Us
III
Time
L’indomani
sarebbero partiti per una nuova missione nello spazio: altre settimane
a fluttuare con Viger tra le stelle. Sasuke aveva già
preparato tutto. Dalla volta in cui l’I.A. aveva visto
l’immagine di Sakura erano passati diversi giorni e non ne
avevano più parlato; semplicemente, perché non
c’era altro da dire: l’uomo aveva riversato
talmente tanto di se stesso da far credere a Naruto che, forse, non
avrebbe più potuto ascoltare nulla di così
violentemente profondo e doloroso da parte sua.
Quel pomeriggio precedente la partenza, Sasuke appoggiò sul
tavolo un oggetto tondeggiante e piatto, con incise sopra delle
iniziali che istintivamente Naruto riconobbe appartenere al suo
proprietario: Uchiha Sasuke.
Questi spiegò, con il solito fare pragmatico e dalle
sopracciglia leggermente aggrottate:
“Ora che sei entrato nel sistema di casa potrai trasferirti
direttamente dall’appartamento a Viger; con il tempo e un
po’ di elaborazione dati, in potenza sarai in grado di
spostarti su numerosi server diversi. Ma il tuo corpo olografico e, in
futuro, quello fisico rimarrà sempre qui. Per questo, una
parte della tua memoria e dei tuoi dati, anche quelli iniziali dei
nostri dialoghi, a loro volta resteranno tra queste mura: qualsiasi
cosa succeda, non ti perderai mai.”
Ovunque sarò,
potrò sempre tornare a casa.
Naruto annuì, per poi domandare con la solita insaziabile
curiosità ed energia che lo animavano: “Scommetto
che non hai caricato i miei dati sul tuo sistema informatico domestico.
Dove...”
Sasuke sollevò l’oggetto dal tavolo e lo
portò davanti all’I.A.:
“Qui dentro. All’apparenza è un
fermacarte, un oggetto innocuo. Ma all’interno contiene
un’apertura a incasso nella quale ho nascosto
l’estensione di memoria.”
Naruto annuì nuovamente, facendo un fischio ammirato:
“Sei un genio, Sasuke. E, credimi, detto da me vale
tantissimo.”
“Tsk, ricordati chi ti ha creato, stupido. Ovvio che sono un
genio.”
Finirono per sorridere entrambi. Sasuke appoggiò il
fermacarte su una delle mensole, di fianco all’orologio non
funzionante incapace di scandire il tempo.
*
Il giorno della partenza, Naruto osservò Sasuke compiere una
serie di gesti che sembrava eseguire per un’abitudine
radicata da tempo, come impostare i comandi per l’acqua, la
luce, il riscaldamento e tutto ciò che comportava bloccare
una casa, renderla pronta a essere vissuta, ancora, ma in futuro. La
polvere... quella sarebbe tornata, giorno dopo giorno. Era inevitabile.
Poi, fece una cosa insolita: mise un paio di occhiali da vista.
Montatura sottile ma nera, come neri erano i suoi capelli e i suoi
occhi; fissò Naruto, sollevando appena un labbro in una
leggera smorfia per commentare, notando l’aria sorpresa:
“Dov’eri mentre lavoravo? Impegnato a usare il
sifone del water?”
“Oh, Sasuke, non è che posso starti sempre
appresso a guardarti!” sbottò l’altro,
gonfiando le guance con disappunto.
“Ah, no?” replicò, trasformando la
smorfia in un mezzo sorriso.
Dopo un istante sospirò, mentre il bagaglio compatto da
portare nello spazio giaceva vicino alla porta e le luci si abbassavano
per far regnare la penombra nella stanza, visto che
l’equipaggiamento tecnico e i viveri erano già
stati portati allo spazioporto.
Allora, Sasuke spiegò fingendosi paziente:
“Riutilizzerò la stessa estensione di memoria
dell’andata per portarti con me. Solo che, al contrario,
è impossibile passare i controlli in uscita dallo
spazioporto e allo stesso modo il passaggio di informatici da casa mia
a Viger verrà monitorato.
E’
la prassi dettata dalla Legge Interplanetaria per la Robotica; una cosa
stupida, frutto di disposizioni arretrate mai cambiate dal primo Salto
Interstellare: infatti, se invece tu decidessi di infilarti nel sistema
di un’altra navicella non avresti problemi, a meno che essa
sia schermata informaticamente. Salvo controlli sporadici e casuali,
gli addetti alla sicurezza si limitano alle procedure base di scambio
informazioni dai punti d’accesso informatici standard del
viaggiatore, come la casa, alla sua navicella.”
“Dopodiché? Cosa intendi fare con me dentro una
scatoletta metallica, visto che allo spazioporto non ci posso nemmeno
andare?”
Lo scrutò, curioso anche se detestava ammettere di non star
seguendo del tutto la pianificazione di un umano che avrebbe dovuto
essere logico, persino prevedibile; invece Sasuke, come
l’I.A. aveva potuto constatare, non era né
l’una, né l’altra cosa. Anzi, spesso
finiva per ragionare fuori da ogni schema, nonostante il carattere
asociale che sembrava tipico di chi preferiva attenersi a percorsi
prestabiliti per evitare eccessive interazioni.
“Dopodiché – ripeté, seccato
– vedi di startene zitto. Perché, Naruto, davvero
non conosci gli umani e forse è tempo che impari a farlo.
Sono, infatti, pieni di risorse: quando qualcosa è vietato,
o proibito, trovano sempre il modo per arginare la
problematica.”
“Quindi anche tu stai...arginando
la problematica?” domandò, con un
certo divertimento.
“Oh, meglio. Io elimino del
tutto la problematica – si guardarono un
istante, infine l’ingegnere aggiunse – ora
è tempo che tu ti disattivi, Naruto.”
Questi sentì qualcosa che avrebbe potuto catalogare come
tensione, mista a una sorta di eccitazione per tutto ciò che
era nuovo e inesplorato.
“Ci rivedremo su Viger, Sasuke?” domandò
poi, serio e neanche troppo velatamente impaziente di comprendere.
Dopo un istante l’uomo rispose:
“Prima. Ci rivedremo prima. E poi... altrove.”
Quella volta Naruto non comprese. In seguito se ne pentì, di
non aver avuto allora tra le mani l’ingegno umano,
perché grazie a esso avrebbe intuito a quali e quante cose
Sasuke in quelle settimane aveva pensato. E a quante altrettante
problematiche si era interfacciato, per eliminarle, a modo suo.
