Siamo seduti
vicino al tronco dello stesso albero sotto cui mi sono rintanato prima
di suonare e prima di… beh, quello che è
successo. Ram è appoggiata al tronco, gli occhi fissi al
cielo. Le nuvole ancora dipingono pennellate di grigio nel cielo blu,
ma hanno lasciato libera la luna che ora splende solitaria in tutto la
sua magnificenza.
«E
così, sei una che fa incazzare parecchia gente,
eh!»
Non è la
frase migliore con cui rompere il gelo che sento, ma siamo qui fuori da
dieci minuti buoni e l’unico suono che è uscito
dalle nostre bocche sono stati sospiri. Era necessario che iniziassi a
parlare e il mio cervello ha fatto il solito casino.
Ram stacca gli occhi dal
cielo e mi fissa in un modo che per me è del tutto nuovo sul
suo viso. Non sta ridendo, a ragione non ha apprezzato il mio tentativo
di ironia. Non è arrabbiata, non è triste, sui
suoi tratti non c’è nessuna increspatura che possa
rivelare un sentimento o un pensiero. Impassibile, come una statua di
cera.
«Scusami di
nuovo, Ram. Non so che mi prende! Non riesco a dire o fare niente di
sensato stasera.»
Lei si volta di nuovo a
guardare la luna, la stessa espressione fissa sul volto. Mi maledico,
abbasso lo sguardo a guardarmi le mani e desidero vivamente darmi un
pugno in faccia da stordirmi. Torno a osservare il suo profilo
silenzioso. Mi sento inutile, non ho idea di cosa poter fare. Dopo
tutto, come potrei averne? Ram mi ha stregato, tutto di lei sembra
parlare direttamente al mio cuore, ma la verità è
che io non la conosco, non so nulla di lei tranne che sembra attirare
gli psicopatici come una calamita.
D’improvviso
la vedo alzarsi, non di scatto, molto lentamente, con le movenze di una
scena rallenty. Incapace di muovermi, resto fermo a terra, mentre lei
sta già togliendo la polvere dai pantaloni.
«Potresti
chiamare un taxi? Vorrei tornare al mio hotel.» la sua voce
è a mala pena percettibile, poco più di un
sussurro.
Salto in piedi, tanto
veloce da avere l’effetto faccia da clown che viene sparata
fuori da una scatola a molla. Tiro fuori il cellulare dalla tasca dei
jeans, cerco velocemente il numero del servizio taxi romano su Google e
avvio la chiamata. Ram ha abbassato la testa, si fissa la punta delle
scarpe. Il centralinista risponde poco prima che la linea cada, detto
l’indirizzo, ci vorrà circa un quarto
d’ora, ringrazio e saluto.
«Grazie.»
sussurra di nuovo. Stavolta mi guarda, ma solo per un attimo.
Si muove verso
l’entrata del salone, mantenendo il suo andamento lento.
Ancora immobilizzato, la osservo mentre nella mia mente si combatte una
indicibile guerra di reazioni. Si ferma sulla soglia, si volta.
«Mi
accompagneresti?»
Esito un attimo.
«Certo. Devo solo avvisare i ragazzi.»
«Io devo
cercare Rebecca. Ci vediamo al portone d’uscita.»
lo dice rapidamente e si infiltra tra la gente, mentre gli Aereosmith
stanno concludendo Let The Music Do The Talking.
Sospiro. Cosa diavolo ho
combinato? Cosa c’è dietro questa ragazza? Cosa
nasconde il suo passato? Da dove vengono i suoi fantasmi? E,
soprattutto, mi lascerà aiutarla a sconfiggerli?
Non cerco subito Rebecca, ma filo in bagno. Due ragazze mi lanciano
un’occhiataccia perché sono entrata
nell’anticamera con troppa foga. Raggiungo il lavandino e
mando a fanculo il trucco anni ‘80 buttandomi sotto il getto
d’acqua fredda. Mi guardo nello specchio.
L’espressione schifata delle due tipe si riflette chiara e
anticipa la loro fuga. Non posso biasimarle, d’altronde. La
mia faccia sembra uscita da una sceneggiatura horror. Il fondotinta si
è raggrumato in piccoli accumuli molli, il mascara e
l’ombretto sono colati in lunghe righe disordinate sulle
guance, il rossetto si è spalmato oltre le labbra ricordando
il sorriso del Jocker di Heath Ledger. Gli occhi sono arrossati e li
vedo lucidarsi. Sto per piangere.
