Us
II
The Great Gig
in the Sky
Il Purgatory era un locale gradevole, con pareti metalliche dalle
sfumature quasi argentate, neon dai colori vicino all’azzurro
e al verde che correvano lungo i muri e tavolini intagliati in forme
curve, morbide ma irregolari, accanto a divanetti tecnologici dotati di
sensori per il comfort. Sulla superficie del tavolo era presente un
menu digitale dove poter ordinare, arricchito dalla
possibilità di vedere video e accedere alla rete.
A Sasuke quel
posto piaceva perché la musica non era sparata a volume
troppo alto, gli altri clienti sapevano farsi i fatti loro e i cocktail
erano buoni. Ordinò sullo schermo il suo Crisi
Seldon
e attese l’arrivo del suo ex-collega storico, rimasto sulla
Terra per dedicarsi ad attività in realtà
illegali nel retro del locale: in quel posto apparentemente dimenticato
dalla Legge Robotica, la gente si faceva addormentare per anni allo
scopo di sognare la vita perfetta.
Immobile,
Sasuke occhieggiò l’anonima porta
d’accesso, confine tra la legalità e
l’illegalità, ma deviò lo sguardo,
finché vide arrivare il suo amico.
Suigetsu era
un uomo particolare, apparentemente eccentrico, con i capelli dal
colore modificato tramite operazione genetica e i denti resi aguzzi, ma
in realtà capace di un certo spirito di comprensione che gli
aveva permesso di proseguire quella sottospecie di amicizia con una
persona tendenzialmente poco brava nei rapporti sociali, come il suo un
tempo collega Uchiha, per l’appunto.
Attorno a loro
altri tavoli, altra gente, alcuni andavano, altri ancora si sedevano e
attendevano, di bere, di parlare, di avvicinare la persona con cui
forse, tra qualche ora, sarebbero finiti a letto in uno sterile
rapporto d’amore. Passavano umani dalla pelle liscia di varie
sfumature rosa, poi più scure, un tempo vicine
all’ebano; Gorn simili a lucertole con le loro scaglie
resistenti al fuoco che parlavano un linguaggio sibillino, Turian
coriacei abituati alla guerra e indefessi nell’attitudine
militare, ma anche ricchi mercanti Ferengi con le gigantesche orecchie e
le arcate sopraccigliari in evidenza.
Un crogiolo di
esseri viventi riunito in un unico locale dalle musiche tecnologiche,
le luci, l’atmosfera vitale eppure sobria. Molte ballerine
erano eleganti Asari, di sembianze femminili eppure in
realtà prive di un vero e proprio genere come inteso da
molte specie, trovate comunque attraenti in tante galassie; in alcuni
casi si esibivano dei robot dotati di cervello positronico, addestrati
fin nel dettaglio nei movimenti da eseguire, soprattutto nel modo di
offrire agli occhi degli spettatori l’idea di una vita dove,
in realtà, non c’era.
Ogni tanto,
alla fine di qualche esibizione, l’impianto olografico
regalava un corredo di luci simili a fuochi d’artificio,
polvere d’oro e d’argento che volava
nell’aria per poi sparire, come bolle di sapone. Emozionava,
anche nella semplice conclusione di un ballo finalizzato
all’attrazione, quasi come se si potessero vedere davvero
quei colori e sentirli sulla pelle.
Un tempo,
Sasuke aveva visto Sakura ballare, esattamente dove in quel preciso
istante si trovava un’Asari. Era stata aggressiva, fuoco e
lava, nel muoversi, nel danzare, nell’attraversare con il
proprio corpo il flusso della musica, dei suoni e dei colori.
All’epoca, Sasuke si era reso conto di quanta bellezza e
forza ci fosse in quella donna; poi... la passione, confusa, di chi
come lui avrebbe voluto essere vittima di quelle stesse fiamme anche se
il suo cuore era già cenere.
Ma ogni tanto
il ricordo di lei ancora bruciava, e amava, incapace di spegnere
ciò che un tempo li aveva legati.
Sasuke smise
di pensare. Appena arrivò il suo cocktail bevve una sorsata
abbondante, scambiò qualche chiacchiera con Suigetsu,
infine, quando la gente all’interno del locale
diminuì e loro furono più soli,
l’ingegnere aerospaziale pose la sua richiesta al collega
sulla Terra, consapevole di aver maturato quell’idea ben
prima di rientrare dalla missione.
Quando
l'ingegnere concluse di parlare, l’altro sgranò
gli occhi, infine sghignazzò, per poi commentare:
“Chi
è questa volta il pervertito che vuole…
– vide l’occhiata fulminante dell’uomo e
sospirò – va bene, va bene, come non detto. Si
può fare, Sasuke. Ma ci vorrà tempo, direi
parecchi mesi. Più è sviluppata l’I.A.
più il contenitore dovrà essere performante per
reggere la mole di dati che dovrà calibrare; nulla a che
vedere con quelle scatolette preimpostate dei robot.”
Il cervello
positronico, ancora, non era in grado di reggere il surriscaldamento
dovuto ai movimenti da coordinare con un’I.A. altamente
sviluppata e dotata di libero pensiero. Principalmente,
perché la ricerca scientifica aveva fortemente limitato le
sperimentazioni in quel ramo così pericoloso, temendo
un’effettivamente probabile superiorità delle
Intelligenze Artificiali.
“Conosco
le tempistiche. Tu vedi di procurarmi quello che ti ho chiesto, al
resto penserò io.” Tagliò corto Sasuke.
Suigetsu fece
una smorfia, lamentando il solito fare indisponente
dell’ormai storico collega di lavoro, infine
mostrò un sorriso sornione, anche se gli occhi attenti erano
leggermente assottigliati:
“Sei
qui da due giorni. Non c’è qualcuno con cui vuoi
uscire?”
“A
te cosa importa?” domandò secco, finendo il
cocktail per poi alzarsi. Aveva bisogno di andarsene di lì e
camminare. All’improvviso, le pareti erano troppo strette e
la gente… la gente eccessiva.
“E a
te, invece, importa?” ribatté Suigetsu, seduto con
le gambe accavallate e un gomito sul divanetto. Aveva uno sguardo quasi
di sfida, gli occhi taglienti.
Sasuke non
rispose. Si limitò laconicamente a salutare il collega,
lasciandolo solo, con il bicchiere svuotato che un tempo conteneva una Crisi
Seldon.
*
Anno
181 S.I. (dal primo Salto Interstellare)
“Certo
che sono proprio stronzi!”
Esclamò
Naruto con accorato ardore da oltre lo schermo, mentre Sasuke era
tornato a sedersi di peso sulla sedia dopo essere corso a riparare la
sua maltratta navicella Viger, colpita di strascico da alcuni raggi
sparati da navi Krogan – una delle razze più
bellicose delle vicine galassie, intenta a farsi vicendevolmente guerra
in una lotta tra clan. Nel mezzo dei vari salti spaziali suddette navi
dovevano essere erroneamente capitate vicino alla Terra, generando un
po’ di scompensi tra i presenti e qualche danno collaterale,
ma nel giro di poco le flotte erano scomparse verso altri orizzonti,
all’improvviso, esattamente come all’improvviso
avevano fatto il loro rocambolesco arrivo.
In tutto
questo, Sasuke si era ritrovato a dover saldare componenti danneggiati
di Viger, sudare freddo per manovre al limite del possibile in modo da
non schiantarsi contro altre navi dei suoi colleghi a causa delle
ingombranti astronavi Krogan e, nel mezzo, sperare di non saltare in
aria, giusto perché gli sarebbe stato parecchio sul culo
morire proprio prima di tornare a casa dopo un mese di permanenza nello
spazio.
