Ghul scatenati, su Rieducational
Channel! Ringrazio come sempre tutti/e coloro che mi hanno seguito
fin qui, in particolare ringrazio per i commenti Saelde_und_Ehre,
morgengabe, LyaStark, innominetuo, fiore di girasole, Syila,
Crilu_98, minciaSissi e by a lady.
Capitolo
9
Era
l'alba quando Hermann condusse il cavallo fuori dalle scuderie di
Marienbrunnen. Dietro di lui, sbadigliando, Konrad faceva lo stesso
con il corsiero berbero.
“Non
siete obbligato a seguirmi,” gli disse il cavaliere, “ormai
conosco la strada.”
Per
tutta risposta, il ragazzo sistemò il sottopancia del suo purosangue
e si assicurò che fosse ben stretto. Hermann stava per dire qualcosa
quando sulla porta del dormitorio comparve fratello Hildebrand.
“Sei
già in partenza, figliolo?” gli chiese quest'ultimo.
“Sono
due giorni che manco, non posso più aspettare.” Strinse i denti.
“È ora di rimandare quel mostro nell'inferno dal quale è uscito.”
“Sì,
è l'unica cosa da fare.”
Hermann,
che stava assicurando alla sella l'involto con la spada, abbassò le
mani e si voltò verso di lui. Con voce dura disse: “Così tutti
capiranno che fratello Adalrich è innocente. Spero solo di arrivare
in tempo.”
Fratello
Hildebrand si avvicinò e gli batté una mano sulla spalla. “Se è
un uomo di polso, il feudatario impedirà qualsiasi cosa fino al mio
arrivo.”
“Il
guaio è che non so quanto lo sia. Quel prete, con rispetto parlando,
vuole un'esecuzione, e Adalrich è la vittima ideale, visto l'aspetto
che ha.”
L'altro
annuì grave. “Io non posso più cavalcare a lungo, quindi devo
muovermi con un carro, ma tu va avanti e impedisci a chiunque di
toccare il nostro confratello. Con le armi se è necessario.”
“Con
le armi?” ripeté il più giovane stupefatto.
“È
il compito a cui siamo chiamati: impedire con le armi l'opera del
Demonio. Ora va, e sia Dio la tua guida.”
Hermann
si limitò ad annuire, quindi montò in sella.
Allo
stesso tempo, anche Konrad salì a cavallo, poi con decisione disse:
“Andiamo, cavaliere.” Spronò l'animale, e pur con ampi gesti di
saluto ai frati riuniti nel cortile, si diresse deciso verso il
portone.
L'altro
lo seguì.
Per
un po' cavalcarono in silenzio, poi il ragazzo disse: “Vedrete, mio
padre non permetterà a nessuno di toccare fratello Adalrich.”
“Voglia
il Cielo che sia così,” rispose Hermann.
Di
nuovo calò il silenzio.
Incrociarono
un gruppo di viandanti, che alla vista del manto bianco dell'Ordine
si segnarono rispettosamente. Hermann rispose nello stesso modo,
pensando frattanto a quanti segni della croce si sarebbero fatti
quegli stessi uomini al passaggio di padre Gerold.
La
voce di Konrad lo distrasse dalle sue meditazioni: “Vi ho portato
nel posto giusto, vero, cavaliere?” Aveva l'aria fiera come se la
decisione di accompagnarlo a Marienbrunnen fosse stata sua.
L'altro
comunque annuì. “Sì, è stato Dio a porre sul mio cammino
fratello Hildebrand.”
“Mi
sembra una brava persona,” osservò il ragazzo.
“Se
c'è qualcuno in grado di aiutare Adalrich, è lui.”
Data
la rapida andatura che avevano mantenuto, arrivarono a Dürnau verso
metà pomeriggio. Probabilmente gli abitanti del paese li avevano
visti arrivare da lontano, e combattuti tra l'obbligo di porgere
omaggio al figlio del feudatario e il terrore che ormai instillava in
tutti la croce nera in campo bianco, avevano preferito non farsi
trovare in giro.
Il
due percorsero strade deserte e arrivarono al sagrato. Lì fratello
Hermann si fermò e smontò da cavallo, poi disse: “Aspettatemi
qui, devo controllare una cosa.”
“Che
cosa?”
“Avete
presente San Tommaso? Ecco, io sono come lui.”
Entrò
in chiesa. Si sarebbe aspettato di trovare padre Caspar, ma non
incontrò nemmeno lui, segno evidente che neanche il religioso voleva
rischiare di finire tra l'incudine del collega di Fulda e il martello
del barone von Obenstein.