Mi sono bloccata. Quanto tempo è passato
dall’ultima volta in cui è successo? Lo odio. Mi
odio. Ho appena buttato anni di lavoro della dottoressa De Simone nel
cesso. Sono retrocessa, ho disimparato il modo in cui tenere sotto
controllo le emozioni forti, mi sono lasciata sopraffare. E invitare
Tommaso ad accompagnarmi in hotel? Un colpo di genio, no?
Crederà che sono solo una disturbata circondata da pazzi e
in cerca di sesso facile. E lui ha accettato, da vero porco. No,
è solo un uomo, uno come gli altri, un altro che ho
sopravvalutato. Ma dopo tutto, non lo conosco per nulla.
La porta si apre di nuovo. La ragazza che entra si blocca un attimo
quando mi vede, ma decide saggiamente di far finta di nulla e si chiude
velocemente dietro una delle porte interne. È ora di andare,
devo sbrigarmi. Afferro un bel po’ di carta dal distributore
e la uso per togliere alla meno peggio il disastro che ho in viso.
Riesco con un po’ di sforzo a ottenere un risultato quasi
decente, i rossori sono evidenti ma spero non si noti con le luci
basse. Sento il rumore dello sciacquone, la ragazza esce dal bagno e si
avvicina al secondo rubinetto. Mi osserva di sfuggita cercando di non
farsi notare. Le sorrido, ricambia, le faccio tenerezza, forse pena.
Esce, chissà se si sta chiedendo il perché o se
sta pensando a quando era lei a piangere in un bagno da sola con una
sconosciuta che si preoccupa per te.
Guardo l’ora, il taxi sarà quasi arrivato e io
devo ancora trovare Reb. Torno in sala. La trovo totalmente al buio se
non per le piccole fiammelle di accendini che formano uno strano cielo
artificiale. Una folata di emozione mi scuote. La band sta suonando I
Don't Want to Miss a Thing, una meraviglia di canzone a cui non si
può restare impassibili. Mi appoggio di nuovo al muro,
chiudo gli occhi. Rivedo le scene di Armageddon passarmi nella mente,
Ben Affleck e Liv Tyler che si baciano contro la luce del tramonto
giocando con crackers a forma di animale, lo sguardo psicopatico di
Steve Buscemi, Bruce Willis che si sacrifica per la figlia. Il volto di
mio padre lo sostituisce d’improvviso. Apro gli occhi, scuoto
la testa, ricominciare a piangere adesso equivarrebbe a crollare di
nuovo. Respiro profondamente, creando un’immagine mentale che
possa rilassarmi.
Una spiaggia all’alba, il mare che accarezza placidamente la
sabbia, le nuvole che si tingono di rosa e arancione, indosso un
vestito bianco che svolazza portato dal vento, delle mani mi
accarezzano il viso coprendomi gli occhi, le mie labbra vengono
raggiunte da altre labbra morbide che mi baciano con tenerezza, lascia
liberi i miei occhi, è Tommaso.
I just wanna hold you close,
Feel your heart so close to mine
And just stay here in this moment
For all the rest of time.
Resto in questa immagine finché la musica non termina e
l’intera sala applaude commossa la band. Tommaso è
realmente di fronte a me.
«Scusa, ti ho vista sovrappensiero e non volevo farti
spaventare di nuovo.»
«Devo cercare ancora Reb.»
«Ok. Il taxi è arrivato, esco a
fermarlo.»
«Grazie.»
Cosa mi hai fatto Tommaso? Chi sei? Come hai fatto a entrare
così nel profondo dei miei pensieri?
Il taxi si ferma, dopo
una corsa di venticinque minuti in totale silenzio, di fronte a un tre
stelle dall’aspetto elegante. Ram è rimasta
immobile a fissare fuori dal finestrino per tutto il tempo,
tormentandosi la punta delle dita con le unghie. Frugo nelle tasche
interne della giacca per trovare il portafoglio, ma lei, continuando a
non dire una parola, mi blocca e porge una prepagata al taxista che,
sbuffando, la inserisce all’interno del POS portatile. Mentre
riceve il tastierino per il pin, gli porge un foglio indicando che le
serve la ricevuta per il rimborso spese. Il taxista sbuffa ancora di
più e afferra il blocchetto. Ram estrae da sola la carta,
preleva lo scontrino e aspetta la ricevuta, poi, come non fossi insieme
a lei, augura una buona serata e scende dall’auto.
«Lei continua
la corsa?»
«No, scusi,
scendo subito. Buon lavoro.»
Il taxista mi
dà un’ultima occhiata incazzata dallo specchietto
retrovisore, mentre mi precipito fuori dal veicolo.
