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Autore: Happy_Pumpkin    17/12/2017    9 recensioni
“Naruto… attivati.”
Ci fu più luce, in quel momento. Fuori era buio e continuava a piovere, mentre i neon della Cittadella rilucevano per le strade.
Poi, ci fu Naruto. E Sasuke seppe dare una risposta ai suoi perché.
Quella sera dei primi del 181, Naruto prese più a fondo coscienza di sé, della sua identità, e per la prima volta vide il suo Creatore.
[AU mini-long in un universo fantascientifico, omaggi ad Asimov e a Blade Runner, ma anche alla cultura della fantascienza in generale (Mass Effect, Star Trek, Star Wars) | SasuNaruSasu ]
Questa fanfiction partecipa alla challenge Lettere a Babbo Natale, indetta dal gruppo Facebook SASUNARU FanFiction Italia, ed è una gift-fiction per Blair Behemoth
Genere: Introspettivo, Malinconico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha, Suigetsu | Coppie: Naruto/Sasuke
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Vite Sintetiche'
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Us


III
Time





L’indomani sarebbero partiti per una nuova missione nello spazio: altre settimane a fluttuare con Viger tra le stelle. Sasuke aveva già preparato tutto. Dalla volta in cui l’I.A. aveva visto l’immagine di Sakura erano passati diversi giorni e non ne avevano più parlato; semplicemente, perché non c’era altro da dire: l’uomo aveva riversato talmente tanto di se stesso da far credere a Naruto che, forse, non avrebbe più potuto ascoltare nulla di così violentemente profondo e doloroso da parte sua.

Quel pomeriggio precedente la partenza, Sasuke appoggiò sul tavolo un oggetto tondeggiante e piatto, con incise sopra delle iniziali che istintivamente Naruto riconobbe appartenere al suo proprietario: Uchiha Sasuke.


Questi spiegò, con il solito fare pragmatico e dalle sopracciglia leggermente aggrottate:


“Ora che sei entrato nel sistema di casa potrai trasferirti direttamente dall’appartamento a Viger; con il tempo e un po’ di elaborazione dati, in potenza sarai in grado di spostarti su numerosi server diversi. Ma il tuo corpo olografico e, in futuro, quello fisico rimarrà sempre qui. Per questo, una parte della tua memoria e dei tuoi dati, anche quelli iniziali dei nostri dialoghi, a loro volta resteranno tra queste mura: qualsiasi cosa succeda, non ti perderai mai.”


Ovunque sarò, potrò sempre tornare a casa.


Naruto annuì, per poi domandare con la solita insaziabile curiosità ed energia che lo animavano: “Scommetto che non hai caricato i miei dati sul tuo sistema informatico domestico. Dove...”


Sasuke sollevò l’oggetto dal tavolo e lo portò davanti all’I.A.:


“Qui dentro. All’apparenza è un fermacarte, un oggetto innocuo. Ma all’interno contiene un’apertura a incasso nella quale ho nascosto l’estensione di memoria.”


Naruto annuì nuovamente, facendo un fischio ammirato:


“Sei un genio, Sasuke. E, credimi, detto da me vale tantissimo.”


“Tsk, ricordati chi ti ha creato, stupido. Ovvio che sono un genio.”


Finirono per sorridere entrambi. Sasuke appoggiò il fermacarte su una delle mensole, di fianco all’orologio non funzionante incapace di scandire il tempo.


*

Il giorno della partenza, Naruto osservò Sasuke compiere una serie di gesti che sembrava eseguire per un’abitudine radicata da tempo, come impostare i comandi per l’acqua, la luce, il riscaldamento e tutto ciò che comportava bloccare una casa, renderla pronta a essere vissuta, ancora, ma in futuro. La polvere... quella sarebbe tornata, giorno dopo giorno. Era inevitabile.


Poi, fece una cosa insolita: mise un paio di occhiali da vista.


Montatura sottile ma nera, come neri erano i suoi capelli e i suoi occhi; fissò Naruto, sollevando appena un labbro in una leggera smorfia per commentare, notando l’aria sorpresa:


“Dov’eri mentre lavoravo? Impegnato a usare il sifone del water?”


