hanno (e ce l’hanno.
Oh, se ce l’hanno. È certo da alcune frasi) non sappiamo niente. Nemmeno una cippa.
C’è
qualche abbraccio; c’è qualche parola buttata lì per caso. Ma nulla di
definito. Nulla di preciso. Solo molto fumo. Ed è anche un peccato che, di
fatto, a un certo punto L.J. sparisca (manco è
nominato, nell’ultima serie!). Va bene non renderlo il motore dell’azione ma,
dico io! Linc ha fatto i salti mortali per
riavvicinarsi a questo figlio che gli scappava fra le mani; e Michael gli vuole
bene. Lo si vede. Anche prima di finire in prigione gli vuole bene. Per lui è
importante. Eppure. Puff! Finito l’uso, finito il
personaggio.
Un
po’ come è successo con Veronica.
Peccato.
Un vero peccato.
E
allora, visto che comunque la parola uncle sulla tomba c’è (e qualcuno – leggi L.J. – deve aver insistito per mettercela) non potevo
sottrarmi. Via, allora.
Immaginando
questo rapporto di padre putativo-surrogato di
Michael con un ragazzino che va crescendo, che odia suo padre solo perché amare
un padre che non c’è e si mette nei guai una volta sì e l’altra pure è solo
troppo difficile. La rabbia, molto spesso, è più comoda dell’amore. Soprattutto
in un ragazzino; soprattutto in un adolescente.
Quindi:
mi sono divertita ha vedere Michael attraverso gli occhi di un adolescente. Una
specie di eroe salvatore senza spada e con poche parole in bocca. Un eroe con
un’armatura di latta che può diventare la padella di un pancakes.
Forse
con L.J. esce (o almeno a me piace pensare che esca)
il Michael della quotidianità, quello che era prima del carcere, prima di
tutto. Quello che era semplicemente come uomo di tutti i giorni. Troppo
arrabbiato con il fratello per parlare; e troppo legato a lui e alla sua
famiglia per abbandonare un nipote-bambino a se stesso.
E
comunque sì: Michael non sa cucinare! Non si può essere bravi in tutto, no? E
visto che la perfezione non esiste (nemmeno nelle storie) un difetto dovevo
pure trovarcelo! Quindi: è una schiappa in cucina. Roba da lavanda gastrica.
Sarà forse per questo che Linc ama cucinare? E quei pancakes ai mirtilli dovevano avere un ruolo.
Assolutamente! Altrimenti erano un po’ troppo sprecati. Anche se forse sono uno
dei protagonisti dell’episodio di attesa dell’esecuzione.