Adalrich 11
Bene, gente, come
vedete siamo
giunti all’epilogo della vicenda. È stato molto bello portare
avanti quest’avventura medievale con voi, sono stato molto felice
di costruire una vicenda e dei personaggi e presentarveli. Ringrazio
tutti coloro che sono passati di qui, e con la loro presenza hanno
fatto sì che la storia prendesse vita.
In
particolare, ringrazio sentitamente per avermi lasciato il loro
parere LyaStark, morgengabe, Saelde_und_Ehre, fiore di girasole,
Crilu_98, Iossy90, miciaSissi, innominetuo, Syila e GothicGaia,
che si sta facendo tutta la maratona dei capitoli^^
Grazie
davvero, è stato bellissimo condividere quest’avventura con voi!
Devo peraltro rivolgere un ringraziamento particolare all'ottima,
bravissima e coltissima Saelde_und_Ehre,
che con la sua costante supervisione ha fatto sì che il mo medioevo
germanico fosse storicamente attendibile.
Epilogo
Fratello
Adalrich aprì lentamente gli occhi. Da qualche parte, lontano,
qualcuno stava cantando:
Da
pacem Domine, in diebus nostris…
Cercò
di mettere a fuoco quello che lo circondava: si trovava su un letto,
in una stanza con il soffitto sostenuto da travi. C’era una
candela, che proiettava intorno una debole luce ambrata.
...Quia
non est alius qui pugnet pro nobis…
Rievocò
la lotta contro la creatura, la ferita, la sensazione di cadere in un
baratro buio e la strenua lotta contro la voluttà di abbandonarsi
all’oblio. Gli ultimi ricordi che aveva erano quelli di Hermann
chino su di lui, con il viso rigato di lacrime. Fece un tentativo di
muoversi, ma il suo corpo gli rimandò un’immediata fitta di
dolore. Emise un sospiro di frustrazione, riabbassò le palpebre e
per un po’ si concentrò sul canto che percepiva fioco.
...Nisi
tu Deus noster.
Fiat
pax in virtute tua: et abundantia in turribus tuis.
Fu
il rumore di un oggetto che cadeva ad attirare nuovamente la sua
attenzione. Girò lo sguardo in quella direzione e si accorse che
accanto al letto c’era Hermann addormentato su una sedia. Aveva le
mani in grembo, nella posizione di chi sta reggendo qualcosa, ma
ovviamente in mano non aveva più nulla.
Sul
volto gli si compose un pallido sorriso. Chissà da quanto tempo era
lì, e chissà quanto doveva essere stanco, se nemmeno il rumore
l’aveva svegliato.
Provò
a chiamarlo, ma l’unico suono che gli uscì dalla gola fu un rauco
mormorio.
Strinse
i denti, e concentrò tutta la propria volontà nel far uscire un
braccio dalle coperte. Lo spinse piano verso il confratello, al quale
riuscì a sfiorare una mano.
A
quel pur lievissimo tocco, Hermann saltò su come qualcuno l’avesse
punto. “Adalrich!” esclamò preoccupato.
Si
sporse verso di lui e l’altro vide la sua espressione trasfigurare
nel momento in cui si rendeva conto che aveva gli occhi aperti.
“Adalrich!”
ripeté. Sul volto gli passarono tutte le possibili sfumature di
confusione, sollievo e gioia. “Adalrich, ti sei svegliato,
finalmente.” Gli prese la mano e la strinse delicatamente fra le
sue. “Ho temuto di perderti,” mormorò poi sedendosi accanto a
lui sul letto.
“Hermann...”
“Dio,
ti ringrazio,” disse semplicemente l’altro, quindi staccò una
mano dalla sua e gliela passò adagio fra i capelli. Si chinò a
baciarlo sulla fronte. “Ti ringrazio,” ripeté.
Adalrich
socchiuse gli occhi.