Ram ha attraversato la
strada e si è seduta sugli scalini dell’ingresso,
fissa di nuovo il cielo, continua il silenzio. Siedo vicino a lei, le
nubi si son fatte di nuovo dense e si stanno scurendo, l’aria
si è fatta più fredda, la giacca di pelle non
basta più. Mi chiedo se anche lei lo sente. Mi volto a
osservarla. Ancora con il naso all’insù, trema
leggermente, ma non potrei giurare che si tratti solo di freddo.
«Andate
via!» una voce alle nostre spalle ci fa trasalire.
Ci voltiamo di scatto,
da seduto il receptionist sembra un gigante pronto a schiacciare due
formichine. Scatto in piedi tirando Ram per il braccio. La situazione
non cambia molto, è comunque quasi una spanna più
alto di me.
«Non potete
stare sulle scale! Dovete andarvene.»
«Certo.
Andiamo via immediatamente.»
«Sarà
meglio che vi sbrighiate se non volete che vi porti via io.»
«Mi scusi
signore» lo interrompe Ram. «Io non credo di dover
andare via. Sono un ospite dell’hotel, stanza
tre-sette-quattro.»
«E io sono
Babbo Natale arrivato in anticipo.» Incrocia le braccia sul
petto e ci guarda sarcastico.
«Guardi che
non sto scherzando.» estrae i suoi documenti dalla borsetta e
glieli porge. «La pregherei di controllare e poi tornare a
scusarsi con me e con il mio amico. O preferisce che sia il suo
direttore a controllare al suo posto?» Sul suo volto compare
un sorriso al vetriolo.
Il gigante continua a
guardarci male ma afferra la carta d’identità e
rientra nella hall, stando attento a chiudere bene la porta alle sue
spalle. Ne esce cinque minuti dopo con le pive nel sacco. Porge
stizzito i documenti a Ram.
«Mi scusi
signorina Centini. Non l’avevo riconosciuta.» Apre
la porta. «Si accomodi pure. Entra con lei anche il suo
amico?»
«Sì.»
dice Ram, con un tono da saputella che farebbe girare le scatole a
chiunque. Attraversa impettita la soglia, mi fa cenno di sbrigarmi a
seguirla.
Il gigante rientra
subito dopo di noi, richiude la porta e va a rintanarsi dietro il
bancone. Ci porge la chiave magnetica. Lei l’afferra, ancora
con il sorriso da stronza. La seguo mentre ondeggia verso
l’ascensore. Un attimo prima che le porte si chiudano, sfotte
il gigante salutandolo con la mano.
Una volta al sicuro
dentro l’ascensore, scoppia a ridere. Una risata isterica,
senza freno, liberatoria. Le vado dietro.
«L’hai
proprio distrutto nell’onore. Sei stata senza
pietà.»
«Ehi! Ha
iniziato lui. Ha voluto disturbarci. Cosa avremmo potuto fare di male
seduti su quegli scalini?»
Indico la nostra
immagine riflessa nello specchio laterale «Puoi dargli torto?
Guardaci. Sembriamo due tossici.»
Si avvicina allo
specchio e con le dita cerca di tirare via un po’ di nero da
sotto gli occhi. Ha il viso sfatto, il trucco sciolto, i capelli
scompigliati, ma è comunque bellissima.
L’ascensore termina la corsa, usciamo in corridoio e
arriviamo alla sua stanza.
«Ti offro da
bere e poi chiamiamo un taxi che ti riporti a casa. Ti va?»
«Ok»
Ho la gola improvvisamente secca.
Apre il frigo bar e ne
esce una piccola bottiglia di prosecco. «Questa mi sa che non
posso addebitarla sulla carta aziendale.» ride.
«Potrebbero
esserci dei problemi, sì.» Cosa sto dicendo? Come
sto ridendo? Mi sento un’idiota.
«Aspettami
qui. Vado un attimo a togliermi questo cerone dal viso e a mettermi
qualcosa di decente addosso.»
Si chiude in bagno. Mi
osservo intorno. La stanza non è troppo grande ma
è sistemata con molta raffinatezza. C’è
un piccolo balcone, con vista sulla città. Sento
l’improvvisa necessità di prendere aria. Esco
fuori, un brivido mi scuote, c’è sentore di
pioggia nell’aria.
«Non ne potevo
più!»
Ram esce dal bagno con
addosso una tuta abbondante, ha tolto ogni filo di trucco sbavato e ha
raccolto i capelli in una crocchia frettolosa. La mia mente viaggia e
la immagina in questo modo accoccolata sul divano di casa dopo cena.