*
Quando Naruto si sentì riattivare, credette che si sarebbe
trovato nuovamente su Viger, perdendo quindi consapevolezza, ancora, di
cosa volesse dire vedere ciò che lo circondava,
nonché la percezione di muoversi in uno spazio
tridimensionale.
Invece... per una serie d’interminabili secondi
l’unica cosa che tentò di fare, fu cercare di
trovare un equilibrio. Perché non era nello spazio, su
Viger, nemmeno in casa, tra le mura e le porte di un appartamento
svuotato. Si trovava al contrario nel mondo, sulla Terra, tra le strade
ricche di gente proveniente da ogni angolo dell’Universo:
bellissime Asari dalla potente energia psichica, pericolosi Klingon che
non dovevano incrociare la strada con i robusti e poco pazienti Krogan
dalla corporatura massiccia, umani mercanti che ritornavano a casa dopo
essere andati ai confini di tante galassie, acquistando intere casse di
latte blu di Tatooine per poi vendere i frutti più
prelibati, coltivati nelle poche terre ancora libere
dall’acciaio della Cittadella.
Udì tanti rumori, di chiacchiere, di richieste, di promesse
e urla, il traffico aereo delle navicelle in partenza vicino allo
spazioporto, accompagnati dai riflessi dell’acciaio che
ricopriva gli edifici e l’acqua delle pozzanghere incassate
nelle strade, calpestate da ogni specie vivente.
La gente. Radunata per parlare di politica, di affari, per vivere e, un
giorno, morire, sperando di aver lasciato nel cuore di qualcuno quelle
parole.
Nel mezzo,
c’era Sasuke che andava avanti. E Naruto, il quale vide
attraverso la microcamera inserita negli occhiali del suo creatore il
mondo un tempo raccontato tramite altrettante parole e immagini
olografiche, trasparenti come lo era lui.
L’I.A.
si sentì, in quei minuti, circondata da così
tanti colori e suoni da rimanerne sopraffatto: avrebbe voluto voltarsi,
più e più volte, per scorgere il dettaglio di un
angolo inesplorato, la locandina olografica di una nuova proiezione, la
macchina capace di guidare da sola e viaggiare lontana senza quasi
toccare terra, mentre un tempo Sakura non era stata nemmeno in grado di
frenare.
“C’è puzza d’asfalto bagnato
dopo la pioggia, d’inquinamento, di cibo malsano dei locali,
di gente che suda e di fiori, vagamente, misti ai profumi eleganti e a
quelli da quattro soldi. Qualcuno, forse, all’angolo ha
acceso un fuoco per scaldare il vino rosso da amalgamare con le spezie;
qualcun altro ha portato con sé l’odore di casa,
di ammorbidente chimico, che non si leva di dosso nemmeno negli uffici
più affollati – Sasuke continuò a
camminare mentre parlava a mezza voce, descrivendo l’unica
cosa che Naruto non poteva recepire, assieme al tatto,
l’odore – a breve sparirà il
collegamento. Gli occhiali sono collegati al mio sistema informatico
domestico e alla tua memoria digitale di backup lasciata
nell’appartamento. Questa è la Terra: inquinata,
sporca, piena di gente.”
“Volevi disilludermi?” Ironizzò
l’altro, attraverso l’auricolare nella stanghetta
degli occhiali.
“No – ribatté, schivando alcuni mercanti
Ferengi che cercavano di contrattare sui prezzi delle stoffe
– volevo
portarti con me.”
Poi, il collegamento fu più lontano e, come un filo tirato,
consumato dal tempo e dalle distanze, Naruto si spense, lasciando quei
luoghi caotici, quella vita, nonostante la malattia e la debolezza
insita in ogni essere vivente; il controsenso della morte, per chiunque
nascesse.
*
Il Purgatory continuava a essere un locale all’apparenza come
tanti, con i suoi tavolini e gli ordini dal menu digitale, la musica
elettronica e la gente che lo animava. Ma, come sempre, rivolgendosi
alle persone giuste e con un po’ di soldi da spendere, si
potevano scoprire modi alternativi per passare la serata; Sasuke, negli
anni, aveva imparato ad apprezzare il valore delle conoscenze adatte ai
suoi scopi e a sfruttare il denaro messo da parte per qualcosa di
più nobile di una casa in rovina.
Scorse Suigetsu con in mano un bicchiere mezzo vuoto, un ghigno che
lasciava intravedere i denti appuntiti e i capelli modificati
geneticamente d’azzurro che gli sfioravano le guance. Sasuke
si tolse gli occhiali e gli andò davanti, accennando un
saluto, infine l’altro domandò:
“Sicuro di volerlo fare?”
“E’ l’unico modo.”
L’interlocutore lo fissò un istante ma non disse
nulla. Si limitò a guardarsi brevemente attorno, poi
digitò un codice su un sensore tattile di fianco alla porta,
la stessa porta notata da Sasuke per anni mentre contemplava
l’idea di passarci attraverso, un giorno; dopo un istante
essa si aprì e, allora, oltrepassarla fu paradossalmente
più facile. Quando i due uomini entrarono,
l’ingegnere si trovò in un corridoio stranamente
famigliare avvolto dalla penombra: la strada era parzialmente
illuminata da qualche luce fluttuante, il resto era il nero
più totale, come se attorno a loro ci fosse soltanto il
nulla.
Poi, un’altra porta si aprì. E i due vennero
avvolti da una luce morbida di un colore simile all’azzurro
tenue, proveniente da dei letti disposti simmetricamente in una
gigantesca sala; nel mezzo, camminavano delle infermiere dal volto
felino e gli occhi attenti che fissarono i nuovi arrivati, senza
però fare domande. Nel silenzio assoluto, interrotto
soltanto da un debole ronzare di macchinari, le creature si muovevano
senza fare rumore, come se fossero state in grado di elevarsi sul
pavimento lucido e scuro, estensione del buio del corridoio.
Sasuke sapeva cosa fossero quei letti. Anni fa, era stato tentato di
sdraiarsi lì e non rialzarsi più; scorse, poco
distante, una delle infermiere girare il corpo di un uomo per lavarlo e
impedire che si formassero delle piaghe da decubito.
In fondo era
semplice: bastava coricarsi e qualcuno avrebbe pensato a inserire tutti
i collegamenti per entrare in una realtà virtuale perfetta,
creando una riproduzione fedele di se stessi o, nella finzione,
ciò che si sarebbe sempre voluti essere. Ciascuno aveva il
proprio angolo personale, il mondo in cui divenire padrone e realizzare
ciò che in vita, a conti fatti, era invece irrealizzabile.