Ancora
chino su di lui, Hermann chiese: “Hai sete, vero?” Poi, senza
aspettare risposta: “Sì che hai sete. Ora ci penso io.” Andò a
prendere un bicchiere, quindi gli passò una mano dietro la nuca, gli
sollevò delicatamente la testa e gli appoggiò il recipiente alle
labbra.
“Ho
avuto paura di perderti,” ripeté mentre lo aiutava a bere.
Adalrich
avrebbe forse dovuto rispondere che erano cavalieri, che i loro
sentimenti non contavano, che la loro esistenza doveva essere votata
a Dio e a nient’altro, ma l’unica cosa che riuscì a mormorare
fu: “Anch’io.”
Quando
si fu dissetato, Hermann lo fece riadagiare delicatamente sul
cuscino. Nella luce dorata della candela i suoi occhi azzurri, lucidi
di pianto trattenuto, erano trasparenti come acquemarine. Di nuovo
gli accarezzò i capelli, facendosi scivolare tra le dita le ciocche
candide. Continuava a guardarlo, come se non riuscisse a convincersi
che si era davvero ripreso.
“Sto
bene,” si sentì in dovere di assicurargli Adalrich.
“Sì,
sia ringraziato Dio. Stai bene.” La mano che gli stava passando tra
i capelli scese ad accarezzargli la guancia, poi Hermann si piegò di
nuovo su di lui e in un gesto fugace, appena accennato, gli sfiorò
le labbra con le proprie.
§
“Che
posto è questo?” chiese Adalrich guardandosi intorno. Non
riconosceva nulla di ciò che lo circondava.
Seduto
accanto a lui, Hermann gli spiegò: “Siamo nel convento di
Marienbrunnen. Dopo quello che è successo, fratello Hildebrand ha
insistito per farti portare qui, diceva che c’è un monaco
particolarmente esperto nel curare le ferite.”
“Chi
è fratello Hildebrand?”
“Sono
io, giovanotto,” disse una voce profonda, “e da come ti sei
ripreso, direi che la mia fiducia nelle capacità di fratello Walther
è stata ben riposta.”
L’anziano
cavaliere entrò nella camera. Squadrò Adalrich con occhio attento,
poi chiese: “Ebbene, come ti senti ora?”
“Molto
meglio, grazie.”
L’altro
prese una sedia e si accomodò accanto al letto, quindi gli chiese:
“Vuoi sapere cos’è successo in questi giorni, ragazzo?”
Hermann
sorrise fra sé e sé alla perplessità del rigido Adalrich nel
venire apostrofato in quel modo. Per l’imponente fratello
Hildebrand l’etichetta era un concetto piuttosto relativo. Dopo i
primi formalismi, tutti i cavalieri che avevano meno di trent’anni,
a prescindere da rango o titolo, diventavano ‘giovanotto’ o
‘ragazzo’. ‘Ragazzo mio’, se proprio gli risultavano
simpatici.
Adalrich,
che era nel convento già da qualche giorno, pur essendo rimasto
sempre incosciente era già considerato ‘ragazzo’.
“Vi
sarei molto obbligato,” rispose il ferito, che invece aveva
impiegato mesi per smettere di rivolgersi a Hermann con il voi.
“Beh,
ragazzo mio, pare che qualcuno, nella diocesi di Fulda, abbia fatto
il passo più lungo della gamba. E soprattutto nella direzione
sbagliata.”
“Che
intendete dire?”
“Un
certo padre Gerold ha dimostrato un notevole entusiasmo e una
singolare mancanza di scrupoli nel portare avanti la sua santa
missione. Chi di dovere ha ritenuto che tanto zelo meritasse
obiettivi più elevati di un umile servo di Cristo dai colori un po’
inconsueti, e l’ha inviato a catechizzare i pagani in Prussia.”