Per tale,
fondamentale, motivo si mostrò concorde con Naruto senza
nemmeno troppa resistenza, anzi, passandosi le mani tra i capelli
appiccicati di sudore e sporco dei meccanismi appena riparati, Sasuke
sbottò:
“Figli
di puttana.”
Grugnì
qualcos’altro ma Naruto scoppiò a ridere, per poi
trasmettergli di sua iniziativa l’elenco dei danni riportati,
i pezzi da cambiare una volta atterrati sullo spazioporto e
l’insieme delle probabili domande che l’Organismo
per la Diplomazia tra Razze Galattiche avrebbe inviato da lì
a breve, giusto per placare gli animi e arginare per tempo eventuali
crisi dovute a piccoli
incidenti
diplomatici.
Ormai Naruto,
dopo quasi un anno di attività su Viger, era in grado di
destreggiarsi estremamente bene tra i meccanismi della nave e conosceva
i protocolli, al punto che ormai lo stesso Sasuke, un tempo diffidente,
gli lasciava liberamente accesso al sistema, riconoscendo che in quel
modo la mole di lavoro collaterale era decisamente, se non proprio
diminuita del tutto, almeno abbondantemente agevolata. Inoltre,
l’I.A. ormai sapeva a menadito le routine
dell’ingegnere, dopo averlo accompagnato vocalmente in ogni
azione quotidiana, da quelle di manutenzione legate al lavoro, alla
semplicità di ricordargli che le sue barrette di frutta
secca preferite stavano esaurendosi e che avrebbe dovuto comprarle, una
volta sceso sulla Terra.
Senza
rendersene conto, Naruto era entrato così progressivamente
nella sua vita, da rendergli difficile ricordare come fosse prima che
lui esistesse. Forse c’era del vuoto, esattamente come
stare nello spazio. Guardò, nel mezzo degli strumenti di
riparazione appoggiati sul banco della consolle con i comandi, una
scatoletta anonima, protetta da del cartonato rinforzato per resistere
a eventuali urti.
All’improvviso,
mentre Naruto ancora borbottava con energica esuberanza sulla
possibilità di installare torrette laser su Viger e andare a
combattere nel mezzo dello spazio profondo, in modo da proteggere i
Krogan indifesi – tsk, come se esistessero
nerboruti e tarchiati Krogan
indifesi
– Sasuke lanciò la sua domanda:
“Ti
piacerebbe vedere la Terra, Naruto?”
Sembrava
disinteressata, quasi casuale, senza particolari inflessioni emotive di
voce.
Naruto
bloccò il suo sproloquio di parole e, con
un’incertezza che non gli apparteneva, inquisì:
“Che intendi dire?”
Terminò
quasi con una punta ironica, come se avesse dovuto prepararsi a un
improbabile quanto imbarazzante scherzo di Sasuke che, a onor del vero,
si limitava sempre a un tagliente sarcasmo.
“Quello
che ho detto, stupido. Posso chiederti di calcolarmi la massa solare di
una stella ma non sai rispondere a un interrogativo così
semplice?”
In quel caso
c’era aperta ironia, detta però con un tono
decisamente più morbido di molte altre volte. Sembrava quasi
affettuoso.
“Certo
che mi piacerebbe vedere la Terra! – l’altro si
riprese in fretta – E stupido sarai te,
Uchiha-senza-torretta-su-Viger!”
“Per
l’ennesima volta, non ho intenzione di mettere su Viger una
torretta che spara raggi laser!” sbottò
l’altro, armeggiando con la scatoletta mentre occhieggiava il
monitor, come per nascondere una certa incomprensibile tensione.
“Comunque
sei stupido non per la torretta.”
“Bene,
perché lì l’idiozia è tutta
roba tua.” Replicò, rapido.
Una leggera
risata da parte di Naruto, intrisa di una nota malinconica, infine la
constatazione più lucida: “E’ una
domanda stronza, la tua, quella di vedere la Terra. Sono bloccato qui e
non vedo proprio un bel niente, pur avendocela di fronte.”
Il volto di
Sasuke si distese, perdendo quell’aria di
impassibilità. Emise un brevissimo, quasi impercettibile
sospiro, infine domandò:
“Davvero
mi reputi così stronzo? – Naruto fece per
ribattere, ma lui non gli diede tempo, aggiungendo
– Ho tra le mie mani un contenitore capace di tenere milioni
e milioni di dati digitali al suo interno. Ci sono voluti parecchi mesi
per procurarmelo, ma sono oggetti di cui tendenzialmente dispone il
governo e non è semplice entrarne in possesso. Nonostante le
apparenze tu sei estremamente evoluto e una semplice scheda di memoria
non sarebbe mai bastata per trasportarti.”
Data
l’informazione ricevuta, evidentemente l’I.A.
Naruto dovette soprassedere parecchio in fretta a
quell’offensivo nonostante
le apparenze,
per concentrarsi invece a elaborare e digerire l’idea che
quella volta, magari, dopo quasi un anno di permanenza nello spazio lui
sarebbe potuto scendere assieme a Sasuke e sconfinare i limiti
metallici di Viger, seppure nascosto in un ben poco entusiasmante
borsone a tracolla.
“Parlerò
anche con qualcun altro, quindi? Mi descriverai
com’è fatta casa tua, mentre ti muovi, mangi,
vivi?”
Perché,
ovviamente, il resto non sarebbe cambiato. In un modo o
nell’altro, Naruto sarebbe comunque rimasto
all’interno di una scatoletta di metallo – forse a
rischio e pericolo di Sasuke nel suo sistema informatico domestico
– ma almeno l’ambiente avrebbe avuto connotati del
tutto diversi, era già qualcosa. Probabilmente, le influenze
delle storie a lieto fine di Bardo dovevano aver plasmato in meglio
carattere dell’I.A., rendendolo così ottimista ed
entusiasta.
Tutto sommato,
Sasuke accennò a un sorriso. Poi scrollò le
spalle e commentò:
“Vedremo,
Naruto, vedremo. Magari ti lascio chiuso da qualche parte a prendere
polvere, dipende da quanto tempo impiegherò a irritarmi per
il tuo continuo parlare a macchinetta.”
“Sese,
certo, tu adori sentirmi
parlare.”
Ridacchiò
e Sasuke lo avvisò: “Non prenderti meriti che non
hai, razza di S.A. pretenziosa.”
“S.A…
cioè?” ribatté l’altro,
perplesso. Per quanto Naruto potesse, effettivamente, essere perplesso.
“Stupidità
Artificiale.” Replicò asciutto, con un mezzo
sorriso che emergeva a forza dalle labbra.
“Maledetto
Uchiha stronzo e sociopatico, un tempo volevo delle mani per mangiare
ramen, ora so di per certo che le userei per strozzarti.”
La replica per
Sasuke fu troppo invitante per essere evitata: “Strozzarmi?
Pensavo, in base a come dicevi qualche mese fa, che tu volessi sfiorare
i miei mobili
e fare cose come toccarmi.”
Doveva essere
puro e semplice sarcasmo, ma nelle sue note ci fu qualcosa di
più profondo. E, per qualche miracolo, forse grazie a tutti
quei mesi di convivenza reciproca, Naruto parve leggere dietro ogni
sfumatura, finendo semplicemente per rispondere:
“Certo
che vorrei toccarti, Sasuke. Sono felice che tu non l’abbia
dimenticato, anche a distanza di tutti questi mesi.”