“Oh, Sasuke, non è che posso starti sempre appresso a guardarti!” sbottò l’altro, gonfiando le guance con disappunto.


“Ah, no?” replicò, trasformando la smorfia in un mezzo sorriso.


Dopo un istante sospirò, mentre il bagaglio compatto da portare nello spazio giaceva vicino alla porta e le luci si abbassavano per far regnare la penombra nella stanza, visto che l’equipaggiamento tecnico e i viveri erano già stati portati allo spazioporto.


Allora, Sasuke spiegò fingendosi paziente: “Riutilizzerò la stessa estensione di memoria dell’andata per portarti con me. Solo che, al contrario, è impossibile passare i controlli in uscita dallo spazioporto e allo stesso modo il passaggio di informatici da casa mia a Viger verrà monitorato.

E’ la prassi dettata dalla Legge Interplanetaria per la Robotica; una cosa stupida, frutto di disposizioni arretrate mai cambiate dal primo Salto Interstellare: infatti, se invece tu decidessi di infilarti nel sistema di un’altra navicella non avresti problemi, a meno che essa sia schermata informaticamente. Salvo controlli sporadici e casuali, gli addetti alla sicurezza si limitano alle procedure base di scambio informazioni dai punti d’accesso informatici standard del viaggiatore, come la casa, alla sua navicella.”

“Dopodiché? Cosa intendi fare con me dentro una scatoletta metallica, visto che allo spazioporto non ci posso nemmeno andare?”


Lo scrutò, curioso anche se detestava ammettere di non star seguendo del tutto la pianificazione di un umano che avrebbe dovuto essere logico, persino prevedibile; invece Sasuke, come l’I.A. aveva potuto constatare, non era né l’una, né l’altra cosa. Anzi, spesso finiva per ragionare fuori da ogni schema, nonostante il carattere asociale che sembrava tipico di chi preferiva attenersi a percorsi prestabiliti per evitare eccessive interazioni.


“Dopodiché – ripeté, seccato – vedi di startene zitto. Perché, Naruto, davvero non conosci gli umani e forse è tempo che impari a farlo. Sono, infatti, pieni di risorse: quando qualcosa è vietato, o proibito, trovano sempre il modo per arginare la problematica.”


“Quindi anche tu stai...arginando la problematica?” domandò, con un certo divertimento.


“Oh, meglio. Io elimino del tutto la problematica – si guardarono un istante, infine l’ingegnere aggiunse – ora è tempo che tu ti disattivi, Naruto.”


Questi sentì qualcosa che avrebbe potuto catalogare come tensione, mista a una sorta di eccitazione per tutto ciò che era nuovo e inesplorato.


“Ci rivedremo su Viger, Sasuke?” domandò poi, serio e neanche troppo velatamente impaziente di comprendere.


Dopo un istante l’uomo rispose:


“Prima. Ci rivedremo prima. E poi... altrove.”


Quella volta Naruto non comprese. In seguito se ne pentì, di non aver avuto allora tra le mani l’ingegno umano, perché grazie a esso avrebbe intuito a quali e quante cose Sasuke in quelle settimane aveva pensato. E a quante altrettante problematiche si era interfacciato, per eliminarle, a modo suo.


*

Quando Naruto si sentì riattivare, credette che si sarebbe trovato nuovamente su Viger, perdendo quindi consapevolezza, ancora, di cosa volesse dire vedere ciò che lo circondava, nonché la percezione di muoversi in uno spazio tridimensionale.


Invece... per una serie d’interminabili secondi l’unica cosa che tentò di fare, fu cercare di trovare un equilibrio. Perché non era nello spazio, su Viger, nemmeno in casa, tra le mura e le porte di un appartamento svuotato. Si trovava al contrario nel mondo, sulla Terra, tra le strade ricche di gente proveniente da ogni angolo dell’Universo: bellissime Asari dalla potente energia psichica, pericolosi Klingon che non dovevano incrociare la strada con i robusti e poco pazienti Krogan dalla corporatura massiccia, umani mercanti che ritornavano a casa dopo essere andati ai confini di tante galassie, acquistando intere casse di latte blu di Tatooine per poi vendere i frutti più prelibati, coltivati nelle poche terre ancora libere dall’acciaio della Cittadella.