Fece una pausa, poi con fare modesto soggiunse: “Dati
i trascorsi,
qualcuno ha pensato di
preparare un’adeguata accoglienza per il buon padre, e ha scritto
un paio di lettere a qualche membro dell’Ordine, raccontando quello
che è successo a Dürnau.” Ghignò soddisfatto, quindi concluse:
“Penso proprio che lassù gli daranno un caloroso benvenuto.”
Adalrich
rimase in silenzio per un po’, quindi chiese: “La bestia è
davvero morta?”
“Nemmeno
un ghul sopravvive decapitato.”
“Un…
che cosa?”
“Ghul.
Jinn malvagio, se preferisci.”
“È
quello che chiamavamo cane infernale?”
Fratello
Hildebrand assentì, soddisfatto come il precettore che sente
l’allievo ripetere una poesia senza errori. “Proprio così. Il
ghul può trasformarsi in una iena, che è una specie di cane, ma più
grosso.”
“Ho
capito.”
§
Fratello
Hermann e fratello
Hildebrand stavano camminando fianco a fianco. “Come sta?” chiese
il più anziano.
L’altro non
poté fare a meno
di atteggiare il volto a un lieve sorriso. “Si riprende a vista
d’occhio. Ogni volta mi stupisco di quanto sia forte.”
“In
effetti è una specie di miracolo. Credevo proprio che quella ferita
lo avrebbe ucciso.”
Hermann emise
un sospiro.
“Anch’io.” Si voltò in direzione nell’edificio in cui si
trovava la camera di Adalrich. Rallentò il passo.
L’altro lo
prese per una
spalla. “Hai bisogno di riposare e di prendere un po’ d’aria.
Lui è in buone mani.”
“Lo
so, fratello,” rispose Hermann ricominciando a camminare, “Sarà
anzi in mani migliori delle mie, visto che frate Walther è esperto
nella cura delle ferite, però...” Si interruppe, di nuovo si voltò
verso l’edificio.
Fratello
Hildebrand lo spinse in
avanti. “Muoviti,” gli disse in tono bonario.
Camminarono per
un po’ fianco a
fianco, addentrandosi nel frutteto. Era pomeriggio inoltrato e il
sole era ormai basso sull’orizzonte. Sull’erba si disegnavano
ombre lunghe, spirava una lieve brezza.
Hermann abbassò
lo sguardo e
vide che per terra c’erano dei fiori gialli. Subito si guardò
intorno, e al limitare del campo, confusa fra i tronchi, vide una
snella figura vestita di nero. Diede un’occhiata a fratello
Hildebrand, che stava continuando a camminare apparentemente ignaro,
quindi si mosse verso la silenziosa presenza.
“Chi
siete, signora?” chiese quando si fu avvicinato.
Senza
rispondere, la donna gli
tese un mazzetto di fiori di iperico. “Portali a lui,” disse
semplicemente.
“Ditemi
chi siete,” insisté Hermann, “voi gli avete salvato la vita.”
Ella scosse la
testa. “Tu
gliel’hai salvata. È rimasto per te.” Di nuovo gli porse i
fiori.
Il giovane
cavaliere si morse il
labbro inferiore. “Io… stavo per ucciderlo, signora,” mormorò
chinando la testa.
La donna gli
accarezzò una
guancia. Aveva dita ruvide e secche come legno antico. In tono grave
gli disse: “È il sacrificio più grande, uccidere chi si ama per
evitargli maggiore sofferenza.”
Hermann stava
per rispondere, ma
una voce alle sue spalle lo fece sussultare: “Ragazzo!”
Si girò:
fratello Hildebrand lo
stava fissando perplesso. “Che fai, parli agli alberi?” gli
chiese.
Il giovane si
voltò verso la
donna, ma non c’era più nessuno. Abbassò gli occhi sulla propria
mano, e si accorse che stringeva un mazzetto di fiori di iperico.
“Signore Iddio,” mormorò stupefatto.
Il più anziano
gli rivolse uno
sguardo interrogativo. “Beh?”