Qualcuno passava delle ore, altri delle giornate; qualcun altro ancora
concludeva lì la sua esistenza, collegando il proprio conto
bancario con le macchine per permettersi di sopravvivere fino alla
fine, in un posto dove sarebbero stati felici, giovani, capaci di
arrivare dove il corpo non consentiva più di giungere.
Ovviamente, era un sistema illegale. La Legge Interplanetaria prevedeva
severe regolamentazioni sul monte massimo orario, proprio per evitare
dipendenza o che qualcuno finisse, come in realtà accadeva,
per rimanere in quel letto e non svegliarsi più.
Posti come
quello, formalmente, non esistevano. Ogni tanto si trovavano
però funzionari compiacenti e, parallelamente, venivano
creati sistemi informatici altamente protetti, a prova dei controlli
governativi.
Vista
l’elevata sicurezza di tali apparecchi, non tutti
necessariamente li usavano per creare sogni reali; qualcuno infatti li
sfruttava, sempre pagando, per esportare digitalmente materiali
compromettenti che altrimenti non avrebbero mai potuto viaggiare nella
rete e oltre, fin nello spazio, senza rischiare di attirare attenzioni
non gradite.
Tra questi qualcuno,
vi era Sasuke.
Tese a Suigetsu il supporto mnemonico in cui aveva caricato Naruto poi,
dopo un istante, aggiunse:
“Avrei un altro favore da chiederti.”
Suigetsu prese l’oggetto, infine gli disse: “Spara.
Tu che chiedi favori è un evento storico.”
Allora, Sasuke gli parlò, breve e coinciso com’era
sua abitudine. Suigetsu lo ascoltò, ponderando ogni parola,
fino a che dopo un istante rispose: “Si può fare
ma... è un rischio, non è come gli altri casi:
qui stai facendo un trasferimento dati di una mole massiccia in
contemporanea. Ti possono scoprire – Sasuke lo fissava, senza
cambiare espressione seria, dunque l’altro sospirò
e borbottò – va bene, posso garantire
mezz’ora massimo per ogni trasferimento che farai su Viger,
poi dovrai staccare.”
Mezz’ora. Ridicolo, rispetto alle ore di una vita intera, ma
meglio di nulla.
L’ingegnere annuì. Allora, Suigetsu gli
mostrò un letto vuoto. E, per la prima volta, Sasuke ci si
sdraiò sopra, domandandosi se dopo avrebbe avuto ancora
voglia di alzarsi.
E se fosse il mio corpo,
a incontrare il tuo?
*
Naruto non era mai stato certo di comprendere fino in fondo cosa
comportassero i sentimenti, almeno fino a quella volta. In cui si
ritrovò a prendere coscienza di sé in uno spazio
non fisico, esattamente come quando aveva avuto vita, parlando per la
prima volta, ma allo stesso tempo senza il buio dei circuiti di una
navicella spaziale.
Era infatti in un prato, e c’era vento. Poco distante, una
casa, semplice, con un porticato, due sedie e il resto della pianura
che si estendeva sconfinata. Abbassò lo sguardo,
contemplando le sue stesse mani, sentendo la bellezza di quel vento tra
i capelli; li sfiorò e li strinse, realizzando di essere
davvero lì e lui poteva toccarli, poteva toccarsi,
sentirsi. Appoggiò l’altro palmo sul petto e
credette di sentire un cuore battere, al di sotto.
“E’ un bel posto.”
Si voltò. Vide Sasuke. Proprio lui, con i suoi ciuffi lisci
lasciati crescere fino a coprire le orecchie, gli occhi dello stesso
colore che ora lo fissavano, mentre la bocca era piegata in un abbozzo
di sorriso. Le mani erano nascoste nelle tasche dei pantaloni, invece i
piedi erano scalzi.
“Dove siamo?” chiese Naruto, con quel bisogno di
sapere e capire. Allo stesso tempo mosse un passo avanti, avvertendo la
terra sotto di sé, l’erba umida, il freddo del
primo mattino; credette, a quel punto, di cadere, di non saper nemmeno
come si potesse camminare.
Sasuke, allora, gli rispose senza muoversi: “Stai venendo
caricato su Viger attraverso un posto fuori dai radar dei controlli di
sicurezza. Nel frattempo siamo in una zona di confine, in un mondo
creato virtualmente per ospitare entrambi.”
Naruto sospirò. Si scoprì incapace di parlare,
oltre che di camminare.
“Sembra tutto così... vero. Io sono questo, alla
fin fine? Io sono reale nell’irrealtà? Mi sento
confuso: il mio giudizio, le mie conoscenze, i dati che hai caricato
nel mio sistema sono caotici. E ora tutte le stelle di questo universo
sembrano non contare, all’idea di poter sentire
così tanto.”
Rise.
Sasuke iniziò a camminare, sempre con le mani in tasca, i
capelli mossi dal leggero vento. Andò di fronte a Naruto che
allungò, dopo un istante, un braccio. Sfiorò la
guancia del suo creatore; prima, con un cenno leggero, infine impresse
i polpastrelli e li lasciò lì, avvertendo la
pelle fredda graffiata dal vento e il respiro caldo dell’uomo.
Questi aprì appena le labbra sottili per poi dire, mentre in
realtà le mani erano artigliate alle cosce,
all’interno dei pantaloni:
“Passerà tempo, prima che tu possa avere un corpo,
forse anni. Altrettanti mesi passeranno di volta in volta su di una
navicella nel mezzo del nulla, senza più tutta questa noiosa
Terra, la gente, la mia casa, dove potrai vedere i film per esplorare
il resto nel mondo – prese un respiro, perché
parlare era diventato più difficile e lui non era abituato
– qui... non hai bisogno di un corpo fisico per sentire
quello che vuoi. E’ il mio compromesso; dopodiché,
ci separeremo, per ritrovarci tra le stelle.”
Quella volta, Naruto spostò ancora le dita, fino a toccare
la guancia asciutta dell’altro con il palmo e percepirla
così pienamente da credere di poter avvertire le vene
pulsare sul collo, respirando sangue e vita.
Avrebbe voluto chiedergli, in un momento di folle disperazione, se
Sasuke avesse mai pensato, in tutti quegli anni, di fare la stessa cosa
con Sakura, per rivederla nella sua testa e stare con lei.
“Certo, che ci ho pensato – gli disse
l’altro all’improvviso, senza muoversi, e Naruto lo
guardò, silenzioso – di vederla. Di vedere tutte
le persone che ho perso e che non ritroverò più.