Percorse
la navata e raggiunse la cappella in cui era stato collocato il
reliquiario del cosiddetto Sant'Atanasio. Corrusca di gemme, la cassa
riluceva illuminata da due candele. Sul coperchio mirabilmente
sbalzato erano raffigurate scene della vita del santo, incluso il
momento in cui il suo corpo incorrotto era stato miracolosamente
ritrovato dal giovane Konrad von Obenstein.
Inspirò
profondamente come per calmarsi. Fece girare lo sguardo tutt'intorno,
ma a parte lui, la chiesa era completamente vuota.
Si
avvicinò alla cassa, quindi vi fece scorrere sopra le dita. Sapeva
che non era stata chiusa in modo definitivo, perché nelle intenzioni
del barone il corpo avrebbe dovuto essere trasferito in una teca più
bella.
Insinuò
le dita sotto il bordo del coperchio e fece forza, sollevandolo quel
tanto da poter guardare dentro: i suoi occhi incontrarono solo la
seta bianca del rivestimento.
Richiuse
la cassa, fece per andarsene, poi tornò indietro e rimase a guardare
la teca ingioiellata per qualche istante. Si morse il labbro
inferiore.
Di
nuovo si chinò, ma questa volta non si accontentò di una fessura:
spostò il coperchio da una parte. Il sontuoso contenitore era
desolatamente vuoto. Sul fondo erano rimasti solo il pendente di
cristallo di rocca, la catenella e la croce.
Il
cavaliere osservò il cartiglio: la scritta era ormai sbiadita, ma
avvicinandola alla candela si riusciva a leggere chiaramente
Athanatos. Immortale.
Chissà,
forse per l'entusiasmo di aver trovato una santa reliquia, dopo che
era uscito il nome di Athanasios nessuno aveva più ricontrollato il
cartiglio.
Uscì
pensieroso dalla chiesa.
Fuori
c'era ancora Konrad, che nel frattempo era smontato di sella e stava
tenendo i due animali per le redini. Al suo apparire esclamò: “Che
faccia scura! Cos'è successo?”
Hermann
lo fissò con durezza. In fin dei conti, era stato proprio il
capriccio di quell'azzimato giovane bellimbusto a scatenare tutto il
pandemonio. “Andate dentro,” gli suggerì, “e se avete forza
sufficiente, sollevate il coperchio del reliquiario. Potreste avere
una sorpresa.” Riprese le redini del suo cavallo e si preparò a
montare in sella.
“Che
intendete dire?” chiese l'altro.
“Andate
e guardate voi stesso.” Spronò il destriero e si allontanò al
trotto per il paese deserto.
Raggiunse
il castello, entrò nel cortile e per prima cosa staccò dalla sella
l'involto che vi aveva assicurato, poi andò alla ricerca del barone
von Obenstein.
Il
nobile lo ricevette subito nella sala delle udienze. “Adalrich?”
fu la prima parola che Hermann pronunciò, ancora prima dei saluti.
“Ho
dovuto combattere.”
Il
giovane deglutì. “Che intendete dire?”
“Padre
Gerold voleva cominciare con gli interrogatori, sperando di ottenere
una confessione completa, potete immaginare con che metodi, prima
dell'arrivo del fratello cavaliere da Marienbrunnen, in modo da
rendergli impossibile un'eventuale difesa.”
L'altro
emise un sospiro. “Lui sta bene?” chiese poi.
“Non
gli è stato fatto del male.”
“Dio
sia ringraziato,” mormorò il cavaliere. “Posso vederlo?”
L'altro
tentennò per qualche istante, poi gli rispose: “Sì, venite con
me. Vi accompagnerò personalmente.”
Quando
si affacciò sulle prigioni, Hermann come sempre pensò che il
candore del suo confratello rendeva ancora più cupa la penombra che
lo circondava.
Egli
era dritto in piedi nell'unico quadrato di luce che si disegnava sul
pavimento, e teneva lo sguardo rivolto alla piccola finestra da cui
essa penetrava come un rapace in cattività.
“Adalrich!”
lo chiamò.
Il
cavaliere si volse rapido nella sua direzione. “Hermann!” Sul suo
volto altrimenti severo comparve un accenno di sorriso.
“Adalrich,
come stai?”
“Bene,
non preoccuparti.”
L'altro
lo raggiunse, pose la mano libera sulle sbarre e gli mostrò
l'involto con il saif. “Guarda qui.”
“Che
cos'è?”
“È
una spada che può ferire quel mostro.” Fece sporgere l’impugnatura
dell’arma dalla custodia di cuoio.
“Davvero?
Dove l'hai trovata?” Posò la propria mano accanto a quella del
confratello.