“Io…
c’era una donna che mi stava parlando, e...” si interruppe: non
c’era nessuno nel raggio di cento passi. Si voltò verso fratello
Hildebrand con l’aria di chiedergli aiuto.
“Forse
è meglio che mi racconti tutto da principio, ragazzo mio,” gli
consigliò il più anziano.
Alla fine del
racconto, fratello
Hildebrand non pareva né particolarmente stupito, né
particolarmente spaventato. “Una strega,” disse.
Il più giovane
fece tanto
d’occhi. “Una strega?” ripeté.
“In
effetti sarebbe più corretto dire ‘una donna che pratica la
magia’. Ce n’è ancora qualcuna.”
“Ma...”
Fratello
Hildebrand alzò le
spalle, tranquillo come se stesse parlando del tempo. “Sì, so cosa
stai pensando: le streghe sono malvagie. Ma così come ci sono uomini
di chiesa che praticano il male, e tu ne hai conosciuto uno non più
tardi di qualche giorno fa, ci sono anche streghe che praticano il
bene. Anzi, per la verità sono la maggior parte.”
Hermann annuì.
“Ha salvato la
vita ad Adalrich,” disse dopo un po’, poi abbassò gli occhi sui
fiori che aveva in mano e soggiunse: “Mi ha dato questi per lui.”
“Io
credo che l’abbia fatto per proteggerlo. Secondo la tradizione,
l’iperico allontana il male.”
Il
giovane ripensò a ciò che era successo nel sotterraneo della chiesa
diroccata. Gli tornarono in mente le parole che la donna gli aveva
detto: egli ha
il nostro sangue.
Adalrich
non sapeva chi fossero i suoi veri genitori, ed era stato abbandonato
in fasce.
Ricordò una
storia che aveva
sentito quando era piccolo: la magia passava di madre in figlia, e i
figli maschi delle streghe, se mai vedevano la luce, venivano
generalmente uccisi appena nati. Forse la vera madre di Adalrich non
se l’era sentita di ucciderlo, e l’aveva abbandonato dove sapeva
che sarebbe stato cresciuto nel modo migliore. Forse le streghe
riconoscevano in lui uno della loro razza, e lo aiutavano.
Si
voltò verso fratello Hildebrand. Per un attimo lo sfiorò l’idea
di metterlo a parte dei suoi dubbi, ma subito dopo rinunciò al
proposito: di certe cose era meglio parlare il meno possibile. “Penso
che andrò a portargli questi fiori prima che appassiscano,” disse
semplicemente. Si inchinò appena. “Con licenza, fratello.”
L’altro sorrise
bonario. “Va’
pure.” Riprese la sua passeggiata scuotendo affettuosamente la
testa.
§
Vestito per la
prima volta dopo
giorni, Adalrich indugiava seduto sul letto. Aveva voglia di alzarsi,
e per quanto detestasse il sole, gli mancavano l’aria e gli spazi
aperti, ma si sentiva ancora terribilmente debole. Fratello Walther
gli aveva spiegato, nel corso delle varie medicazioni, che aveva
perso molto sangue, e già era un miracolo che fosse ancora vivo,
tuttavia non riusciva a capacitarsi di come il suo corpo, una volta
forte e scattante come quello di una belva, ora facesse fatica anche
nelle minime cose.
“Ti
riprenderai,” gli disse Hermann, che come al solito aveva
perfettamente indovinato quali fossero i suoi pensieri. “Hai solo
bisogno di un altro po’ di riposo.”
Adalrich annuì
e l’altro gli
mise una mano sulla spalla. “Tornerai più forte di prima,” gli
assicurò.
“Lo
spero.”
“Certo
che sarà così.” Poi, dopo una pausa: “C’è una persona che
voglio presentarti.”
Adalrich lo
fissò stupito.
“Chi?”
“Vedrai.
Ora fa il bravo, appoggiati a me.”
“Ma
Hermann...”
“Obbedisci.”