Ma non
l’ho fatto, perché poi la solitudine mi sarebbe
stata insopportabile, proprio dopo aver sempre creduto di essere
superiore a cose come la nostalgia. L’ho vista roteare con la
sua gonna, tante, tante di quelle volte da essere sempre stato sul
punto di venire fino a qui e lasciarmi andare, in questo loculo, per
vivere la mia vita con lei. Sarei morto in un letto, con i muscoli
atrofizzati, le piaghe e senza più vedere la luce del sole;
egoisticamente, ho pensato di valere più di così,
anziché consumarmi in un amore vuoto fondato solo sul
ricordo.”
Dopo un istante fissò il cielo. Azzurro e senza nuvole,
spazzate via dall’aria che accarezzava le foglie,
l’erba, i capelli e trascinava con sé le parole,
assieme ai respiri.
“Esistono le seconde possibilità, dopo essere
stati così soli da non sapere più nemmeno cosa
voglia dire fare l’amore e vivere, aspettando
l’altra persona a casa, in un tavolo apparecchiato per
due?”
“E’ per le seconde possibilità che sei
vivo, Sasuke. Altrimenti avresti scelto quel letto, lasciandoti morire.
E io... non esisterei.”
Tacquero. Dopo un istante, l’uomo semplicemente
annuì, assottigliando le labbra perché non
riusciva più a dire altro, a parlare, a esprimere i pensieri
generati da anni di solitudine.
Naruto, allora, gli toccò il braccio e gli prese la mano.
Sasuke lo guardò, guardò le sue stesse dita,
senza i calli e le imperfezioni degli anni, avvertendo la presa di
Naruto, il calore, il modo in cui le falangi si intersecavano
perfettamente, in una maniera splendidamente matematica.
Finì per mordersele, quelle labbra. E sentirsi morire, per
tutte le volte in cui non aveva più percepito un altro
essere vivente amarlo così tanto, seppure in un mondo
irreale.
Ancora. Ancora, ancora.
Mezz’ora non basta: come si può quantificare il
tempo, a questo punto? Quanti anni dovranno passare, prima che possiamo
tenerci per mano e camminare, mentre la gente prosegue con la sua vita,
tra gli odori e i rumori della strada, il vento che trasporta le
nuvole, la pioggia e libera il sole, sulle nostre teste.
Finisco per stringerti e pensare che le mie mani possano racchiudere le
tue scapole, simili a tavole su cui incidere il mio nome nato da un
abbraccio tenace, capace di non farti più andar via. Poi,
ancora, la terra digitale attorno a noi si trasforma, il paesaggio
cambia e dipinge i luoghi della nostra vita, la casa, lo spazio e le
stelle, una piazza, il divano, le bancarelle piene di cibo. Tutto si
trasforma, scorre, cambia, noi non ci lasciamo.
Non so se ti ho mai amato così tanto come allora. Nel
vederti senza vestiti, nel toccare le curve, gli angoli e le geometrie
del tuo corpo, la pelle brunita che sembra aver già
sperimentato la luce del sole, mentre gli occhi chiari, fatti
d’acqua e vita, onde di appassionato bisogno di conoscere,
sanno già cosa guardare e le mani cosa cercare.
Siamo
su di un letto, con sopra un tetto di stelle, mentre le galassie
s’incrociano sopra di noi, assieme ai pianeti, alle
congiunzioni astrali e ai buchi neri che abbiamo nel petto.
Sì, un buco nero, un orizzonte degli eventi che sento sul
mio sterno all’idea di perdere, ancora, di non vincere
più una vita con te, tornando a sentire così
tanto.
Ma tu riesci ad amarmi al punto da fare implodere
quell’oscurità, una supernova fatta di vita e
desiderio, capace di divorare le stelle e farle brillare come comete,
brucianti dei loro gas e della loro polvere millenaria, squarciando la
notte che io vedo sopra di noi quando tu mi avvolgi e mi stringi, come
se fossi cielo e io terra, nel giorno e
nell’oscurità. Per sempre.
Mezz’ora ed è già fuggita, mentre la
mia vita non è mai stata così lunga.
*
Anno 186 S.I. (dal primo Salto Interstellare)
Naruto e
Sasuke passarono interi mesi nello spazio; poi, sulla Terra, ancora, a
volte ritrovandosi nel loro mondo esclusivo. In ogni occasione per
tempi sempre più lunghi, dimenticando di nuovo le
mezz’ore, come se rischiare valesse comunque la pena.
Nel mentre, il corpo di Naruto prendeva forma, lentamente, con alcuni
pezzi recuperati, modificati, adattati, ma... ci sarebbe voluto ancora
tanto prima di renderlo completo. L’I.A., in quei casi
silenziosa, guardava Sasuke lavorare con in sottofondo David Bowie o i
Pink Floyd, nella loro casa fuori dal resto del mondo.
Il tempo passava e i capelli di Sasuke crescevano progressivamente meno
neri. Ogni tanto infatti, spuntava un ciuffo bianco che però
spariva nel mare di quelli scuri.
Un giorno, però, le cose cambiarono.
In una nuova missione nello spazio, Naruto si risvegliò su
Viger. Ormai non aveva più bisogno del comando vocale del
suo creatore per attivarsi. Chiamò il nome di Sasuke,
perché non poteva vederlo e gli mancava, gli mancava ogni
ombra sul suo volto, ogni curva delle sue spalle, il modo elegante in
cui si muovevano le mani.
Non ci fu risposta. Attese, interi minuti, mentre le navi spaziali, al
di fuori, partivano verso angoli sconosciuti dell’Universo.
D’impulso, azzardò qualcosa che non aveva mai
fatto prima: tornare a casa, senza più pensare ai controlli
di sicurezza. Sentiva, percepiva, che doveva essere successo qualcosa;
Sasuke era sempre stato presente, sempre, sempre, sempre.
Più lo ripeteva, quel sempre, più realizzava di
non capirne fino in fondo il significato, non quando gli Universi
scomparivano in un’esplosione o stelle millenarie bruciavano,
perdendosi nello spazio.
Si ritrovò nei sistemi di casa, avvertì i nodi
famigliari delle formule e dei codici, poi fece per collegarsi
all’apparecchio olografico ma si bloccò, sentendo
delle voci, voci che non conosceva. Qualcuno camminava a passo spedito,
buttava all’aria oggetti, il tavolo forse, e svuotava le
librerie.