Udì tanti rumori, di chiacchiere, di richieste, di promesse e urla, il traffico aereo delle navicelle in partenza vicino allo spazioporto, accompagnati dai riflessi dell’acciaio che ricopriva gli edifici e l’acqua delle pozzanghere incassate nelle strade, calpestate da ogni specie vivente.


La gente. Radunata per parlare di politica, di affari, per vivere e, un giorno, morire, sperando di aver lasciato nel cuore di qualcuno quelle parole.

Nel mezzo, c’era Sasuke che andava avanti. E Naruto, il quale vide attraverso la microcamera inserita negli occhiali del suo creatore il mondo un tempo raccontato tramite altrettante parole e immagini olografiche, trasparenti come lo era lui.
L’I.A. si sentì, in quei minuti, circondata da così tanti colori e suoni da rimanerne sopraffatto: avrebbe voluto voltarsi, più e più volte, per scorgere il dettaglio di un angolo inesplorato, la locandina olografica di una nuova proiezione, la macchina capace di guidare da sola e viaggiare lontana senza quasi toccare terra, mentre un tempo Sakura non era stata nemmeno in grado di frenare.

“C’è puzza d’asfalto bagnato dopo la pioggia, d’inquinamento, di cibo malsano dei locali, di gente che suda e di fiori, vagamente, misti ai profumi eleganti e a quelli da quattro soldi. Qualcuno, forse, all’angolo ha acceso un fuoco per scaldare il vino rosso da amalgamare con le spezie; qualcun altro ha portato con sé l’odore di casa, di ammorbidente chimico, che non si leva di dosso nemmeno negli uffici più affollati – Sasuke continuò a camminare mentre parlava a mezza voce, descrivendo l’unica cosa che Naruto non poteva recepire, assieme al tatto, l’odore – a breve sparirà il collegamento. Gli occhiali sono collegati al mio sistema informatico domestico e alla tua memoria digitale di backup lasciata nell’appartamento. Questa è la Terra: inquinata, sporca, piena di gente.”


“Volevi disilludermi?” Ironizzò l’altro, attraverso l’auricolare nella stanghetta degli occhiali.


“No – ribatté, schivando alcuni mercanti Ferengi che cercavano di contrattare sui prezzi delle stoffe – volevo portarti con me.


Poi, il collegamento fu più lontano e, come un filo tirato, consumato dal tempo e dalle distanze, Naruto si spense, lasciando quei luoghi caotici, quella vita, nonostante la malattia e la debolezza insita in ogni essere vivente; il controsenso della morte, per chiunque nascesse.


*

Il Purgatory continuava a essere un locale all’apparenza come tanti, con i suoi tavolini e gli ordini dal menu digitale, la musica elettronica e la gente che lo animava. Ma, come sempre, rivolgendosi alle persone giuste e con un po’ di soldi da spendere, si potevano scoprire modi alternativi per passare la serata; Sasuke, negli anni, aveva imparato ad apprezzare il valore delle conoscenze adatte ai suoi scopi e a sfruttare il denaro messo da parte per qualcosa di più nobile di una casa in rovina.


Scorse Suigetsu con in mano un bicchiere mezzo vuoto, un ghigno che lasciava intravedere i denti appuntiti e i capelli modificati geneticamente d’azzurro che gli sfioravano le guance. Sasuke si tolse gli occhiali e gli andò davanti, accennando un saluto, infine l’altro domandò:


“Sicuro di volerlo fare?”


“E’ l’unico modo.”


L’interlocutore lo fissò un istante ma non disse nulla. Si limitò a guardarsi brevemente attorno, poi digitò un codice su un sensore tattile di fianco alla porta, la stessa porta notata da Sasuke per anni mentre contemplava l’idea di passarci attraverso, un giorno; dopo un istante essa si aprì e, allora, oltrepassarla fu paradossalmente più facile. Quando i due uomini entrarono, l’ingegnere si trovò in un corridoio stranamente famigliare avvolto dalla penombra: la strada era parzialmente illuminata da qualche luce fluttuante, il resto era il nero più totale, come se attorno a loro ci fosse soltanto il nulla.