Lo fece alzare e si passò il suo braccio intorno alle spalle. “Ce
la fai così?”
“Sì,
non preoccuparti.”
“Allora
andiamo.”
Scesero nel
chiostro. Lì, seduto
su una panca, c’era il figlio del barone von Obenstein. Adalrich si
voltò perplesso verso Hermann e gli chiese: “Dov’è la persona
che mi devi presentare?”
“Ce
l’hai davanti.”
“Ma
è Konrad.”
L’altro
scosse la testa. “No, è fratello
Konrad. O perlomeno lo sarà quando avrà completato il noviziato.”
“Stai
scherzando?”
“Mai
stato così serio.” Poi, a voce più alta: “Fratello Konrad!”
Il ragazzo si
alzò e li
raggiunse. “Non sono ancora un fratello,” disse con un sorriso
modesto, “ ma spero di diventarlo prima possibile.” Si volse
verso Adalrich: “Salute a voi, fratello cavaliere.”
“Voi
nell’Ordine?” chiese l’altro per tutta risposta.
Il ragazzo
emise un sospiro.
“Sembra strano, vero? Eppure quello che è successo mi ha spinto a
pensare, e ho capito delle cose.”
Adalrich lo
fissò ancora
diffidente. “Che cosa, ad esempio?”
Konrad chinò la
testa. “Io
credevo che ascoltare qualche lettura di retorica di giorno e far
festa con gli amici di notte fosse tutto ciò che un uomo poteva
chiedere dalla vita. Niente impegni, niente responsabilità. Solo
divertimento.” Fece una pausa, deglutì imbarazzato. “E poi è
successo quello che è successo, e sono morte molte persone a causa
della mia ottusità.”
Adalrich
continuava a fissarlo in
silenzio.
“E
insomma, per farla breve, ho pensato che stare un po’ di tempo
nell’Ordine non mi avrebbe fatto male, ecco tutto.” concluse alla
fine il ragazzo.
L’altro era
ancora muto.
“Beh,
che ne dite?” chiese Konrad dopo un po’. Dava l’idea di
aspettarsi delle felicitazioni.
Lapidario,
Adalrich rispose: “Penso
che tornerò a sdraiarmi, è stata un’emozione troppo forte.”
“Non
siete contento?”
“Ma
certo che è contento,” intervenne Hermann prima che l’altro
potesse replicare, “è solo troppo riservato per dimostrarlo.”
Konrad sorrise
e disse: “Beh,
avrà tempo di prendere confidenza con la cosa durante il viaggio di
ritorno a Starkenberg.”
Adalrich lo
fissò, questa volta
francamente inorridito. “A Starkenberg?”
“Ovviamente!
Dove andrei senza i miei maestri?”
“Chi
sarebbero i vostri maestri?”
“Ma
voi e fratello Hermann, è chiaro. Ho già in mente un poema epico
sulla vostra impresa, sapete? Come
due cavalieri dell’Ordine Teutonico uccisero un terribile mostro
del deserto.
Volete sentire le prime strofe?”
“Oh,
no!”
“Vi
assicuro che sono bellissime. Prima di prendere i voti ho seguito le
letture di poesia dei migliori maestri, sapete?”
Adalrich si
svincolò dal
sostegno del confratello, e nonostante la prostrazione fece per
allontanarsi lungo il porticato, ma Konrad imperterrito gli tenne
dietro.
Hermann rimase
a fissarlo con un
sorriso sulle labbra: Adalrich era cupo, scontroso, permaloso, di una
franchezza imbarazzante, prendeva qualsiasi cosa sul serio, ringhiava
peggio di un mastino da guerra, ma era anche la persona più
coraggiosa, nobile e generosa che conoscesse, e qualcuno, chissà se
era stato Dio o qualcun altro, gli aveva concesso di averlo accanto
ancora per un po’.
“Facci
sentire un po’ di quella poesia, Konrad!” esclamò, già
pregustando la reazione dell’amico.
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