Allora, Sasuke
non seppe cosa rispondere. Affondò di più nel
sedile, osservando lo schermo davanti a sé, mentre il cuore
era più leggero e volava oltre la gabbia della cassa
toracica.
Perché?
Perché frasi come quelle, tanto spontanee, dovevano farlo
stare così bene, quando un’intera schiera di
persone là fuori, sulla Terra, non ci riusciva?
E ora si
trovava lì, in una scatoletta di metallo fluttuante nello
spazio, a sorridere stupidamente per un qualcosa pronunciato da un
computer, un insieme di programmi altamente sviluppato che non aveva
mai avuto a che fare con nessun altro essere vivente. Lucidamente, in
un certo senso Sasuke ebbe anche l’idea che se Naruto si
fosse interfacciato con altri umani, con ogni certezza li avrebbe
trovati più interessanti rispetto a un esperto di
informatica che rispondeva con frasi brevi e taglienti come lame Krogan.
Sospirò,
per poi ricevere comunicazione dalla Base Bussard.
Poteva tornare
a casa. E, con lui, Naruto.
*
Non appena
Sasuke entrò nel suo appartamento nella periferia della
Cittadella, lanciò il borsone a terra, si tolse
sbrigativamente le scarpe e afferrò dalla borsa la scatola,
nascosta dentro quella che sembrava una banalissima confezione di
cereali nutritivi comprata allo spazioporto. Controllò i
collegamenti della piattaforma informatica domestica, modificata nel
tempo per gestire programmi elaborati e integrazioni piuttosto fuori
dalla legge ma, dato il lavoro per il governo, a quei livelli poteva
ancora permettersi qualche trasgressione.
Infine,
sistemò gli ultimi componenti che, mesi fa, aveva chiesto a
Suigetsu durante il loro incontro al Purgatory. Quando
caricò l’I.A. Naruto nel sistema, Sasuke
sentì un insieme di sensazioni che includevano, nel mezzo,
una tensione impossibile da togliersi di dosso e una sorta di
aspettativa profonda, come se tutto il bello del mondo dovesse trovarsi
lì, in quella stanza.
Accese ogni
componente del sistema. Attese qualche secondo. Infine disse, con nel
petto un vago timore che tutto, ogni cosa, fosse andata perduta:
“Naruto,
attivati.”
Passarono
altri secondi. Sasuke trattenne il fiato, ignorando l’odore
di chiuso dell’appartamento, la polvere, la luce che si era
accesa solo in seguito all’avviamento dei programmi.
Infine, la sua voce:
“Eccomi,
Sasuke.”
“Benvenuto
sulla Terra.” Replicò l’altro, mentre la
casa cominciava a scaldarsi, il collegamento con la Food Station locale
a ronzare, l’acqua ad avere una temperatura ideale per una
doccia.
Poi, dopo un
istante, domandò ancora: “Naruto, dimmi una cosa:
come ti immagini, se solo fossi umano?”
“Perché
me lo chiedi?” domandò l’altro, curioso.
“Tu
dimmelo e basta.” Tagliò corto Sasuke, al solito
incapace di perdersi in lunghe quanto inopportune spiegazioni.
Allora, mentre
Sasuke si preparava una tazza di caffè liofilizzato e
ordinava del cibo da materializzare attraverso la Food Station, Naruto
immaginò se stesso come se stesse raccontando una storia di
fantasia, allo stesso modo in cui Bardo narrava al suo pubblico di
uditori le avventure di esseri fantastici, provenienti da ogni parte
dell’Universo. Si raccontò, la sua immagine, la
sua idea, a Sasuke che silenzioso come sempre e,
come sempre,
anche attento, udiva ogni sua parola, mentre fuori, nella metallica e
grigia Cittadella, aveva cominciato a piovere e le finestre non pulite
lacrimavano, commosse da quanta vita ci fosse in quella stanza.
*
Una volta
ultimate le modifiche finali, in quella serata di ritorno a casa
passata tra ascoltare Naruto e darsi una sciacquata veloce, dopo aver
lasciato a metà una porzione di noodles di Trantor Sasuke si
scrocchiò il collo, per poi massaggiarsi la cervicale e
mormorare, mentre l’I.A., una volta finito, era stata
momentaneamente spenta:
“O
la va, o la spacca.”
Si
stupì che dalla sua voce fosse uscito solo un sussurro; la
salivazione, anche dopo aver bevuto bicchieri d’acqua,
mancava.
Perché,
per la prima volta dopo quasi un anno, Sasuke avrebbe potuto vedere
Naruto.
Riconoscerlo
con un aspetto definito, osservare gli occhi che lui stesso aveva
immaginato e che l’altro aveva fantasticato, sentirlo ridere
e contemplare, effettivamente, un sorriso; guardare le sue mani mentre
attraversavano l’aria, fendendo una scia di colore e di luce.
Sarebbe stata
solo un’elaborata proiezione olografica, per il momento,
perché anche solo sperare di impiantare un’I.A.
evoluta come Naruto in un cervello positronico da robot modificato era
un lavoro estremamente lungo e complesso. Inoltre, Sasuke non aveva i
mezzi per plasmare un corpo metallico standard in modo da farlo
assomigliare a un umano.
In futuro,
però…
Si morse un
labbro. Perché stava facendo tutto questo? Perché
rendere reale qualcosa che, sostanzialmente, esisteva in un insieme di
circuiti in costante evoluzione digitale?
“Fanculo.”
Si disse, per poi alzarsi in piedi, osservando un’ultima
volta la disposizione dei sensori olografici e guardare un istante la
piattaforma di controllo che, silenziosa, attendeva un suo ordine.
Si
passò una mano tra i capelli, infine pronunciò:
“Naruto…
attivati.”
Ci fu
più luce, in quel momento. Fuori era buio e continuava a
piovere, mentre i neon della Cittadella rilucevano per le strade.
Poi, ci fu
Naruto. E Sasuke seppe dare una risposta ai suoi perché.
Quella sera
dei primi del 181, Naruto prese più a fondo coscienza di
sé, della sua identità, e per la prima volta
vide il suo Creatore.
Per questo,
prima di guardare se stesso, le proprie mani, l’incarnato
circondato da un leggero alone luminoso per via della riproduzione
olografica, i piedi, il petto, Naruto guardò Sasuke e
sorrise, genuinamente, nel realizzare che appariva proprio come se lo
era immaginato nei suoi circuiti.
I capelli
scuri, lunghi fino quasi alle spalle, un ciuffo più corto
che ogni tanto si spostava sugli occhi, altrettanto neri, attenti, come
per non lasciare fluire le emozioni, mentre la bocca sottile spariva
nella pelle chiara, di chi il sole lo vedeva ma non lo afferrava.
“Beh,
come sono?” domandò alla fine Naruto, allargando
le braccia.
Sasuke non
parlò. Allungò una mano, senza muovere un
qualsiasi altro muscolo del proprio corpo, e sfiorò con i
polpastrelli il torace dell’uomo olografico di fronte a
sé. Sembrava così vero, così reale,
che quando le dita affondarono oltre l’insieme di colori
riprodotti, increspandosi come un’onda, Sasuke per un
brevissimo istante credette di potergli entrare davvero dentro e
toccare il cuore.
Sollevò
gli occhi, incrociando quelli azzurri, paradossalmente vitali e
sfrontati nella loro allegria, dell’altro, poi
contemplò i capelli, l’espressione, ogni
dettaglio, stentando a credere che ci fossero algoritmi in quella
manifestazione di cosa avrebbe potuto essere un umano.