Poi, un’altra porta si aprì. E i due vennero avvolti da una luce morbida di un colore simile all’azzurro tenue, proveniente da dei letti disposti simmetricamente in una gigantesca sala; nel mezzo, camminavano delle infermiere dal volto felino e gli occhi attenti che fissarono i nuovi arrivati, senza però fare domande. Nel silenzio assoluto, interrotto soltanto da un debole ronzare di macchinari, le creature si muovevano senza fare rumore, come se fossero state in grado di elevarsi sul pavimento lucido e scuro, estensione del buio del corridoio.


Sasuke sapeva cosa fossero quei letti. Anni fa, era stato tentato di sdraiarsi lì e non rialzarsi più; scorse, poco distante, una delle infermiere girare il corpo di un uomo per lavarlo e impedire che si formassero delle piaghe da decubito.

In fondo era semplice: bastava coricarsi e qualcuno avrebbe pensato a inserire tutti i collegamenti per entrare in una realtà virtuale perfetta, creando una riproduzione fedele di se stessi o, nella finzione, ciò che si sarebbe sempre voluti essere. Ciascuno aveva il proprio angolo personale, il mondo in cui divenire padrone e realizzare ciò che in vita, a conti fatti, era invece irrealizzabile.

Qualcuno passava delle ore, altri delle giornate; qualcun altro ancora concludeva lì la sua esistenza, collegando il proprio conto bancario con le macchine per permettersi di sopravvivere fino alla fine, in un posto dove sarebbero stati felici, giovani, capaci di arrivare dove il corpo non consentiva più di giungere.


Ovviamente, era un sistema illegale. La Legge Interplanetaria prevedeva severe regolamentazioni sul monte massimo orario, proprio per evitare dipendenza o che qualcuno finisse, come in realtà accadeva, per rimanere in quel letto e non svegliarsi più.

Posti come quello, formalmente, non esistevano. Ogni tanto si trovavano però funzionari compiacenti e, parallelamente, venivano creati sistemi informatici altamente protetti, a prova dei controlli governativi.
Vista l’elevata sicurezza di tali apparecchi, non tutti necessariamente li usavano per creare sogni reali; qualcuno infatti li sfruttava, sempre pagando, per esportare digitalmente materiali compromettenti che altrimenti non avrebbero mai potuto viaggiare nella rete e oltre, fin nello spazio, senza rischiare di attirare attenzioni non gradite.

Tra questi qualcuno, vi era Sasuke.


Tese a Suigetsu il supporto mnemonico in cui aveva caricato Naruto poi, dopo un istante, aggiunse:


“Avrei un altro favore da chiederti.”


Suigetsu prese l’oggetto, infine gli disse: “Spara. Tu che chiedi favori è un evento storico.”


Allora, Sasuke gli parlò, breve e coinciso com’era sua abitudine. Suigetsu lo ascoltò, ponderando ogni parola, fino a che dopo un istante rispose: “Si può fare ma... è un rischio, non è come gli altri casi: qui stai facendo un trasferimento dati di una mole massiccia in contemporanea. Ti possono scoprire – Sasuke lo fissava, senza cambiare espressione seria, dunque l’altro sospirò e borbottò – va bene, posso garantire mezz’ora massimo per ogni trasferimento che farai su Viger, poi dovrai staccare.”


Mezz’ora. Ridicolo, rispetto alle ore di una vita intera, ma meglio di nulla.


L’ingegnere annuì. Allora, Suigetsu gli mostrò un letto vuoto. E, per la prima volta, Sasuke ci si sdraiò sopra, domandandosi se dopo avrebbe avuto ancora voglia di alzarsi.


E se fosse il mio corpo, a incontrare il tuo?


*

Naruto non era mai stato certo di comprendere fino in fondo cosa comportassero i sentimenti, almeno fino a quella volta. In cui si ritrovò a prendere coscienza di sé in uno spazio non fisico, esattamente come quando aveva avuto vita, parlando per la prima volta, ma allo stesso tempo senza il buio dei circuiti di una navicella spaziale.


Era infatti in un prato, e c’era vento. Poco distante, una casa, semplice, con un porticato, due sedie e il resto della pianura che si estendeva sconfinata. Abbassò lo sguardo, contemplando le sue stesse mani, sentendo la bellezza di quel vento tra i capelli; li sfiorò e li strinse, realizzando di essere davvero lì e lui poteva toccarli, poteva toccarsi, sentirsi. Appoggiò l’altro palmo sul petto e credette di sentire un cuore battere, al di sotto.