Afferra il piumone
aggiuntivo dentro l’armadio, la bottiglia di prosecco e mi
raggiunge. Ci sediamo avvicinando tra loro le sedie e mettiamo il
piumone sulle spalle per riscaldarci. Ram stappa la bottiglia e me la
porge.
«Scusa, non ho
trovato i bicchieri. Puoi accontentarti?»
Bevo a collo un paio di
sorsi, le ripasso la bottiglia, beve anche lei.
«Bello qui,
vero? L’azienda per cui lavoravo prima era di un altro
stampo. Tutta hotel super lusso, stanza enormi, vasche idromassaggio.
Ma anche qui non è male, questo hotel è carino. A
parte il gorillone lì sotto, certo. Voi dove alloggiate?
Siete in centro?»
«No,
è un appartamento in periferia. Squallido ma serve allo
scopo.»
«Siete venuti
per la serata di stasera?»
«In
realtà quella è venuta dopo...»
Le racconto di De Blasi,
del nostro colloquio con lui. Iniziamo a parlare di lavoro, di me che
l’ho perso e di lei che ne ha iniziato uno nuovo, di cosa ci
sarebbe piaciuto fare da grandi - lei sognava di fare la professoressa
-, di quanto lontani o vicini ci troviamo dal realizzare i nostri sogni
o dal cambiarli. Ci ritroviamo a parlare di noi, a conoscerci ancora.
La osservo aprirsi con me, come se tutto quello che è
successo oggi non fosse mai esistito. Provo il forte desiderio di
abbracciarla, ma non lo faccio. Sto fermo ad ascoltarla.
«Ti va di
parlarmi della madre di tua figlia? Cosa è
successo?»
Eccoci qui, aspettavo
con timore il momento in cui saremmo arrivati a questa domanda. Eppure
parlarne con lei si rivela più facile del previsto. Le
racconto tutto, dall’inizio, da quando conobbi Simona alle
superiori. La nostra storia, gli alti, i bassi, i momenti dolci da far
scoppiare il cuore, i litigi, di quando abbiamo deciso di sposarci, di
quando la piccola Rose è arrivata come il più
bell’imprevisto che potesse donarci il destino. E poi del
declino, dei silenzi, della routine, dei segreti, del tradimento con
Davide, di come me l’ha confessato con il suo sguardo
colpevole seduto nel vicolo di casa mia, della lettera e di come
è sparita per sempre. O almeno spero.
«Incredibile.
Deve essere stato un colpo tragico per te. Ecco perché ti
comportavi in modo così strano la sera che ci siamo
conosciuti.i»
«Strano? Mi
sono chiuso in bagno come una dodicenne alle prime mestruazioni. Dire
“strano” è farmi un
complimento.»
«Non volevo
essere così drastica.» ride.
«Mi dispiace
che ci siamo conosciuti in quel modo.»
«A me no.
Forse era l’unico modo per poterti conoscere.» Mi
guarda fisso negli occhi, un sorriso dolce le increspa le labbra. Dio,
quanto è bella. «E a me ha fatto davvero molto
piacere conoscerti.»
«Anche a
me.» Continua a sorridermi.
Il silenzio si riempie
di elettricità, quella che creano le nostre cellule
attraendosi con sempre più forza. Stupido, baciala! Baciala
adesso. Non perdere un momento di più.
Invece lo perdo.
Ram tossisce, prende di
nuovo la bottiglia e beve la metà di quello che ne rimane,
la passa a me per finirla.
«Grazie di
avermi raccontato la tua storia.»
«Figurati!
Quello che non ti uccide ti rende più forte.»
sorrido e mando giù il resto del prosecco, ma vedo il suo
viso trasformarsi tornando serio.
«Questa cosa
è una balla. Quello che non ti uccide, ti ferisce gravemente
e le ferite sono ferite e basta. Si rimarginano, ma la cicatrice rimane
comunque. E ci sono cicatrici che ti sfregiano.»
I suoi occhi sono di
nuovo spenti, non reattivi.
Le afferro la mano,
sembra svegliarsi dal torpore.
«Ram, ti va di
raccontarmi della tua ferita?»
Ancora una volta, un capitolo accompagnato da una colonna sonora che vi consiglio stavolta tutta targata Aerosmith :)
Let The Music Do The Talking e la famosissima (e più recente) I Don't Want to Miss a Thing (e se non avete mai visto quel gran capolavoro di Armagheddon, cosa state aspettando a recuperarlo e versare tutte le lacrime che il vostro fisico è in grado di produrre?). |