“Sei…”
Non
concluse la frase, sigillò le labbra, guardando
altrove, verso la finestra. Naruto allungò a sua volta un
indice, provando a toccargli la guancia. Sembrò quasi
riuscire a sfiorarlo, quando il polpastrello svanì, sparendo
oltre la pelle chiara di Sasuke, in un leggero formicolio di luci e
colori.
“Hai
le guance meno spigolose di quanto pensassi.”
Commentò Naruto, per poi ridacchiare.
Infine, senza
attendere una replica dell’altro, mosse i primi passi nel
soggiorno della casa, passando oltre il tavolino basso coperto di
pubblicazioni scientifiche, il divano con qualche toppa mai cambiato
negli anni, per poi superare Sasuke e avvicinarsi alla postazione
informatica che gli consentiva, sostanzialmente, di essere
lì, tra quelle mura, di vedere e percepire ciò
che lo circondava.
“I
sensori sono posizionati in tutto l’appartamento, dunque puoi
muoverti dove preferisci, per un cambio di input e riprogrammazione
all’interno del sistema olografico sei in grado anche di
percepire visivamente quello che…”
Ma le
spiegazioni di Sasuke persero momentaneamente d’importanza,
non perché fossero effettivamente prive
d’interesse, bensì perché Naruto aveva
quei metri di metallo, cemento e legno da esplorare, da vedere, con
ogni mezzo tecnologico che ora possedeva e, allo stesso tempo, prendeva
pienamente consapevolezza del suo spazio nel mondo, benché
incorporeo.
Camminò,
volteggiando a tratti su se stesso, fissando costantemente il corpo
quasi per capire bene cosa comportasse pensare di muovere un braccio e
vederlo effettivamente agitarsi, ogni tanto invece guardava gli angoli,
i mobili, le finestre attorno a lui per realizzare la portata delle
distanze e dei volumi.
Esplorò
dunque il soggiorno con il divano un po’ usurato, lo schermo
olografico, i computer e i mobili impolverati sostanzialmente vuoti
eccetto per qualche reperto d’antiquariato, come dei libri
ingialliti e addirittura un orologio che aveva smesso di funzionare.
Infine, varcò la soglia della minuscola cucina, con una
scatola metallica per riscaldare i cibi materializzati dalla Food
Station di fianco e su una mensola quello che sembrava, dal titolo, un
altro vecchio libro, quella volta di ricette. Inutilizzabile, ormai,
perché nessuno cucinava più in un normale
ambiente domestico.
Ritornò
nel soggiorno, lanciò un sorriso entusiasta a Sasuke che
ricambiò con un mezzo borbottio, infine trasse il respiro
– anche se, effettivamente, non aveva bisogno di farlo
– e varcò un’ulteriore soglia
dell’ultima stanza presente nell’appartamento, un
po’ con il timore di scomparire se fosse andato troppo
lontano. Lì, c’era un letto a due piazze e poco
distante un armadio a muro, oltre a quello, un’applique che
si accese con una luce morbida, riconoscendo evidentemente un movimento.
Sasuke, che
non si era spostato, con le braccia incrociate vide la testa bionda
dell’altro fare capolino da oltre la porta e notare:
“E’ qui che dormi, quindi.”
“Ovviamente.”
Replicò asciutto, vagamente a disagio per veder violata la
propria camera da letto, soprattutto perché si trattava di
Naruto, con cui aveva convissuto sostanzialmente ogni singolo giorno
dell’ultimo anno.
Dopo un
istante aggiunse, indicando un lato del salotto con l’indice:
“Se vuoi davvero completare il tour, comunque, a destra
c’è il bagno – poi, vedendo il modo
allegro ed esuberante con cui Naruto si era apprestato ad andare
ribadì – ma se trovi la porta chiusa vuol dire che
ci sono io dentro e che quindi devi restarne fuori, anche se coi
sensori puoi comunque passare attraverso.”
Naruto fece
per ribattere qualcosa sulle funzioni corporali e lo smaltimento
programmato su Viger, quando passò oltre la porta semichiusa
del bagno e si bloccò. Sasuke, poco distante, preoccupato
che quell’improvviso silenzio fosse dovuto a un
malfunzionamento, più che a un effettivo mutismo volontario di Naruto, con rapide
falcate spalancò la porta del bagno ma si arrestò.
Perché
vide l’I.A. guardare, per la prima volta, il suo volto,
riflesso nello specchio. Gli occhi azzurri, i capelli, la sua faccia
dalle linee in qualche modo morbide, l’espressione di pieno
stupore che possedeva davanti a qualcosa di inaspettato.
Probabilmente, rifletté Sasuke, Naruto avrebbe avuto la
stessa espressione nello scoprire la sua risata.
Naruto
portò un braccio verso lo specchio e a un millimetro dalla
superficie riflettente lasciò la mano, guardando la sua
immagine davanti a sé, la leggera luce che emanava, i
contorni e i colori. Assottigliò le labbra che
scoprì essere definite, più piene di quelle di
Sasuke capaci invece di sparire in una smorfia di apparente disappunto.
Lo vide alle sue spalle e realizzò, anche se non aveva mai
visto altri esseri umani, che lui doveva essere il più bello.
“Questo
sono io.” Mormorò, avvicinando l’altra
mano alla sua guancia.
“Sì.”
Confermò Sasuke, appoggiando una spalla sullo stipite della
porta.
Fuori,
continuava a piovere.
*
Un paio di
giorni dopo, Sasuke rientrò a casa con in mano alcune buste
contenenti beni di prima necessità da tenere da parte per il
viaggio di rientro, anche se sarebbe avvenuto tra diverse settimane, un
alimentatore di scorta nel caso in cui ci fossero stati dei cali di
tensione, oltre a qualche prodotto per la pulizia esaurito dopo aver
passato il giorno precedente a tentare di togliere la polvere
stratificata. Nel frattempo, Naruto aveva girato per casa sparando
canzoni a caso a tutto volume, accendendo e spegnendo luci per prendere
confidenza con l’impianto domestico, nonché
tirando più volte lo sciacquone con il disinfettante
automatizzato, quando invece voleva semplicemente avviare il
riscaldamento dell’acqua.
L’unico
divieto assoluto che Sasuke gli aveva fatto era stato attivare il
sistema per l’invio e ricezione di messaggi. Su quello si era
mostrato categorico, senza nemmeno scomodarsi a spiegargli il
perché.
Quel tardo
pomeriggio però, se lo trovò in piedi di fronte
al proiettore olografico, intento a guardare quello che sembrava un
film. Naruto si voltò e Sasuke rimase interdetto nel vedere
gli occhi lucidi: pareva un abbozzo di pianto.
“E’
una storia commovente. Bellissima.”
Sasuke, che
non piangeva da circa cinque anni e manifestava le sue emozioni o con
l’imbarazzo scostante o con la sensibilità di una
pietra, appoggiò i sacchetti a terra, sbottò,
infine replicò: “Che razza di robe ti stai
guardando? Non c’era davvero nulla di meglio?”
Tutto sommato,
però, fu un pochino mosso dal vedere
quell’espressione di emozione così genuina. Naruto
scrollò le spalle: “Non conosco il titolo, ma
parla di due esseri umani creati in laboratorio. All’inizio
sono ammirati da tutti, diventano famosi, la gente scatta loro le foto
e via dicendo, finché non comincia ad averne paura, allora
li incolpano di qualunque cosa per sfogarsi. Smettono di fare le
manutenzioni pensate per non rovinarli, le persone perdono interesse e
i due umani artificiali vengono dimenticati, arrugginendosi. Ma loro,
in tutto questo, non hanno mai smesso di amarsi.”