“E’ un bel posto.”


Si voltò. Vide Sasuke. Proprio lui, con i suoi ciuffi lisci lasciati crescere fino a coprire le orecchie, gli occhi dello stesso colore che ora lo fissavano, mentre la bocca era piegata in un abbozzo di sorriso. Le mani erano nascoste nelle tasche dei pantaloni, invece i piedi erano scalzi.


“Dove siamo?” chiese Naruto, con quel bisogno di sapere e capire. Allo stesso tempo mosse un passo avanti, avvertendo la terra sotto di sé, l’erba umida, il freddo del primo mattino; credette, a quel punto, di cadere, di non saper nemmeno come si potesse camminare.


Sasuke, allora, gli rispose senza muoversi: “Stai venendo caricato su Viger attraverso un posto fuori dai radar dei controlli di sicurezza. Nel frattempo siamo in una zona di confine, in un mondo creato virtualmente per ospitare entrambi.”


Naruto sospirò. Si scoprì incapace di parlare, oltre che di camminare.


“Sembra tutto così... vero. Io sono questo, alla fin fine? Io sono reale nell’irrealtà? Mi sento confuso: il mio giudizio, le mie conoscenze, i dati che hai caricato nel mio sistema sono caotici. E ora tutte le stelle di questo universo sembrano non contare, all’idea di poter sentire così tanto.”


Rise.


Sasuke iniziò a camminare, sempre con le mani in tasca, i capelli mossi dal leggero vento. Andò di fronte a Naruto che allungò, dopo un istante, un braccio. Sfiorò la guancia del suo creatore; prima, con un cenno leggero, infine impresse i polpastrelli e li lasciò lì, avvertendo la pelle fredda graffiata dal vento e il respiro caldo dell’uomo.


Questi aprì appena le labbra sottili per poi dire, mentre in realtà le mani erano artigliate alle cosce, all’interno dei pantaloni:


“Passerà tempo, prima che tu possa avere un corpo, forse anni. Altrettanti mesi passeranno di volta in volta su di una navicella nel mezzo del nulla, senza più tutta questa noiosa Terra, la gente, la mia casa, dove potrai vedere i film per esplorare il resto nel mondo – prese un respiro, perché parlare era diventato più difficile e lui non era abituato – qui... non hai bisogno di un corpo fisico per sentire quello che vuoi. E’ il mio compromesso; dopodiché, ci separeremo, per ritrovarci tra le stelle.”


Quella volta, Naruto spostò ancora le dita, fino a toccare la guancia asciutta dell’altro con il palmo e percepirla così pienamente da credere di poter avvertire le vene pulsare sul collo, respirando sangue e vita.


Avrebbe voluto chiedergli, in un momento di folle disperazione, se Sasuke avesse mai pensato, in tutti quegli anni, di fare la stessa cosa con Sakura, per rivederla nella sua testa e stare con lei.


“Certo, che ci ho pensato – gli disse l’altro all’improvviso, senza muoversi, e Naruto lo guardò, silenzioso – di vederla. Di vedere tutte le persone che ho perso e che non ritroverò più.

Ma non l’ho fatto, perché poi la solitudine mi sarebbe stata insopportabile, proprio dopo aver sempre creduto di essere superiore a cose come la nostalgia. L’ho vista roteare con la sua gonna, tante, tante di quelle volte da essere sempre stato sul punto di venire fino a qui e lasciarmi andare, in questo loculo, per vivere la mia vita con lei. Sarei morto in un letto, con i muscoli atrofizzati, le piaghe e senza più vedere la luce del sole; egoisticamente, ho pensato di valere più di così, anziché consumarmi in un amore vuoto fondato solo sul ricordo.”

Dopo un istante fissò il cielo. Azzurro e senza nuvole, spazzate via dall’aria che accarezzava le foglie, l’erba, i capelli e trascinava con sé le parole, assieme ai respiri.