“Ora
non ho tempo di raccontartelo, devo agire prima che faccia buio.”
L'altro
lo fissò con apprensione. “Perché? Cosa vuoi fare?”
“Vado
a cercare quella bestia, la ammazzo e la porto qui, così la
smetteranno di accusarti.”
Prima
che il prigioniero potesse ribattere, si fece udire la voce di padre
Gerold: “Bene, bene. Cosa c'è qui, strumenti del Demonio?”
Hermann
si voltò verso di lui e lo squadrò come se avesse voluto
incenerirlo. “Avete sentito benissimo,” ringhiò, “è un'arma
che può colpire il mostro.”
“Davvero?
E chi ve l'ha data? Qualche stregone? Magari in questi due giorni vi
siete recato da un servitore del Maligno per farvela forgiare?”
“Me
l'ha data un fratello cavaliere.”
“Ah,
uno della vostra risma, dunque.”
Hermann
fece un passo verso di lui, cosa che provocò un suo brusco
arretramento. “State attento,” lo ammonì in un ringhio, “non
tirate troppo la corda.”
L'altro
si rivoltò come una serpe: “No, state attento voi a non tirarla
troppo. Io rappresento sua eccellenza reverendissima il vescovo di
Fulda e voi, in quanto cavaliere crociato, mi dovete assoluta
obbedienza. Ora, io vi chiedo, anzi vi ordino
di darmi subito l'involto che avete in mano, affinché io possa
mostrarne il contenuto a una commissione di sacerdoti esperti nelle
opere del Demonio, che decideranno poi cosa farne.”
Hermann
strinse la presa sulla spada. Lo fissò dritto negli occhi, e a voce
alta proferì: “No.”
L'altro
gli restituì uno sguardo di fuoco. “Osate disobbedirmi?”
“Venite
a prenderla,” lo provocò il primo con glaciale calma. “Provateci
voi, o mandatemi contro tutta la risma di tirapiedi che vi siete
portato dietro da Fulda, e vedremo se ci riuscirete.”
Il
prete strinse i pugni adirato. “Cavaliere, voglio essere magnanimo:
terrò conto del vostro stato di grande agitazione. Datemi
quell'oggetto e dimentichiamo la faccenda.”
“Ve
l'ho detto: venite a prenderlo. E non sono agitato, voi non mi avete
mai visto così distante dall'agitazione.” Si voltò verso Adalrich
e gli disse: “Porterò qui il mostro, non preoccuparti.”
“Hermann...”
tentò l'altro, ma il confratello stava già correndo fuori.
Una
volta fuori dalle prigioni, Hermann si imbatté nel barone. “Ci
sono delle rovine qui in giro?” gli chiese senza preamboli.
L'altro
sollevò perplesso le sopracciglia. “Delle rovine?”
“Non
ho tempo per spiegarvi, tra un paio d'ore sarà buio e il mostro
uscirà per andare a caccia. So che si nasconde negli edifici
diroccati e devo riuscire a stanarlo prima del tramonto.”
“Volete
cercare il mostro da solo?”
“Prima
del tramonto,” precisò il cavaliere.
“Aspettate,”
disse l'altro, “faccio radunare i cacciatori, i soldati...”
“No,”
lo interruppe con foga Hermann, “vi prego: non c'è tempo. Io ho
un'arma in grado di colpirlo, e devo usarla prima che sia troppo
tardi.”
L'altro
lo fissò serio, infine gli disse: “A nord, a circa una lega da
qui, c'è una chiesa diroccata. La riconoscerete subito, perché si
trova su un'altura priva di vegetazione. Nessuno ci va mai, perché
la gente del luogo dice che la cripta è abitata da streghe e
diavoli.”
“La
strada, per favore.”
“Oltre
il torrione nord c'è un sentiero. Ma vi prego, datemi almeno il
tempo di chiamare mastro Wernhart.”
“Ditegli
di raggiungermi là.”
Hermann
corse in cortile, montò in sella. Mentre spronava il cavallo, liberò
la spada saracena dalla custodia di cuoio, che poi lasciò cadere per
terra.
Spinse
il destriero al galoppo. C'era ancora luce, ma le ombre si stavano
allungando sui campi. Già gli animali cominciavano a tornare ai
ricoveri notturni.
Poco
dopo apparve in lontananza la chiesa. Era un rudere scuro, diroccato,
dall'aria sinistra. Le finestre aperte sul vuoto gli evocarono occhi
grifagni che lo scrutavano con malevolenza. Sebbene la zona fosse
ricca di vegetazione, intorno a quel che rimaneva dell'edificio non
si spingeva neppure il verde dell'erba.