“Continuate a cercare! Il traffico dati nello spazio era
massiccio e anche se la provenienza era schermata, quel figlio di
puttana viveva qui, deve esserci qualche supporto fisico in cui ha
fatto il backup dell’I.A.!”
Mezz’ora. Era quello? A quello si riduceva il tempo?
Pensò al suo supporto fisico, nascosto dentro un fermacarte.
L’avrebbero trovato? In quel momento non pensò al
fatto che ogni traccia olografica di lui sarebbe stata distrutta,
scomparendo per sempre, rendendolo incapace di vedere il mondo attorno
a sé. Pensò infatti solo a Sasuke, a Sasuke che
non era lì e forse sarebbe stato irrimediabilmente
compromesso se quegli uomini, chiunque essi fossero, avessero trovato
una prova ancora più tangibile ad aggravare i suoi capi
d’accusa.
Tacque, all’interno del sistema apparentemente in stand-by,
soffocando la voglia di saltar fuori e cacciare ognuno di quegli
stronzi intenti a distruggere tutto ciò che era di Sasuke e,
in parte, anche suo, come anni fa lo era stato di Sakura e della vita
progettata assieme, incapace però di realizzarsi.
Si sentì rabbiosamente inutile, perché non aveva
un corpo fisico con cui prenderli a pugni e fare del male, non poteva
nemmeno inserirsi nella corrente e fulminarli, per il rischio di
generare dei sospetti: doveva semplicemente attendere e sperare che non
scoprissero il segreto nascosto dietro un banale fermacarte.
Dopo quelle che sembrarono ore, finalmente gli estranei se ne andarono.
Naruto impulsivamente si mosse verso il dispositivo olografico ma,
quando sentì la propria immagine riprodursi e i sensori
attivarsi, realizzò che lo strumento era stato in parte
rovinato dagli urti e dai tentativi infruttuosi degli uomini di
utilizzarlo, infruttuosi perché senza un’I.A.
caricata il dispositivo era totalmente inutile. Per questo
l’avevano danneggiato, come per sfogare la loro intrinseca
stupidità.
Nonostante percepisse la sua stessa immagine saltare, Naruto
riuscì ugualmente a guardarsi attorno e a contemplare, suo
malgrado, la devastazione dovuta a quell’invasione brutale:
il divano era stato squarciato, gli oggetti della libreria gettati a
terra, rotti, calpestati, l’orologio fermo da anni spaccato,
la tovaglia appallottolata e i piatti rotti.
Sì sentì furente, per la sua impotenza, ma anche
dispiaciuto per tutto quello che la casa aveva subito. Soprattutto,
però, era preoccupato, per Sasuke e per ciò che
poteva essergli accaduto. Nelle ore seguenti, tentò di
mettersi in contatto con lui, ma Viger non rispondeva ai segnali e,
allo stesso tempo, Naruto era consapevole che il traffico dati in
quella casa era monitorato, dunque dovette aspettare. Ore e ore,
consumato dall’attesa.
Riscaldò la casa, l’acqua, sistemò le
luci, per trovarsi qualcosa da fare, come se da un momento
all’altro Sasuke sarebbe ricomparso; allora, Naruto avrebbe
attivato una canzone dalla playing list, per ascoltarla assieme mentre
apparecchiavano.
Poi, a un certo punto, sentì la porta aprirsi. Un intuito
dato dal sospetto gli comunicò che con ogni
probabilità non doveva trattarsi di uno degli estranei,
perché non avrebbe avuto quella cautela; ma nemmeno...
poteva essere Sasuke: non c’era urgenza, né
trasporto in quel gesto, lo stesso di un amante che voglia abbracciare
un altro corpo, desiderato e ritrovato, in un bisogno di sentirsi.
Suigetsu vide davanti a sé l’immagine olografica
di un uomo dai capelli biondi e gli occhi chiari, anche se ogni tanto
saltava con interferenze e un gracchiare remoto simile allo statico di
una vecchissima radio. I due, umano e I.A., si guardarono per qualche
istante senza dire nulla, infine il ragazzo dagli accesi capelli
azzurri domandò, con una certa fretta:
“Sei tu Naruto, vero?”
“Sì – c’era orgoglio, in
quella risposta – dov’è Sasuke?
Dov’è? Io...”
Ma l’altro lo interruppe: “Non
c’è tempo. Ti porterò via nella scheda
di memoria estesa, se riesco assieme al tuo backup.
Dove l’ha messo...”
Si spostò però Naruto allungò un
braccio improvvisamente, passandogli attraverso in una scia di luci:
“Non tocchi un bel nulla. Dimmi dov’è? Lui dov’è?”
Suigetsu si bloccò.
“Il messaggio... quello che mi ha detto che ti avrebbe
inviato. Non l’hai letto?”
Naruto lasciò cadere il braccio, ammettendo con una rabbia
soffocata: “Ha disattivato la ricezione e invio messaggi. Non
l’ha mai più riattivata e io...”
All’epoca non aveva avuto il permesso, poi, non ne avevano
più parlato.
“Cazzo – sbottò Suigetsu, scuotendo la
testa – ecco un altro motivo per cui aveva bisogno che
andassi. Senti, lo attivo io manualmente; ascolta il messaggio, poi...
ti caricherò e ti porterò fuori di qui.
E’ pericoloso, rischi di venire cancellato. Quel
coglione.”
Sbottò,
trattenendo il respiro, mentre sbloccava i codici del sistema, in modo
da bypassare sia Naruto che eventuali altri impedimenti di sicurezza.
Un modo più rapido e meno rischioso.
Poi si
alzò in piedi e gli disse, puntando un dito contro il petto
olografico:
“Non essere anche tu ingordo
di tempo. Ascolta il messaggio, poi ce ne andiamo. Sono
fuori dalla porta.”
Naruto fece una smorfia, ma annuì, per poi guardare i
messaggi. Osservò un istante quello vecchio di Sakura,
notificato nello schermo olografico, infine notò
l’ultimo, appartenente a Sasuke. Sentì un insieme
di emozioni che fece fatica, allora, a classificare.
Avviò la riproduzione e sussultò quando vide
comparire dal proiettore olografico l’immagine di Sasuke. Per
diversi secondi, in attesa che il suono si caricasse, la sua figura dai
capelli neri e gli occhi scuri rimase immobile, con qualche
interferenza di tanto in tanto. Naruto avvicinò un braccio e
per un attimo entrambi i loro confini sparirono, divenendo frammenti di
luce.