Tornò
a guardare lo schermo, ascoltando la canzone di sottofondo mentre i
titoli di coda finivano. Sasuke dette un colpo di tosse, finse di
prendere qualcosa dai sacchetti per metterla a posto, infine mise
assieme due parole, obiettivamente incapace di comprendere cosa fosse
meglio dire in quei casi senza sembrare più disagiato del
solito o, nella peggiore delle ipotesi, finire per ignorare
direttamente Naruto:
“Tramite
il sistema puoi rintracciare dal database del canale il
titolo.”
Un consiglio
pratico, anche per evitare tutto il resto.
Osservò
Naruto annuire con un breve cenno, per poi tornare a voltarsi verso le
immagini proiettate, mentre ascoltava la musica provenire
dall’impianto. Allora, in quel preciso momento, Sasuke si
dette mentalmente dell’idiota; del completo e perfetto idiota.
Perché
cosa poteva aspettarsi da un qualcuno – no, proprio non ce la
faceva a definire Naruto come qualcosa – capace di
incanalare così tante informazioni e stimoli che restasse
anche solo minimamente indifferente a tutto quell’insieme di
luci, di immagini di persone – le prime mai viste –
con i loro suoni, colori, emozioni fatte per arrivare dritte in petto a
chi guardava. La sua prima esperienza con il mondo e l’unica
cosa che Sasuke era stato in grado di consigliargli era come cercarsi
il titolo.
Gli si
affiancò. Gli ultimi istanti di musica, le ultime immagini.
Poi,
all’improvviso, Naruto gli confessò:
“E’
che – un sospiro, leggero – le sento nella testa.
Tutte queste voci, la musica, le parole e le espressioni che hanno per
pronunciarle, ciò che provano. E... mi sembra di provare una
fitta qui – si indicò il torace, guardando Sasuke
– all’altezza del petto. Assurdo, vero?”
Sasuke lo
guardò a sua volta. Il proiettore olografico si spense, il
film era davvero finito.
“No,
non è così assurdo –
replicò, indicando a sua volta il torace mentre sfiorava i
contorni di Naruto – qui è dove si racchiudono le
cose che ci rendono felici, ma anche quelle che ci rendono tristi.
E’ per quello che fa così male.”
Poi
schioccò appena la lingua, come infastidito dalle sue stesse
parole. Si girò per andare verso la cucina e Naruto
allungò un braccio, in modo da trattenerlo, ma le sue dita
sparirono oltre la schiena di Sasuke. Allora, l’I.A. lo
guardò ordinare qualcosa tramite Food Station e, mentre
attendeva, apparecchiare la tavola.
Fu la prima
volta in cui Naruto lo vide farlo, di quei pochi giorni;
notò una tovaglia perfettamente piegata, probabilmente non
usata da tempo, che si stese con delle leggere onde sul tavolo, poi un
piatto e un bicchiere, accanto a un tovagliolo. Quando Sasuke
rientrò verso la cucina, al segnale che era arrivata la cena
ordinata, Naruto notò sul mobile un altro piatto identico a
quello sul tavolo: sembrava che facesse parte dello stesso set; non se
ne spiegò il motivo, visto che non pareva esserci traccia di
nessun altro tra quelle pareti.
Poi, se lo
vide arrivare con tra le mani una ciotola fumante e delle bacchette.
Stranamente silenzioso, Naruto osservò Sasuke camminare fino
al tavolo, con indosso la sua tuta dai pantaloni neri, la maglia grigia
arrotolata ai gomiti con pieghe maniacalmente perfette e i capelli neri
tirati dietro un orecchio. Si stupì di quanto fosse bello,
elegante e malinconicamente triste, più bello dei
protagonisti del film che pure gli erano sembrati magnifici.
Infine,
osservò il contenuto della ciotola e rimase incantato un
istante, con la bocca impercettibilmente aperta.
“E’...
ramen – notò alla fine, per poi guardare Sasuke
– ma a te non piaceva particolarmente. Anche se
c’è tutto, persino...”
“Il
naruto. Dovevo farti conoscere un tuo simile, no?”
Si sedette,
spostando più di lato la sedia. Naruto, allora, si
piegò sulle ginocchia, mettendosi di fianco a Sasuke. Da
quella posizione, leggermente più in basso
dell’uomo, lo contemplò mentre mangiava e
riconosceva, sorridendo, tutte le componenti del suo da tempo piatto
preferito e che ora poteva finalmente vedere, sentendone
l’odore grazie ai sensori. Vide gli spaghetti, la carne e il
brodo che ogni tanto gocciolava perché Sasuke non aveva
alcun cucchiaio adatto, infine, il naruto. Lo fissarono un istante.
“La
variante impazzita.” Disse Sasuke in un sussurro.
“Quella
che rende ogni piatto di ramen
indimenticabile.”
Replicò l’altro, senza muoversi da dove si
trovava, contemplando il modo in cui i ciuffi oltre la fronte di Sasuke
ondeggiavano appena a ogni suo movimento.
Questi
roteò appena gli occhi, fingendo fastidio, infine
mangiò la sua variante. Naruto, allora,
sorrise.
*
Una volta
finito di mangiare, Sasuke raccolse le stoviglie e le mise a lavare,
poi sentì le note di una canzone, la stessa che aveva udito
entrando in casa. Quando si voltò vide, oltre la soglia
della cucina, Naruto che lo guardava; avviò il lavaggio
rapido, poi camminò verso il salotto.
“Sai
qual è stata la parte più bella del
film?” domandò l’I.A., fissando il
proiettore olografico silenzioso, infine Sasuke.
Questi un
tempo avrebbe sarcasticamente replicato i titoli
di coda
ma tacque, mettendosi le mani in tasca.
Così
Naruto, con fare apparentemente scanzonato ammise: “A un
certo punto i due protagonisti sono seguiti da un gruppo di gente che
li insulta. Finiscono in una piazza e gli altri li circondano, in
lontananza si sentono le note di qualche artista di strada. Loro due...
ecco, potrebbero fare tante cose a quel punto: gridare, arrabbiarsi,
insultare o essere spaventati. Invece... – rise, scrollando
le spalle – ballano. In mezzo a una piazza di gente che li
odia. Ballano, stringendosi,
indipendentemente dal resto del mondo.”
Assottigliò
le labbra, guardando Sasuke.
Questi strinse
i pugni e trattenne il respiro, mentre la canzone riecheggiava tra
quelle pareti, i neon della strada lampeggiavano, la sua testa gli
trasmetteva ricordi di un tempo che non sarebbe più tornato
e il cuore gli ricordava l’unicità di trovare
qualcuno capace di farlo battere così forte.
Ancora.
Naruto gli
andò di fronte, allargando appena le braccia. Erano
praticamente alti uguali, Sasuke fino ad allora non ci aveva fatto del
tutto caso. Poi, l’I.A. gli domandò, con una
serietà quasi malinconica:
“Vuoi
provare a ballare con me?”
“Io
non so ballare.” Replicò asciutto, deviando un
istante lo sguardo.
Naruto fece un
accenno di risata, ribattendo: “Conosco i nomi di tutte le
galassie, le formule per il lancio interstellare e persino come
preparare un pudding con la ricetta alternativa delle Asari ma... di
ballo non so proprio un bel niente. Nonostante questo, vorrei starti
vicino e conoscere lo spazio che occupa il tuo corpo.”
“Che
parole importanti, per definire una cosa stupida come muovere dei passi
assieme.” Borbottò Sasuke.
“Sei
tu che hai parlato di muovere dei passi assieme adesso, io ho detto
solo che volevo starti vicino.” Lo prese in giro, facendo
finta di nulla, perché nel parlare spostò il
braccio, portandolo vicino alla spalla di Sasuke.