Il
cavaliere mise il destriero al passo e si avvicinò lentamente. Si
chiese cos'avrebbe provato Adalrich di fronte a quelle rovine, perché
lui stesso, che di certo non aveva la sua sensibilità, aveva
l'impressione che un artiglio di ghiaccio gli stesse stringendo il
petto. Inspirò profondamente a occhi socchiusi, combattendo il
sempre più forte impulso di girare il destriero e fuggire al
galoppo.
Mormorò
una preghiera a fior di labbra e avanzò fino alla base della piccola
altura. Lì smontò da cavallo, pose le redini sul collo dell'animale
e sfoderò il saif. Lo mosse appena nell'aria, cercando di renderselo
familiare, e dovette reprimere un gemito nel momento in cui un gesto
diverso dal solito richiamò il dolore del morso che aveva ricevuto
al braccio.
O
forse era quel luogo che faceva tornare il dolore inflittogli dalla
creatura?
Non
perse tempo a speculare sulla questione, anche perché la luce stava
rapidamente calando ed era necessario agire prima possibile.
§
Konrad
entrò al galoppo nel cortile, e la prima cosa che vide fu la
custodia di cuoio abbandonata in un angolo. Si guardò intorno alla
ricerca di fratello Hermann, ma sia lui che il suo cavallo erano
scomparsi. Smontò dal corsiero, affidò le redini a un mozzo di
stalla e si lanciò su per le scale chiamando a gran voce suo padre.
Fu
il barone a raggiungerlo. “Konrad! È successo qualcosa?” gli
chiese preoccupato.
“Dov’è
il cavaliere, padre?” chiese il ragazzo per tutta risposta.
“È
andato alle rovine. Cosa sta succedendo?”
“Perché
alle rovine?”
“Ha
detto che il mostro si nasconde là, e che deve raggiungerlo prima
che faccia buio. Ma in nome di Dio, mi vuoi dire cosa succede?”
“La
teca è vuota, padre! Non c’è niente dentro.”
L’altro
lo fissò stupefatto. “Il santo?”
“Non
c’è mai stato nessun santo. Era quello il mostro, capite? È tutta
colpa mia!”
Abbandonò
il genitore, corse alle prigioni. Quando fu dinnanzi alla porta si
fermò e si costrinse a calmarsi. Tirò il catenaccio lentamente,
cercando di fare meno rumore possibile, quindi schiuse appena l’anta
e sgusciò dentro in punta di piedi, poi andò a staccare dal gancio
cui era appeso l’anello con le chiavi. Una volta che lo ebbe
nascosto tra le pieghe dell’abito, raggiunse la cella in cui era
rinchiuso fratello Adalrich.
Il
cavaliere era inginocchiato accanto al pagliericcio e aveva le mani
giunte. Il volto aveva un’espressione tesa e concentrata. Dava
l’idea di essere convinto che la salvezza del mondo dipendesse
dall’intensità delle sue preghiere.
Konrad
si avvicinò piano e per un po’ rimase semplicemente a guardarlo.
Se non fosse stato per il fatto che ogni tanto il crociato sbatteva
le palpebre, si sarebbe detto un’immobile statua di marmo. Non si
vedeva nemmeno il respiro, sotto l’ampio mantello.
“Cavaliere,”
lo chiamò sottovoce.
Fratello
Adalrich, che sembrava totalmente concentrato in quello che stava
facendo, si girò rapido e fissò lo sguardo nella sua direzione.
“Siete Konrad?” sussurrò.
Il
ragazzo si avvicinò. “Sì, sono io.
“Che
cosa volete?”
L’altro
estrasse il mazzo di chiavi e cominciò a provarle una dopo l’altra
sulla serratura. “State zitto e ascoltatemi,” diceva intanto,
“dopo vi spiegherò tutto, ora non c’è tempo. Il vostro
confratello è andato alle rovine per uccidere il mostro, ma si sta
facendo buio, e temo che avrà bisogno di aiuto.”
“Dove
sono le rovine?”
“A
nord, a circa una lega da qui. Maledizione, questa chiave non si
trova!”
“Quanto
tempo fa è partito fratello Hermann?”
“Ormai
sarà un’ora, dobbiamo sbrigarci.” Il mazzo gli scivolò dalle
mani tremanti e cadde tintinnando sul pavimento. “Maledizione,”
ringhiò fra i denti, poi cominciò a palpare il pavimento alla
ricerca delle chiavi.
“State
tranquillo,” gli suggerì Adalrich, “respirate, non fatevi
prendere dall’agitazione.”