Infine, Sasuke parlò e Naruto, in quella casa dagli oggetti
rotti, il divano squarciato e i libri calpestati, lo ascoltò.
Prima o poi era destino. Sapevo di rischiare e che avrei attirato
attenzioni non desiderate del governo. Ma... passano i mesi e
più passano, più mi sembrano corti; il tempo mi
sfugge dalle mani e tutti i miei progetti, ogni giorno, li vedo
risolversi nel nulla o in qualche linea scritta a metà. Ho
preparato questo messaggio da farti avere, Suigetsu ti
porterà con sé, sarai al sicuro.
Io... ritornerò a casa. Tra mesi, forse anni. Ma
ritornerò.
Mi piace l’idea di rientrare a casa, stanco e infreddolito,
per scaldarmi e sentirti parlare, visto che io l’ho sempre
fatto troppo poco.
*
Quel giorno, quando Sasuke si sollevò a sedere dal letto,
Suigetsu lo afferrò per il collo della maglia ringhiandogli
addosso con rabbia:
“Un’ora e mezza questa volta! Dannazione! Ti sei
bevuto il cervello?”
L’altro gli scostò la mano, seccato ma consapevole
delle sacrosante ragioni per cui il suo ex-collega doveva arrabbiarsi:
“Non possono risalire a te: rintracciano i dati, non la
provenienza. Fino ad adesso è andata.”
“Da quando ragioni così? Sei sempre stato ben
più responsabile di me, cosa...”
Non finì di parlare, schioccando la lingua con frustrazione
mentre lasciava la presa e Sasuke si alzava in piedi.
“Non è gusto del rischio. Semplicemente... ogni
tanto mi dimentico di quanto tempo passi e desidero, ogni volta,
strapparne un altro po’ – lo fissò,
infine improvvisamente aggiunse – ho comunque preparato
tutto, nel caso in cui il governo sospetti il passaggio tra sistemi di
un’I.A. troppo elaborata e senza blocchi.”
Suigetsu fece una smorfia: “No, non dirmelo. Non dirmi che
c’entro anche io qualcosa perché, davvero, sei mio
amico e tutto il resto ma non mi paghi abbastanza, bello.”
L’ex-collega lo fissò un istante, senza mutare
espressione: “Porta Naruto qui da te. Non lasciare che lo
cancellino, solo questo. Gli recapiterò un messaggio che
giungerà casomai non dovessi più rientrare a
casa.”
“Ne vale davvero la pena? Fare tutto questo,
intendo.”
“Rischiare la deportazione per aver guadagnato qualche minuto
in più con un’altra persona? Non lo so, non ci ho
mai davvero pensato, ma... sono felice. Quindi, sì, credo
proprio ne valga la pena.”
*
Quando Naruto venne caricato nel sistema del Purgatory,
avvertì in un istante l’eco di tante vite e
desideri intersecarsi con lui, senza però sfiorarlo davvero.
Poi, sentì la voce di Suigetsu che gli spiegò,
mentre l’uomo era seduto su un letto vuoto, disinfettato dopo
che un cliente si era lasciato morire vivendo gli ultimi anni nel mondo
costruito per lui.
“Non hanno trovato prove tali per cui Sasuke debba ricevere
l’ergastolo o, peggio, una condanna a morte. Ma è
stato provato che trafficava con le I.A. Non sono ancora risaliti a
questo posto, però è solo questione di tempo:
inutile dirti che dovrai restare a basso profilo.”
“Dove l’hanno portato.” Disse
semplicemente l’Intelligenza Artificiale.
La voce risuonò tramite auricolare impiantato nelle orecchie
di Suigetsu, il quale fece una smorfia in parte irritata, in parte
rassegnata: “In questi casi c’è la
deportazione. Su navi coloniali nei lavori forzati, o come combattente
– si umettò le labbra, aggiungendo – ma
non è un per
sempre. Di solito ritornano.”
Se sopravvivono ai ritmi
massacranti o non rimangono uccisi in guerra. Tacque. Non
seppe perché si stesse dando tanto da fare per confortare
un’I.A. Eppure si rispose da solo, quando sentì il
trasporto e l’affetto
con cui Naruto reagì in seguito.
“No. Non va bene, non va affatto bene! Io devo
trovarlo!”
“Trovarlo? Ti devono essere partiti tutti i
circuiti!”
Davvero quella cosa con cui stava interagendo tramite sistema era
un’I.A.? Come poteva sembrare così dannatamente
umana?
Sasuke. Fino a che punto
hai lasciato che evolvesse? Ha un nome,
un’identità e... dei sentimenti. Dei sentimenti,
merda santissima.
“Sì, trovarlo – ripeté,
energico, per poi aggiungere – aiutami ad andare su Viger!
Devo...”
Ma Suigetsu lo interruppe, sbraitando mentre scattava in piedi e le
infermiere lo guardarono preoccupate: “Scordatelo! Viger
è sottoposta a controllo, non posso spedirti fino a
lì.”
“Allora un’altra nave – insistette,
testardo e ostinato – trovami un’altra nave e... io
viaggerò in qualche modo, di sistema in sistema,
finché non troverò Sasuke!”
Suigetsu scosse la testa: “Tu sei pazzo! Fulminato! Poi
Sasuke mi ha detto di tenerti al sicuro, di non permettere che ti
cancellassero...”
Sigillò la bocca, dandosi dell’idiota.
Avvertì un leggero tremolio nella voce quando
l’altro gli domandò:
“Davvero?”
“Forse. Una roba simile.”
“Allora... ti chiedo lasciami andare e dimenticarti quello
che ti ha detto. Perché non è qui che devo
essere: mi sta bene rischiare, penso
proprio che ne valga la pena.”
Suigetsu scosse la testa, ridendo per l’ironia di quelle
parole già sentite – una risata un po’
triste, la sua.
“Pazzi. Siete due pazzi fottuti – batté
una pacca sul computer inscatolato dietro lamiere metalliche
– beh, allora... fa che ne valga davvero la pena,
Naruto.”
*
Anno 196 S.I. (dal primo
Salto Interstellare)
Naruto,
l’I.A. AL-76, viaggiò per l’Universo. Di
nave in nave, di sistema in sistema, esplorò intere
galassie, intromettendosi tra i circuiti delle navi, le torri controllo
negli spazioporti dei pianeti e fu testimone di altrettante cose:
guerre tra clan Krogan, trattati di pace, esseri viventi nascere in
mezzo alle macerie e in climi inospitali, sentì creature
parlare d’amore e altre ancora di vita, conobbe nuove leggi e
promesse non dette, ascoltò canzoni dimenticate di popoli
lontani migliaia di anni luce; ancora, vide membri di equipaggi morire,
flotte sparire, altrettante scontrarsi ed esplorare confini pieni di
luce nei quali le stelle brillavano come centinaia di soli.