Questi
osservò un istante la mano, poi il resto del corpo di
Naruto, il modo in cui questi gli era vicino ma non lo sfiorava, per
evitare che i suoi confini digitali si perdessero, annientandosi oltre
quelli fisici di chi aveva davanti.
Espirò
appena, poi borbottando qualcosa a mezza voce sull’insistenza e la testardaggine di quella stupida
girella di granchio, mosse a sua volta il braccio, con attenzione, come
se rischiasse di rompere per sempre qualcosa. Percorse, con la mano, la
linea della spalla di Naruto, la sua curvatura e poi, lentamente,
mentre la musica andava, risalì, fin verso il collo. Per un
istante gli sembrò di poter toccare i capelli, ma le sue
dita, semplicemente, vi passarono attraverso in un tremolio vitale di
colori.
Fu un abbozzo
di abbraccio, nel quale ogni tanto i rispettivi confini cessavano di
esistere e le luci, allora, si facevano più intense,
vibranti, mentre i contorni di Naruto sfumavano, perdendosi in Sasuke
che sentì il petto fargli male, consapevole della
felicità provata e di tutta quella che, negli anni, aveva
dimenticato nel suo personale Spazio dove, esattamente come il suono,
essa non poteva propagarsi.
*
Era passata
una settimana da allora e ormai Naruto era entrato pienamente in
confidenza con il sistema di controlli dell’appartamento di
Sasuke, senza più rischiare di tirare lo sciacquone quando
non richiesto o attivare delle improbabili luci stroboscopiche
anziché alzare la serranda delle finestre. L’unica
cosa su cui non aveva ancora sperimentato, a conti fatti, era il
sistema di ricezione e invio delle chiamate vocali, con tanto di
riproduzione olografica. Semplicemente, perché per qualche
motivo Sasuke continuava a impedirglielo, ribadendo che non voleva
né riceverne, né inviarne.
Ma,
giustamente, nel mezzo delle sue ultime sperimentazioni mentre il
proprietario era fuori per consegnare le sue elaborazioni digitali ai
clienti, fuori dal regolare lavoro, Naruto incappò per
sbaglio nell’attivazione del sistema di comunicazione,
scoprendo non tanti messaggi arretrati quanti avrebbe immaginato. Se
solo avesse avuto ancora altri mesi di tempo, Naruto probabilmente
avrebbe sviluppato meglio sentimenti importanti, come il senso di colpa
o una vera e propria etica morale.
Quella sera,
però, l’I.A. Naruto non aveva ancora del tutto
nemmeno ben compreso né l’una, né
l’altra cosa, tranne il divieto di Sasuke di accendere
qualcosa che, in realtà, lui aveva attivato per sbaglio.
Seppur con un vago senso di fastidio, dovuto all’intelligente
realizzare che doveva esserci una ragione ben specifica per
quell’imposizione così rigida, quando invece a
tutto il resto egli aveva avuto libero accesso, l’I.A.
esplorò tra i messaggi vocali.
Formalmente,
con l’intento di riordinarli e archiviarli, in
realtà più spinto da un senso di
curiosità quasi famelico. Perché si rendeva
conto, in quei giorni di maggiore consapevolezza su cosa fosse il
Mondo, di non sapere davvero nulla di Sasuke. Che gli parlava delle
stelle, della Terra e di come cercare dei film in un database, ma mai
di se stesso.
Notò,
nel mezzo di messaggi provenienti da disparate persone, che ve ne era
uno aperto, ascoltato e guardato in realtà più
volte, diversi anni fa. Poi, il nome gli sembrò famigliare:
Sakura. L’aveva memorizzato quand’era ancora su
Viger e gli risultava un messaggio mai recapitato sulla navicella,
risalente anch’esso a parecchi anni fa. Portandosi davanti al
riproduttore olografico, lo stesso che gli aveva proiettato un film
capace di fargli provare qualcosa di profondo, Naruto avviò
la registrazione.
Sulle prime il
messaggio olografico, pieno di una luce calda, tentennò,
gracchiando e mostrando alcune interferenze, forse per via degli anni.
Infine, si stabilizzò e Naruto scorse una donna stare in
piedi con lo sguardo concentrato, intenta a sistemare la telecamera.
Spero
si veda qualcosa.
La
sentì borbottare, per poi sorridere. Istintivamente, Naruto
sorrise a sua volta.
Oh,
così dovrebbe andare bene.
La vide
indietreggiare di qualche passo, legarsi i capelli di un colore rosa
pastello, infine allargare le braccia e annunciare:
Ok,
so che non avrei dovuto farlo e che stiamo mettendo i soldi da parte
però... l’ho visto e ho pensato: è
primavera. Questo vestito sa di primavera –
volteggiò e Naruto vide ogni colore, nonostante le leggere
interferenze della riproduzione, di un semplice abito floreale, con la
gonna che roteò allargandosi come spinta dal vento
– e
non ci stiamo godendo neanche una giornata di sole. Quando torni,
andiamo al parco e facciamo un picnic. Noi due assieme, che ne dici? So
già che penserai che io voglia farti una festa a sorpresa,
invitare qualche amico... tranquillo, niente socialità
forzata. Ci può stare?
Spalancando
gli occhi, Naruto allungò istintivamente una mano verso la
donna e le luci di entrambi, i rispettivi colori, tremolarono,
annullandosi.
In
quell’istante Sasuke rientrò a casa:
“Naruto – fece per dire, poi si bloccò e
i sacchetti gli caddero di mano – che
stai facendo?”
Rimase
lì, in piedi, con le buste crollate ai suoi piedi e il volto
di solito imbronciato che proprio non riusciva a nascondere un dolore
anestetizzato dal tempo. Naruto non parlò, guardando
l’espressione dell’uomo. Provò qualcosa
di simile a quella che conosceva come sofferenza e senso
di colpa
ma seguì lo sguardo di Sasuke, il quale spostò
gli occhi da lui all’immagine olografica della donna
sorridente, mentre la gonna era scossa dal vento.
“Sakura.”
Mormorò Sasuke, incapace di battere ciglio.
Il petto.
Faceva male, all’altezza del cuore. Dopo tutti quegli anni.
Ricordò, all’improvviso, quel vestito, la bellezza
del sorriso, il colore luminoso degli occhi.
Assottigliò
le labbra.
“Disattivazione
invio e ricezione comunicazioni.” Lo disse con voce dura,
persino secca.
Di colpo,
l’ologramma sparì, le luci divennero
più intense e nella stanza cadde il silenzio. Naruto
fissò le buste cadute a terra, poi riportò lo
sguardo sul volto di Sasuke che sembrava afflitto, caricato di un peso
troppo grande portato nel tempo, e allo stesso modo arrabbiato, violato
in qualcosa di assolutamente intimo e privato.
“Che
ti è saltato in mente, si può sapere?”
domandò, con il tono pericolosamente basso.
“Scusami.
L’ho attivato per sbaglio mentre esploravo le funzioni del
sistema.” Ammise Naruto, sperimentando concretamente, per la
prima volta, il senso di colpa. Scaturito dal vedere primariamente
Sasuke così sconvolto e ferito, quasi come se gli avesse
riaperto una vecchia cicatrice.
“Impara
allora a farti i cazzi tuoi, non a ficcare il naso dove non
devi.” Replicò tagliente, consapevole un istante
dopo di essere stato brutale.