“È
una parola. Io non sono un guerriero come voi.”
Continuò
a muoversi sempre più frenetico. Gli sfuggì un singhiozzo.
“Konrad,”
lo richiamò allora il cavaliere.
“È
tutta colpa mia,” disse l’altro per tutta risposta.
“Che
cosa volete dire?”
Con
voce rotta, il ragazzo rispose: “È
colpa mia, sono stato io. Lo sapevo che non era un miracolo della
Vergine, ma avete visto com’è mio padre: crede a tutto quello che
gli dico. E allora, siccome volevo tornarmene qui, mi sono inventato
la storia del santo.”
Il
cavaliere cercò di mantenere un tono di voce neutro. “Konrad, per
favore, ne parliamo dopo. Ora fatemi uscire, prima che arrivi
qualcuno a impedirvelo.”
“Sì,
certo. Scusate. Non servo neppure a questo.” Ritrovò finalmente le
chiavi, e tirando su col naso ricominciò a provarle una dopo l’altra
nella serratura.
Alla
fine si udì uno scatto, e la porta girò cigolando sui cardini.
Adalrich
balzò fuori e con cautela stirò le membra irrigidite dalla
cattività. “Mi servono un cavallo e una spada,” disse.
“Aspettate,
non volete il vostro usbergo?”
“Non
c’è tempo.”
“Ma
non potete andare così!”
“Mi
bastano la mia spada e il mio destriero.”
§
Il
sole stava ormai avviandosi a scomparire dietro l’orizzonte quando
fratello Adalrich poté lanciarsi al galoppo lungo il sentiero che
conduceva alle rovine. Strinse gli occhi: anche quella poca luce,
dopo il buio delle segrete, era forte come il sole a mezzogiorno.
I
raggi aranciati del tramonto tingevano i prati già umidi di rugiada,
dando loro una sfumatura dorata; le poche nubi che solcavano il cielo
scintillavano come illuminate da un fuoco interno. Non c’era un
alito di vento e la natura immobile sembrava in attesa di quello che
sarebbe accaduto.
Il
cavaliere si rizzò sulle staffe per avere una visione più ampia, e
oltre una macchia vide sorgere la nuda collina su cui si stagliava il
rudere, ormai nero nel cielo che andava facendosi sempre più scuro.
Arrivò
ai piedi dell’altura e scorse il cavallo di Hermann che stava
pascolando. Fermò il proprio e smontò, ma nel momento in cui i suoi
piedi toccarono terra, si sentì cogliere da una vertigine e dovette
aggrapparsi alla criniera dell’animale. “Non adesso,” mormorò
fra i denti, mentre la vista gli si annebbiava. “Non adesso,
maledizione.”
Si
voltò verso la collina, che però apparve al suo sguardo annebbiato
solo come una confusa macchia nera.
Qualcosa
di giallo cadde ai suoi piedi. Abbassò lo sguardo e la vista pian
piano gli si schiarì, rivelando un mazzetto di fiori di iperico.
“Figlio
dell’inverno,” lo chiamò una voce femminile.
Il
cavaliere si voltò in quella direzione e si trovò davanti la
vecchia vestita di nero. Era una donna alta, solenne, dal volto
scavato e ieratico. Adalrich pensò che gli ricordava una Norna. “Chi
siete, signora?” mormorò.
“Nella
chiesa alberga il male antico,” gli disse la vecchia ignorando la
sua domanda. “Non fidarti dei tuoi occhi, perché esso può
prendere qualsiasi forma.”
“Che
cosa significa?”
“Chiedi
a chi ami se ricorda il passato.”
Adalrich
avrebbe voluto chiederle ancora qualcosa, ma di nuovo ebbe
l’impressione di sentirsi mancare, e quando si riebbe la misteriosa
figura era scomparsa. Solo il mazzetto di iperico, ancora per terra
ai suoi pedi, testimoniava che non si era trattato di un sogno.
Alzò
lo sguardo verso il rudere e subito percepì un artiglio di ghiaccio
che gli stringeva il petto. Era come se l’oppressione che da mesi
gli toglieva tranquillità e riposo si fosse moltiplicata
all’infinito, e si trovò a respirare lentamente per combattere la
sensazione di disastro incombente che sembrava inchiodargli i piedi
al suolo.
“Non
vincerai tu,” ringhiò fra i denti, quindi sfoderò la spada e
prese a salire con risolutezza lungo il fianco della collinetta.
§
Hermann
si rammaricò di non essersi portato dietro una torcia. Era sceso
nella cripta, e sebbene fuori ci si vedesse ancora, lì dentro la
penombra era assai densa.