E in ognuno di questi luoghi, cercò Sasuke. In ogni nave,
pianeta o galassia, sperando di riconoscere la sua voce, sentire una
canzone sussurrata di quando la Terra ancora non era ricoperta di
metallo, mentre un orologio invisibile ticchettava, come battiti di un
cuore che correva troppo veloce e troppo a lungo.
Ogni tanto rientrava a Casa, ma non vide mai Sasuke rincasare e
chiedergli di attivarsi, anche se lui era già Vivo, tra
quelle pareti.
Per questo
finiva per starci poco, giusto qualche minuto; il tempo di rivedere
Sasuke che gli parlava in un ologramma, dicendogli che sarebbe
rientrato, mentre sussurrava in uno sguardo accigliato che ne valeva la pena.
Essere stati ingordi, delle ore passate assieme.
Poi, accanto,
c’era Sakura che l’aveva lasciato tanti anni
più addietro ancora e roteava, con un vestito di fiori.
Il vuoto. Divorava, il vuoto. E più Naruto andava lontano,
più il vuoto cresceva.
Finché, un giorno del 195, sentì la porta
aprirsi. Cigolava, perché nessuno si era più
curato di aprirla. I mobili erano ancora devastati, gli oggetti rotti,
il sistema andava a rilento, come una macchina piena di ruggine; ogni
cosa era rimasta esattamente come quando Sasuke era stato portato via,
anche se i muri si stavano scrostando, le luci non funzionavano e la
polvere aleggiava quasi viva nell’aria chiusa, assieme ai
calcinacci di una casa mangiata dal tempo.
Dieci anni. Dieci lunghi anni. Naruto aveva visto e imparato
così tanto ma non aveva più parlato, da allora,
perché non c’era stato nessuno con cui dialogare,
al di fuori di Sasuke.
Si voltò, mentre la propria immagine olografica si spegneva
sempre più spesso e lo rendeva consapevole che la voce
avrebbe gracchiato, ne era sicuro.
Allora, lo vide. Sasuke.
I capelli lunghi fin sotto le spalle, ingrigiti. Il corpo smagrito, il
volto con occhiaie e delle rughe, perché era invecchiato, in
quei dieci anni. Come le pareti e la casa, anche Sasuke era stato
mangiato, da quel tempo.
E aveva a sua volta visto così tanto da bastargli per una
vita intera. Aveva visto compagni morire, pianeti razziati, distruzione
e paura, paura di morire a sua volta, lì, in una terra
dimenticata, senza poter più scorgere le sue stelle e
parlare, ancora, con
Naruto, a cui aveva promesso di creare un corpo e farlo camminare
davvero, in mezzo al resto della gente.
Sasuke lo realizzò. La casa, gli oggetti, tutto, in fondo
era cambiato. Ma Naruto... era lo stesso di dieci anni fa, i capelli e
gli occhi e le mani, le dita, capaci perfettamente
d’intersecarsi con le proprie.
Lui... chi era lui, invece? Aveva perso dei denti, i capelli erano
quelli di un vecchio e delle unghie gli erano saltate mentre cercava di
scavare nella terra e nelle fosse dove sarebbe morto, se non avesse
lottato così tanto per vivere. E per tornare.
Perché ne
vale la pena.
Se lo era ripetuto, ogni singolo giorno.
Le gambe gli cedettero. Crollò sulle ginocchia e Naruto gli
fu davanti, gridando, perché non poteva sorreggerlo,
perché in tutti i suoi viaggi non era stato lui a trovarlo e
a riportarlo indietro con sé, prima, prima, prima.
“Sono a casa – la voce era roca, a tratti bassa
– ho freddo e sono stanco. Così tanto stanco che
potrei morire, di stanchezza – poi, ricordò,
ciò che gli aveva detto tanti anni fa – Il calore
accogliente e le tue parole.”
“Io... non potevo nascondermi, lo capisci? –
replicò Naruto, in ginocchio di fronte al suo Creatore, come
sentendo il bisogno di spiegargli qualcosa, di giustificare con se
stesso tutto quel tempo speso senza
di lui – Ti ho cercato così tanto...
così tanto.”
Ripeté, scuotendo un istante la testa.
“Allora avrai tante storie da raccontare. E io le
ascolterò tutte.”
Sasuke si alzò lentamente in piedi e domandò
ancora: “Dov’è?”
Dopo un istante Naruto comprese che parlava del suo backup. Si
guardò attorno, perché non sapeva se fosse ancora
sopravvissuto qualcosa, dopo tutti quegli anni.
Poi l’uomo, dopo aver rovistato un istante tra i cocci e i
libri ingialliti, vide il fermacarte, un po’ graffiato ma
ancora integro.
“Quello che sei. Ma anche le registrazioni. Delle prime
interazioni che hai avuto, quando ancora eri AL-76. I ricordi, di come
siamo cambiati... noi.”
Quante cose avrebbe voluto chiedergli e dirgli Naruto, quanto desiderio
di abbracciare Sasuke, che era mutato a sua volta ma era comunque
identico, nel cipiglio ombroso, nella serietà e nel modo
accennato d’incurvare le spalle. Si accorse che a tratti
l’uomo nemmeno lo guardava e, in seguito, Sasuke nemmeno
avrebbe più guardato gli specchi.
Quel giorno, dopo tutto quel tempo, dopo tutta l’ostinata
disperazione messa nel trovarlo, Naruto riuscì solo a fargli
una domanda che, scioccamente, non aveva mai posto prima:
“Sasuke... perché proprio quel fermacarte,
perché ciò che siamo doveva essere nascosto
lì?”
Fece un mezzo sorriso, con affetto nostalgico.
Guardò, ancora una volta, le iniziali di Uchiha Sasuke.
Quest’ultimo lo fissò, sentendo comunque nelle
orecchie il rumore della morte, perché la morte aveva un
suono tutto suo, e in quel momento si scontrava con la melodia rotta
dalle interferenze della voce di Naruto che pure, in quegli anni,
Sasuke aveva avvertito così tanto nella sua testa, alzandosi
dal fango.
Poi gli spiegò perché avesse scelto quel
fermacarte e Naruto fu felice, di aver girato tutte le galassie per lui.
