Sei neve che cade dal
cielo.
È sempre bastato poco, a Eagle,
perché l’universo si fermasse ad ascoltarlo. Dalla sua ha la voce di
velluto e un sorriso magnetico, anche se di motivi per sorridere non
ce ne sono mai stati tanti.
Gli occhi rivolti al cielo, in
una cappa di gas e veleno ch’è sempre stato tutto ciò che Autozam
aveva da offrire – trecentosessantacinque giorni l’anno, nessuna
stagione, solo fumo in una città dove gli alberi crescono in
provetta, poco, male e raramente – e ha scrollato le spalle, come se
quella frase fosse sempre stata presente, a galleggiare in un’aria
che puzza di motori di scarico.
Come se “sei neve che cade dal
cielo” possa avere un senso in un mondo in cui la neve brucia prima
d’arrivare e tutto quello che rimane è pioggia nera di cenere
cristallizzata.
«È la tua definizione di
romanticismo?»
Eagle ruota gli occhi per
guardarmi (ci sono i resti di un’alba estiva in quello sguardo,
l’oro della corona di un sole sull’orlo dell’orizzonte), la bocca
gli si piega in un broncio e, di colpo, è il marmocchio
sghignazzante e dai tratti sbiaditi che lo scatto di una macchina
fotografica è riuscito a catturare a malapena. Di tutte le foto
dell’album di famiglia che sua madre mi ha mostrato, quelle che
ricordo meglio sono quelle sfocate in cui Eagle scappa rincorrendo
un rivolo di vento o ride così forte (e la risata risuona in
quelle foto) da cadere dalla sedia su cui sono riusciti a
piazzarlo.
«È una metafora, Lantis. Non
le avete su Cephiro?»
«Abbiamo modi diversi per
confessare a qualcuno il nostro affetto.»
Eagle si tira indietro, la
schiena posa contro la gamba d’acciaio dell’FTO.
Dietro di lui si staglia
l’Accademia Militare – c’è un albero al centro del campo
d’addestramento, uno spauracchio rachitico a cui i figli dei soldati
hanno attaccato ghirlande di carta, foglie colorate a pastello e
soldatini di metallo. Di cosa sia il Natale non ci è arrivato che
un’eco distante borbottato dal pianeta Terra, rimbalzato tra le
stelle – qualcuno di qui l’ha colto prima che la nebbia se
l’ingoiasse e da allora, per un breve periodo all’anno, Autozam si
copre di luci e di addobbi penzolanti.
«Quello non hai bisogno che te
lo confessi, lo sai da tempo e mai l’ho negato» allunga le gambe, le
posa sulle mie cosce e si lascia cadere di lato, venendomi addosso
in strusciate lente, lezioso come un gatto.
Perfino tra i fumi di scarico
delle industrie robotiche, il profumo di Eagle ha una fragranza
dolciastra che mi ricorda gli spazi immensi di Cephiro – che, in
qualche modo, mi riporta a casa.
«La prima volta che ti ho
visto cadere dal cielo, quando tu e il tuo spirito guida siete
entrati nella nostra atmosfera, ho pensato fossi un miraggio.
Come neve che cade dal cielo. Come il Natale ad Autozam.»
Il fiato di Eagle è caldo a
differenza del suo corpo. Ha la pelle bianca e fresca – la neve
forse se l’è sempre tenuta per sé – e il respiro bollente, parla e
morde ovunque riesca ad arrivare, che sia il mio collo, la mascella
o l’orecchio.
Eagle ama piegare gli altri ai
suoi capricci (così come ci si aspetta dal figlio di un politico) e,
come con tutto, perfino tra i miei vestiti si fa strada con
impazienza e l’elegante autorità di un principe viziato, iniziando a
rimuovere ogni intralcio, finché le sue dita non si aprono al mio
petto.
I morsi sono più forti, cerca
il mento e trova, invece, le labbra, la bocca, i denti, la lingua.
Nel bacio mette se stesso – del suo amore mi ha sempre dato fino
all’ultima stilla, anche se non gliel’ho mai chiesto.
«Se io fossi nato sul pianeta
dei Cavalieri Magici,» sospira per riprendere fiato «saresti stato
il mio Miracolo di Natale.»
Basta poco.
E l’intero (mio)
universo smette di girare. Immobile. Fermo. A pendere estasiato
dalle labbra di Eagle. |