Peraltro,
il sotterraneo era molto più ampio di quanto si sarebbe aspettato
dalle dimensioni della chiesa, ed era ingombro di vecchie cose
consumate dal tempo.
Fece
qualche passo, udì qualcosa muoversi. Si guardò intorno e gli parve
di vedere, nella luce che andava scemando, una figura in piedi, così
immobile che si confondeva con le colonne della cripta.
Sfoderò
la lama saracena, che sembrò emettere un lungo sospiro bramoso. Il
filo arcuato catturò gli ultimi bagliori di luce mandando uno
scintillio di metallo.
“Fatti
avanti,” disse Hermann.
Dal
buio provenne un rumore raschiante, come di una lima che graffiasse
un antico legno: il ghul stava ridendo.
Il
cavaliere deglutì e si impose di non indietreggiare. Avanzò anzi,
deciso a porre fine alla lotta finché riusciva a vedere qualcosa.
Raggiunse quella che pensava essere la figura del mostro, ma si
accorse che era solo un vecchio brandello di tenda che pendeva dal
soffitto. Lo tagliò con un fendente ed esso si afflosciò al suolo
in una nuvola di polvere.
Di
nuovo udì il rumore raschiante, questa volta alle sue spalle.
Si
girò di scatto, e la testa di una statuetta sacra rotolò ai suoi
piedi. “Fatti avanti,” ripeté.
Qualcosa
si mosse, delle assi caddero facendolo sussultare. Hermann si mosse
in quella direzione, e si sentì proiettare in avanti da un colpo
alla schiena che sembrava il calcio di un mulo. Crollò a terra con
il respiro mozzo, rotolò sul dorso e pose la spada a difesa del
collo giusto un attimo prima che la creatura gli piombasse addosso.
Mentre si faceva indietro vide baluginare nel buio un’orrenda
chiostra di denti, e colse il sinistro lucore di occhi senza pupille,
lattiginosi ma accesi di un malvagio fuoco interno.
Si
rialzò e tirò un tondo dritto, ma il movimento gli strappò un
gemito di dolore. Il mostro ghignò, evidentemente consapevole della
sua condizione. Si rintanò di nuovo nell’ombra, scomparendo dietro
i mucchi di detriti.
Hermann
arretrò verso la scala, sperando di attirare il mostro su un campo
di scontro più favorevole, il ghul gli si avventò addosso e tentò
di rovesciarlo al suolo, ma questa volta il cavaliere riuscì a
puntellarsi con la schiena contro qualcosa e lo spinse via da sé.
Sferrò un tondo rovescio che evidentemente colpì nel segno, perché
l’essere emise un ululato di dolore, poi rimase a guatarlo
ringhiante.
Il
cavaliere non perse tempo: subito lo incalzò con un fendente dritto,
e poi lo raddoppiò con un rovescio, causando ogni volta un
arretramento della creatura. Tentò poi l’assalto finale, ma il
ghul gli si aggrappò al braccio che reggeva l’arma e vi affondò i
denti, strappando via la cotta di maglia come una vecchia stoffa.
Piegò il collo da una parte torcendo il braccio di Hermann, che
emise un gemito e lasciò andare la spada. Il mostro allora gli
sferrò una zampata alla testa, facendolo crollare malamente al
suolo.
Fece
per chinarsi sul cavaliere privo di sensi, ma qualcosa gli fece
alzare bruscamente la testa. Fiutò attento l’aria, quindi
scomparve nel buio.
Hermann
emise un gemito, e nonostante la testa gli girasse come impazzita,
tentò di rialzarsi puntellandosi su un gomito.
Adalrich
giunse alla sommità della collina quando ormai il cielo conservava
solo una lieve linea aranciata all’orizzonte. Si guardò intorno, e
nella luce incerta del crepuscolo percepì qualcosa di chiaro
approssimarsi dall’interno della chiesa. Si voltò in quella
direzione e gli mancò il respiro per l’orrore: era Hermann, che
grondava sangue da una ferita alla testa e teneva il braccio destro
penzoloni come se fosse rotto. Barcollava malamente e sembrava
stremato.
“Aiutami,
Adalrich,” mormorò. Cercò di fare qualche passo in avanti, ma
perse l’equilibrio e con un gemito appoggiò un ginocchio a terra.
“Aiutami,” ripeté.
L’altro
fece per lanciarsi in avanti, ma subito si fermò titubante,
ripensando alle parole della vecchia.
Hermann
alzò lo sguardo su di lui. “Per favore, sto perdendo molto sangue.
Perché non mi aiuti?”
Adalrich
aggrottò le sopracciglia. “Sei davvero tu, Hermann?”