*
Anno
2980 S.I. (dal primo Salto Interstellare)
Gli
esploratori si fecero largo tra i detriti monitorando il livello
d’ossigeno, consapevoli che ormai scarseggiava e quindi
l’ambiente poteva essere piuttosto vivibile per la loro
specie. Inspirarono le leggere radiazioni, sentendo formicolare la
pelle squamosa.
Uno di loro monitorò il picco di onde elettromagnetiche in
cerca di forme intelligenti, ma fino ad allora la ricerca scientifica
in quel pianeta lontano dal Multiverso si era rivelata poco fruttuosa.
Stavano per rientrare finché, all’improvviso, ci
fu un picco più alto; esso cresceva esponenzialmente man
mano che si avvicinavano a un quartiere di quella che un tempo sapevano
essere una Città, luogo d’incontro tra razze
antiche, molte delle quali estinte.
Si guardarono un istante, poi decisero di trasmettersi telepaticamente
le coordinate da cui proveniva il segnale e proseguire. Avanzarono tra
montagne di metallo, stralci di terra ingiallita e mangiata dalla
radioattività, pannelli che un tempo erano insegne, navi e
macchine che avevano solcato i cieli, fino a raggiungere le stelle.
Dopo minuti passati a fluttuare tra le colline metalliche, gli
scienziati scorsero i contorni di quello che millenni fa doveva essere
un rifugio, in cui le specie del pianeta erano abituate a vivere.
Lì, videro qualcosa di totalmente inaspettato: dei mobili,
tutto sommato curati e senza troppa polvere, con sopra degli oggetti
ingialliti che i nuovi arrivati non sapevano essere libri,
perché non li avevano mai visti prima di allora.
Infine, su di
un letto scorsero una creatura strana: aveva dei capelli biondi sulla
testa e gli occhi chiusi, la pelle liscia e chiara; al suo fianco, un
mucchio di ossa distese, bianche, consumate dal tempo.
Circospetti, si avvicinarono. L’entità era
immobile, sembrava però tenere in mano qualcosa, anche se la
presa era inconsistente.
Dopo un cenno d’intesa, uno degli esploratori
allungò la mano ungulata verso l’oggetto,
afferrandolo.
Rigirandolo tra le dita, lo guardò ma non comprese.
L’altro gli si avvicinò e riconobbe dei caratteri
arcaici incisi sopra, memore delle navi da museo provenienti da guerre
spaziali lontane. Non riuscì del tutto a decifrarli, quindi
tacque per evitare di creare confusione.
Dopo un suono gracchiante però, all’improvviso,
partì un ologramma le cui immagini ogni tanto saltarono,
fino a riassestarsi. Riconobbero la creatura dai capelli biondi
proiettata vicina a un’altra creatura che sembrava tanto
più vecchia, anche se quegli organismi provenienti da
ulteriori universi non conoscevano concetti come il tempo e la
vecchiaia, così come non conoscevano i libri o le canzoni.
I due protagonisti dell’ologramma erano abbracciati e
stretti, mentre qualcosa di musicale riecheggiava vagamente attraverso
la registrazione.
Gli alieni non capirono, non poterono capire, che era un abbraccio in
una bozza di ballo: solo per loro due, perché finalmente
erano stati in grado di toccarsi divenendo reali entrambi, dopo essersi
cercati così a lungo. Centinaia e centinaia d’anni
fa, fino ai confini dell’Universo.
Poi, all’improvviso l’esploratore
ricordò la pronuncia delle lettere antiche incise sul
fermacarte, le iniziali di un’identità:
“Us.”
Allora la creatura seduta sul letto, con ancora gli occhi chiusi,
serrò la mano attorno a quella squamosa che aveva afferrato
l’oggetto con la scritta. Non si mossero.
Infine, altrettanto all’improvviso, l’essere dai
capelli biondi aprì la bocca e ripeté, con una
voce piena di vita:
“Noi, noi...
Noi.”
Sproloqui
di una zucca.
E anche questa storia
è andata! Comincio con il parlare dell'immagine iniziale:
è opera di un artista bravissimo, Peter Mohrbacher (qui il
suo blog https://www.vandalhigh.com/angelarium-2/),
e rappresenta Yesod che nella cabala è alla base dell'albero
della vita (sopra solo al Regno); simboleggia il passaggio da una
condizione all'altra, connettendo tutto il resto. Mi sembrava dunque
adatta per rappresentare un po' la trasformazione di entrambi i
protagonisti della storia.
Questa volta Naruto
non è riuscito a trovare Sasuke e a riportarlo indietro, ma
è stato Sasuke stesso a sopravvivere proprio per poter
tornare, anche se invecchiato e consumato dalla vita. Sono riusciti,
alla fine, a ballare assieme, toccandosi. Ma il tempo, di cui Sasuke
è stato consapevolmente ingordo, comunque va avanti e non ha
pietà di nessuno.
U.S. le iniziali di
Uchiha Sasuke: scelte perché simboleggiavano, appunto, la
parola Us. Noi. Il traguardo finale forse, lo stare assieme, ma anche
tutto ciò che Sasuke e Naruto sono stati.
Grazie per avermi
seguito fin a qui, nonostante io imbastisca sempre racconti un po'
'particolari'.
L'idea dell'incontro virtuale tra Sasuke e Naruto mi è stata
data dal mio ragazzo, al quale racconto sempre tutte le mie trame XD La
descrizione 'onirica' del rapporto digitale tra i due protagonisti
è frutto di... boh, giuro che non avevo fumato nulla.
Però mi piace l'idea dei buchi neri nel petto.
Sarei
davvero, davvero, felicissima se aveste voglia di farmi sapere cosa vi
ha trasmesso tutto questo racconto (anche tramite messaggi minatori,
piccioni viaggiatori, macumbe varie XD).
Vi lascio, questa
volta, con la canzone dei Pink Floyd che per me rappresenta davvero
splendidamente il concetto di tempo. Time (oh, guarda caso lol). Le
righe estrapolate sono, a grandi linee, quello che dice Sasuke a
Naruto, quando spiega l'idea del tempo che passa troppo in fretta, al
punto da sfuggirgli e lasciargli un senso d'incompletezza in tutto
ciò che fa (traduzione non letterale):
Every
year is getting shorter, never seem to find the time
Plans
that either come to naught or half a page of scribbled lines
Ogni
anno risulta sempre più breve, non sembro mai trovare il
tempo
progetti inconcludenti
o nient'altro che una mezza pagina di righe scarabocchiate
Alla
prossima, la 'vostra amichevole Zucca di quartiere'.
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