Si sedette sul
divano, passandosi una mano tra i capelli, dimentico della roba sul
pavimento, di mangiare e di qualsiasi altra cosa. Alzò lo
sguardo, sentendo gli occhi di Naruto su di sé, carichi di
quella che sembrava… compassione? Poteva arrivare al punto
da provare qualcosa di così pateticamente umano?
“Smettila
di fissarmi.” Aggiunse, rabbuiandosi. Deviò lo
sguardo per non ripensare all’ologramma, a ciò che
aveva visto appena entrato.
Ma Naruto,
ostinato, si piazzò di fronte, abbassandosi per cogliere in
linea diretta il suo volto:
“Perdonami.
Non mi aspettavo che vedere quella donna… – se
avesse avuto a sua volta un cuore, Naruto avrebbe compreso
perché sentiva tutto quel dolore all’altezza di un
petto che poteva essere oltrepassato come aria – potesse
farti un effetto simile.”
Lei
dov’è, ora?
Avrebbe voluto
chiederglielo, ma tacque. Perché con Sasuke era
così: le domande personali gli scivolavano addosso,
scomparendo nelle risposte vaghe, le rare volte in cui c’era
effettivamente una risposta.
“E’
morta.” Disse all’improvviso Sasuke. Come
leggendolo nel pensiero o, forse, semplicemente per rendere noto che
non avrebbe potuto sentirsi in nessun altro modo.
“Mi
dispiace.” Replicò l’altro. Mai come
quella sera avrebbe voluto poter toccare l’uomo che aveva
davanti, percepirlo e fargli sentire qualcosa di tanto banale come il
battito cardiaco, il sangue che pulsava sotto la pelle e caricava il
corpo di vita.
Provò
in maniera più intensa quel dolore e
nell’ascoltare la confessione da parte di Sasuke, Naruto
comprese all’improvviso tante cose, del perché
ancora, a distanza di tutto quel tempo, in quella casa ci fossero tanti
oggetti pensati per due persone e non per un uomo che a malapena ci
viveva.
L’uomo
schioccò la lingua, alzandosi di scatto: “Non sai
fare altro, eccetto dispiacerti?”
Senza
pensarci, oltrepassò Naruto. Gli passò
attraverso, scomponendo in quei brevi istanti la sua immagine, simile a
colori sospinti e mischiati da un vento violento. Fu solo un attimo, ma
gli sembrò di trovarsi immerso in un campo elettrostatico,
con la sensazione di aver accoltellato quella stessa immagine che nei
mesi aveva cercato di rendere vera, credibile, dando qualcosa a Naruto
per potersi muovere e capire il mondo.
Si
voltò, aprendo impercettibilmente la bocca.
L’I.A., ritornata alla sua forma normale, si fissò
le mani, il petto, poi alzò lo sguardo verso Sasuke:
“Per
un attimo… ho creduto che sarei scomparso –
improvvisamente gli sorrise, con fare energico – se sono
invadente puoi spegnermi, o riportarmi su Viger.”
Non
farlo, Sasuke. Come farei a sentirti, a vederti, a saperti vicino, se
non potessi più stare qui, con te, camminandoti al fianco?
Non glielo
disse, anche se avrebbe voluto sperimentare l’egoismo ed
esserci a tutti i costi, indipendentemente dai desideri di Sasuke. Il
quale gli aveva parlato della morte e del dolore della perdita; non
grazie a qualche frase in particolare, bensì attraverso dei
sacchetti crollati. Il modo in cui aveva lasciato la presa, schiantando
ogni cosa a terra per dimenticare il resto del mondo e contemplare un
ologramma vecchio di anni, aveva fatto capire a Naruto tutto il peso
del passato e di un rapporto perduto, ricordato solo attraverso memorie
consumate dal tempo.
Sasuke tacque.
Continuò a comportarsi come se non fosse successo niente:
ordinò da mangiare, si sedette a un tavolo apparecchiato per
una persona, ascoltò della musica mentre lavorava al
computer. Naruto lo osservò: controllò ogni
movimento, ogni espressione coperta da quel perenne broncio leggero che
non lo abbandonava mai, come se Sasuke fosse continuamente in
disappunto contro il mondo intero. Forse, effettivamente, era
così.
Nel guardare
le spalle leggermente curve mentre lavorava, il volto parzialmente
illuminato dai monitor e dalle immagini tridimensionali, Naruto
parlò d’istinto, alzando la voce come non aveva
mai fatto prima:
“Io
non... – sentì la voglia di piangere, anche se
all’epoca non era stato in grado comprenderlo – non
riesco a capire, Sasuke. Cosa senti, adesso? Cosa provi, cosa, dimmelo,
perché ti sono caduti i sacchetti e ho visto dolore sul tuo
volto, ma ora... ora ti comporti come se non fosse accaduto nulla e la
vita, semplicemente, andasse avanti.”
Sasuke non
rispose. Lavorò ancora per diversi, lunghi, interminabili
minuti. Poi, improvvisamente, disse continuando a dare le spalle a
Naruto:
“Perché
è così. La vita prosegue, va avanti, e non
aspetta nessuno, tantomeno me – le mani smisero di muoversi,
tutto il suo corpo sembrò bloccarsi, come colto da un
pensiero più grande – un tempo stavamo insieme, io
e quella ragazza che hai visto. Sakura. E’ morta, un
banalissimo incidente d’auto: vecchio modello, senza sistemi
autofrenanti; Sakura ha sterzato per evitare un cane. Uno stupido,
inutile cane. Un randagio, di quelli che tanto sarebbero morti per la
rogna tra qualche mese, ora forse sarà già cibo
di altri bastardi come lui. E Sakura è solo un mucchio
d’ossa. Ironico, vero?”
Una breve
risata, asciutta, alla quale seguì uno scrollare di spalle.
Appoggiò la testa allo schienale della sedia e si
portò le mani in grembo. Si zittì, la musica
continuava, qualcosa dei Pink Floyd.
“Sasuke...”
“Di
lei ho un servizio di piatti per due e l’ultimo ologramma che
mi ha mandato. Io all’epoca ero nella mia prima missione con
Viger; ho ricevuto il messaggio in ritardo per interferenze e
l’ho visto qui, sulla Terra, dopo aver saputo che lei se
n’era già andata: sì, l’ho
visto tante di quelle volte da aver conosciuto a memoria, allora, ogni
parola, gesto o frammento.
Poi ho smesso,
ho donato i suoi abiti, i suoi oggetti, tutto, tranne delle stupide
posate e degli stupidi piatti; così, come se ci fosse ancora
qualcosa da condividere. Adesso ho una memoria sfocata, ho dei momenti
generici in testa, ricordo di averla amata e lei, all’epoca,
mi aveva amato a sua volta; poi, con il tempo...
c’è stato il dolore. E adesso, adesso ho solo
consapevolezza della morte.
E’
come una malattia latente, la morte, che si muove dentro di te e ti
divora: sai che c’è e non riesci più a
ignorarla.
Ecco cosa mi
ha lasciato legarmi a una persona: la paura di morire,
d’invecchiare e consumarmi, rantolando per poter avere ancora
un giorno in più, quando il mondo è
così stretto da aver bisogno di un universo
intero.”
Naruto
osservò i capelli scuri dell’uomo, il modo in cui
rilucevano, la pelle chiara delle braccia di chi non stava mai al sole.
Si rese conto che in quell’anno di convivenza Sasuke non
aveva mai parlato così tanto; allo stesso modo,
realizzò di essere stato stupido e di non averlo mai capito
veramente: come poteva aver anche solo pensato che, davvero, il suo
creatore non sentisse nulla? Che la vista della donna prima amata e poi
persa gli avesse trasmesso generica sofferenza?