“E
chi dovrei essere?”
“Il
mostro.”
“Non
essere ridicolo. Guardami: sono io, sono Hermann. Aiutami, per
favore.”
L’altro
strinse gli occhi. Era Hermann, ma al tempo stesso non lo era. Troppo
sfrontato, troppo insistente nel chiedere aiuto. O faceva così solo
perché stava soffrendo molto?
O
era lui che si era lasciato influenzare eccessivamente dalle parole
di una vecchia megera?
Però
la sensazione opprimente era più forte che mai.
“Adalrich...”
lo richiamò alla realtà il confratello.
“Hermann…
dimmi che cosa ti ho detto quando ci siamo trovati io e te da soli in
quel villaggio abbandonato, durante la missione per controllare il
passo di Amka.”
Il
cavaliere lo fissò con espressione stupita. “Ma ti sembra il
momento?”
“Dimmelo.
Non puoi essertelo dimenticato.” Poi, dopo una pausa: “Ti
ricordi? Eravamo solo tu ed io, la luna era alta, e c’era un gran
silenzio.”
L’altro
chinò la testa. “Ah, quello,” mormorò, poi rialzò su di lui
occhi che anche in quella penombra sembravano brillare come zaffiri.
“Hai detto che…” deglutì.
“Che?...”
“Che
mi amavi.”
Adalrich,
che stringeva ancora la spada in mano, rimase per qualche istante
immobile. Fece un passo verso il compagno, che sorrise lieve e tese
una mano verso di lui. Il primo si arrestò prima di venire toccato,
poi caricò un fendente e glielo calò addosso con tutte le sue
forze. Sotto quel colpo, Hermann trasfigurò, diventando una creatura
magra e legnosa, con la pelle come cuoio conciato. Emise uno strido e
scomparve nella cripta.
“Quello
l’ho solo pensato,” disse serio Adalrich.
Scese
a sua volta nel sotterraneo. Nel buio vedeva un po’ meglio degli
altri, e colse subito la sagoma della creatura che si chinava. La
raggiunse e vide che Hermann – quello vero, stavolta – era a
terra. Si sosteneva su un gomito e stava arretrando malamente, con
l’altro braccio quasi inservibile e la parte destra del volto
coperta di sangue. Accanto a lui c’era la spada che gli aveva
mostrato quando era in cella.
Valutò
velocemente la situazione: il mostro era tra lui e l’arma, ma
doveva comunque fare un tentativo di prenderla, o non ci sarebbe
stata alcuna speranza per Hermann.
Strinse
la spada che aveva ancora in pugno e la piantò fino all’elsa nel
corpo ossuto della bestia. Il colpo sarebbe stato letale per chiunque
altro, ma essa emise un ululato e rapida come una serpe si torse
nella sua direzione, spalancò le fauci e lo azzannò tra la spalla e
il collo.
Il
cavaliere emise un lamento e tentò di strapparsi di dosso il mostro,
che però a ogni attimo rinsaldava la presa affondandogli
maggiormente i canini nella carne, e muoveva la testa come per
allagare sempre più lo squarcio che aveva prodotto.
Adalrich
crollò a terra, e mentre con un braccio tentava di sciogliere la
presa mortale della creatura, con l’altra mano palpava
freneticamente il pavimento alla ricerca della spada.
Infine
percepì l’impugnatura sotto le dita, la strinse e colpì la belva
con la lama benedetta. Il mostro balzò via con un ululato, Adalrich
si rialzò ansando e lo incalzò con un fendente, che di nuovo gli
produsse un’ampia ferita. Il ghul si arrampicò soffiando come un
gatto su una catasta di vecchi mobili, e da lì gli balzò addosso di
nuovo. Rotolarono avvinghiati, il mostro dilaniava con artigli e
denti, Adalrich colpiva con la spada, e ogni volta che la lama
affondava nella carne della creatura, essa emetteva un ruggito di
rabbia e dolore.
Alla
fine il cavaliere riuscì a buttare il mostro lontano da sé, e nel
momento in cui esso si muoveva per attaccarlo di nuovo, sferrò un
fendente rovescio e lo decapitò di netto. La testa rotolò via con
un rumore sordo mentre il corpo si afflosciava.
Poi
il crociato lasciò cadere l’arma e crollò pesantemente al suolo,
con la tunica zuppa del sangue che ancora gli sgorgava dallo squarcio
che aveva nel collo.
Cercò
di rialzarsi, ma le forze lo stavano abbandonando velocemente. Vide
una figura chiara che si avvicinava e le labbra gli si stirarono in
un lieve sorriso. “Hermann,” mormorò con voce appena udibile.