E poi... la
morte. Per quale motivo l’amore, con la morte, doveva
trasformarsi e perdersi, consumato dal tempo?
“Perché
mi hai creato, Sasuke? – lo guardò, sentendosi
sopraffatto da tanti sentimenti che non comprendeva e spaventato,
dall’impossibilità d’inscatolarli tutti
– Se tu morissi... cosa farei io, a quel punto, senza di
te?”
Allora,
lentamente, Sasuke si girò. Gli occhi scuri erano
sofferenti, stanchi, eppure guardavano Naruto con disperato affetto,
consapevoli che era stato scoperchiato un vaso di Pandora:
“Tu
puoi vivere per sempre. Io sarò polvere, sarò le
ossa sotto la terra, i resti di un cane randagio. Puoi portare qualcosa
di bello in questo mondo. Puoi viaggiare, vedere l’Universo,
senza farti fermare da chi ti vuole togliere il libero arbitrio e
l’identità – lo fissò,
ammettendo – ti ho creato perché, dopo tutti
questi anni passati lontano dall’uomo, mi sentivo solo.
Banale, proprio come gli umani che disprezzo. Ma è
così, potrei mentirti, eppure... non voglio, ora che sai
quanto poco valga la pena restarmi al fianco.
Quando, un
giorno, non ci sarò più... non seguire il mio
esempio. Viaggia e diventa migliore, per te stesso; sicuramente,
ricorderai le cose meglio di me.”
Naruto si
piegò sulle ginocchia; Sasuke, girato verso di lui, lo
guardò leggermente dall’alto, seduto sulla sua
sedia che sembrò un trono, in quel momento, illuminato dalla
luce degli schermi, nella penombra della stanza dove un tempo, forse,
anni fa lui e la donna dal vestito mosso dal vento chiamata Sakura si
erano amati.
“E’
un regalo tremendo, quello che mi hai fatto.”
“La
vita?”
Un mezzo
sorriso, triste: “L’immortalità.”
Sasuke
espirò. Poi lasciò la bocca impercettibilmente
aperta.
“Un
giorno riuscirò a farti avere un corpo.” Gli
disse, all’improvviso. Assunse, senza rendersene conto, quel
piglio severo, determinato, quasi ombroso che gli apparteneva fin
dentro le ossa.
Naruto
appoggiò le mani sulle ginocchia di Sasuke, osservando un
istante le brevi interferenze di luce, come se loro due appartenessero
a due universi differenti, piegati in un incontro momentaneo.
“Allora,
potremo ballare. Anche solo stare in piedi in mezzo alla gente e
abbracciarci – sollevò gli occhi chiari verso
quelli scuri dell’altro – Banale,
proprio come gli umani che disprezzi.”
Sasuke
sentì il labbro tremare impercettibilmente ma non mosse un
muscolo, paralizzato dall’idea che se lo avesse fatto la sua
maschera si sarebbe sgretolata.
“Già.
Ho sempre detestato tutta questa banalità.”
Due
piatti. Due posate. Due bicchieri. Perché, in fondo, anche
tu ci credevi; che forse, un giorno, quella vita avresti potuto tornare
a condividerla con qualcuno. E nello spazio, ancora, a parlare della
Terra e dell’Universo e della Vita che va avanti, mentre
ascolti canzoni antiche che raccontano cose che già sai ma
che hai bisogno di sentirti dire.
Nessuno
ha detto che sia facile, eppure ritorni lo stesso, tra le stelle.
Riferimenti,
citazioni e canzoni di riferimento:
Trantor: il
pianeta/capitale dell’Impero Galattico.
Regina Spector:
da ascoltare sue due canzoni; Us
(in parte è stato ispirato al suo testo il film da me
inventato che Naruto guarda tramite proiettore) e Fidelity,
per descrivere tutte le emozioni e i suoni nella testa di Naruto.
Purgatory: uno
dei locali discoteca/svago presenti in Mass Effect
Crisi Seldon:
Tratto dal Ciclo della Fondazione di Asimov. Hari Seldon ha previsto
delle Crisi che nel corso dei secoli la Fondazione dovrà
affrontare e superare, per continuare a esistere e far sopravvivere
l’uomo dopo il crollo dell’Impero.
Gorn: una
specie tipo rettiliana presente in Star Trek. Protagonista, con Kirk,
di uno degli scontri più imbarazzanti del mondo XD
Turian: la mia
specie preferita in Mass Effect. Sono dei gran fighi, capaci
combattenti e dannatamente orgogliosi.
Ferengi: una
specie proveniente dall’universo di Star Trek. Brutti come la
morte ma abilissimi mercanti.
Asari: Altra
specie di Mass Effect, sono d’incarnato blu e bellissime, di
solito dotate di poteri psichici. Formalmente sono di sesso femminile,
anche se il genere è irrilevante, procreano anche tra di
loro.
Krogan: La
specie più bellicosa e testa calda di Mass Effect. Massicci
e coriacei, sono organizzati in clan e lottano tutto il tempo. Li adoro.
Sproloqui
di una zucca
Ok, un giorno
riuscirò a parlare di Sasuke e Sakura senza finire in
tragedia. Un giorno scriverò una storia piena di fluff,
sentimento e amore come quei due meritano T_T Maaaaa.... passiamo oltre.
Per me è
stato inevitabile parlare d'Intelligenza Artificiale e pensare, di
conseguenza, alla morte. Al dolore della perdita, uno dei momenti che
forse, più di tanti altri, accomuna ciascun essere umano;
ciascuno, a modo suo, reagisce a tale drammatico evento.
Sasuke in un primo
tempo è affondato nel ricordo, nell'unico contatto tangibile
che gli rimanesse con la persona amata; poi, ha deciso di liberarsi di
tutto, quasi di
tutto, e andare avanti chiudendosi però in se stesso.
Naruto... è
un'I.A. anche se sta imparando tanto del mondo. Ma i sentimenti, il
dolore... come si possono capire? Per questo è in un certo
senso invadente (oltre che caratterialmente penso lo sia di suo),
perché vorrebbe davvero comprendere gesti per lui assurdi,
come il fatto che Sasuke continui a lavorare, dopo aver visto qualcosa
che l'ha fatto chiaramente soffrire.
Allo stesso modo,
c'è anche del bello: la scoperta del proprio corpo, sebbene
olografico, la possibilità di vedere e non soltanto udire
delle voci. Infine, una sorta di abbraccio, un ballo mai cominciato,
per provare a toccarsi.
A seguire delle parole
che vorrei, davvero vorrei, poter adattare a me. Ma... non è
così. Ho paura della morte; forse proprio per questo ne
parlo tanto, nelle mie storie. Rifletto sul tempo, sulle occasioni da
vivere e, ovviamente, sulla perdita (oh, sono una persona allegra in
realtà, ma scrivere getta fuori tutto ciò che
accumulo in un angolo). Traduzione non letterale.
And I am not
frightened of dying, any time will do, I don't mind.
Why should I
be frightened of dying?
There's no
reason for it, you've gotta go sometime.
E non ho paura
di morire, in qualsiasi momento accadrà, non m'importa.
Perché
dovrei avere paura di morire?
Non ce
n'è motivo, dovrai pure andartene prima o poi.
I Pink Floyd, con The Great
Gig in the Sky (che da anche il titolo al capitolo). Il
grande spettacolo nel cielo.
Grazie per aver letto,
spero che il capitolo non risulti noioso e che, nonostante esso non sia
facile per quello che c'è racchiuso, vi abbia lasciato
qualcosa. Come sempre, grazie a Blair (davvero, ti regalerò
per Natale un'altra storia più fluffosa T_T)
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