L’altro
si chinò su di lui. Gli passò una mano dietro le spalle e lo
strinse a sé. “Adalrich,” disse con voce tremante. “Adalrich,
perché sei venuto qui?… Non dovevi… Non così...”
“Hermann,
sai… quello che devi… fare.”
Il
confratello represse un singhiozzo. “Oh, no. Ti prego, non
chiedermi questo.”
C’erano
ancora così tante cose che doveva dirgli, e che dovevano fare
insieme. C’era un mondo che sarebbe stato vuoto e buio senza di
lui.
“Ti
prego… Non farmi morire
così...”
Hermann
lo adagiò sul pavimento, quindi estrasse il pugnale. Per quanto
Adalrich fosse la persona che amava di più al mondo, razionalmente
sapeva che se non l’avesse fatto, l’avrebbe condannato a
riprendere vita come mostro assetato di sangue.
Le
lacrime che gli scendevano copiose dagli occhi gli annebbiavano la
vista, tuttavia puntò la lama contro il cuore del compagno, quindi
pose le due mani sull’impugnatura e si preparò a fare forza con
tutto il suo peso.
§
Una
lunga mano ossuta si posò sulle sue fermando il gesto che stava per
compiere. “No,” disse una voce di donna dalle note basse e
solenni.
Hermann
sollevò lo sguardo e nel buio ormai completo colse solo l’ovale di
un viso femminile.
“No,”
ripeté.
Il
cavaliere non abbandonò la lama. “Signora, io devo,” le rispose.
Ella
annuì, come per dire che capiva, e Hermann ebbe la sensazione che
davvero sapesse tutto. Lesse su quel volto scavato una saggezza
antichissima. D’istinto, le disse: “Aiutatelo, signora. Sento che
voi lo potete.”
Di
nuovo balenarono nel buio i fiori gialli dell’iperico, poi la donna
posò una mano sulla fronte di Adalrich e pronunciò parole in una
lingua che Hermann non conosceva. Il cavaliere pensò fugacemente che
l’atto cui stava assistendo era ciò che comunemente veniva
definito stregoneria, ma rimase immobile.
Infine
l’anziana donna gli disse: “Il male antico non prevarrà sul
figlio dell’inverno. Egli ha il nostro sangue.”
Prima
che Hermann avesse il tempo di chiederle di che sangue stesse
parlando, ella si coprì il volto con un lembo dell’abito nero,
confondendosi con l’oscurità che la circondava.
Subito
dopo, il cavaliere cominciò a sentire un vociare confuso che
proveniva dall’esterno, associato a latrare di cani e nitrire di
cavalli. Qualcuno arrivò con delle fiaccole alla sommità delle
scale, proiettando nella cripta fasci di luce.
“Sono
qui!” Gridò Hermann. “Siamo qui!”
Si
voltò in direzione della donna, ma non la vide più. “Signora?”
mormorò, ma in qualche modo gli fu chiaro che ella se n’era
andata.
“Siamo
qui!” ripeté. “Presto, fratello Adalrich è ferito!”
Sentì
i passi di numerose persone, la luce si fece più intensa man mano
che scendevano uomini dotati di torce e lanterne. Abbassò gli occhi
sul suo confratello e il cuore minacciò di fermarglisi nel petto:
egli giaceva immobile, il volto era di un pallore ancora più intenso
del solito, gli occhi erano chiusi. Tra la spalla e il collo aveva
un'orribile squarcio, dal quale il sangue era sgorgato copioso,
inzuppandogli completamente l'abito.
Mentre
in fondo alla cripta si levavano i clamori di coloro che stavano
osservando le spoglie del ghul, una mano sulla spalla lo fece quasi
sussultare. La voce di fratello Hildebrand chiese: “È vivo?”
“Non
lo so,” rispose angosciato Hermann.
“Ora
vediamo,” rispose l’altro, e si chinò su Adalrich. Prese la
lanterna che aveva con sé e la tenne sospesa per illuminarlo. Con la
mano libera gli prese il mento fra le dita e gli voltò delicatamente
la testa. Osservò la ferita e aggrottò le sopracciglia.
Hermann,
che stava seguendo ogni suo movimento, gli chiese: “È molto grave,
fratello?”
“Lo
vedi da te che è grave. Ma per qualche motivo ha smesso di
sanguinare.”
“Ma
lui è...”
“È
vivo, sì. Ha perso molto sangue, è ferito ovunque, ma per qualche
ragione che mi sfugge è ancora vivo.”
Il
giovane cavaliere emise un sospiro. “Dio, ti ringrazio,” mormorò.
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