“Esistono le seconde possibilità, dopo essere stati così soli da non sapere più nemmeno cosa voglia dire fare l’amore e vivere, aspettando l’altra persona a casa, in un tavolo apparecchiato per due?”


“E’ per le seconde possibilità che sei vivo, Sasuke. Altrimenti avresti scelto quel letto, lasciandoti morire. E io... non esisterei.”


Tacquero. Dopo un istante, l’uomo semplicemente annuì, assottigliando le labbra perché non riusciva più a dire altro, a parlare, a esprimere i pensieri generati da anni di solitudine.


Naruto, allora, gli toccò il braccio e gli prese la mano. Sasuke lo guardò, guardò le sue stesse dita, senza i calli e le imperfezioni degli anni, avvertendo la presa di Naruto, il calore, il modo in cui le falangi si intersecavano perfettamente, in una maniera splendidamente matematica.


Finì per mordersele, quelle labbra. E sentirsi morire, per tutte le volte in cui non aveva più percepito un altro essere vivente amarlo così tanto, seppure in un mondo irreale.


Ancora. Ancora, ancora. Mezz’ora non basta: come si può quantificare il tempo, a questo punto? Quanti anni dovranno passare, prima che possiamo tenerci per mano e camminare, mentre la gente prosegue con la sua vita, tra gli odori e i rumori della strada, il vento che trasporta le nuvole, la pioggia e libera il sole, sulle nostre teste.


Finisco per stringerti e pensare che le mie mani possano racchiudere le tue scapole, simili a tavole su cui incidere il mio nome nato da un abbraccio tenace, capace di non farti più andar via. Poi, ancora, la terra digitale attorno a noi si trasforma, il paesaggio cambia e dipinge i luoghi della nostra vita, la casa, lo spazio e le stelle, una piazza, il divano, le bancarelle piene di cibo. Tutto si trasforma, scorre, cambia, noi non ci lasciamo.


Non so se ti ho mai amato così tanto come allora. Nel vederti senza vestiti, nel toccare le curve, gli angoli e le geometrie del tuo corpo, la pelle brunita che sembra aver già sperimentato la luce del sole, mentre gli occhi chiari, fatti d’acqua e vita, onde di appassionato bisogno di conoscere, sanno già cosa guardare e le mani cosa cercare.

Siamo su di un letto, con sopra un tetto di stelle, mentre le galassie s’incrociano sopra di noi, assieme ai pianeti, alle congiunzioni astrali e ai buchi neri che abbiamo nel petto. Sì, un buco nero, un orizzonte degli eventi che sento sul mio sterno all’idea di perdere, ancora, di non vincere più una vita con te, tornando a sentire così tanto.

Ma tu riesci ad amarmi al punto da fare implodere quell’oscurità, una supernova fatta di vita e desiderio, capace di divorare le stelle e farle brillare come comete, brucianti dei loro gas e della loro polvere millenaria, squarciando la notte che io vedo sopra di noi quando tu mi avvolgi e mi stringi, come se fossi cielo e io terra, nel giorno e nell’oscurità. Per sempre.


Mezz’ora ed è già fuggita, mentre la mia vita non è mai stata così lunga.


*

Anno 186 S.I. (dal primo Salto Interstellare)


Naruto e Sasuke passarono interi mesi nello spazio; poi, sulla Terra, ancora, a volte ritrovandosi nel loro mondo esclusivo. In ogni occasione per tempi sempre più lunghi, dimenticando di nuovo le mezz’ore, come se rischiare valesse comunque la pena.

Nel mentre, il corpo di Naruto prendeva forma, lentamente, con alcuni pezzi recuperati, modificati, adattati, ma... ci sarebbe voluto ancora tanto prima di renderlo completo. L’I.A., in quei casi silenziosa, guardava Sasuke lavorare con in sottofondo David Bowie o i Pink Floyd, nella loro casa fuori dal resto del mondo.


Il tempo passava e i capelli di Sasuke crescevano progressivamente meno neri. Ogni tanto infatti, spuntava un ciuffo bianco che però spariva nel mare di quelli scuri.


Un giorno, però, le cose cambiarono.


In una nuova missione nello spazio, Naruto si risvegliò su Viger. Ormai non aveva più bisogno del comando vocale del suo creatore per attivarsi. Chiamò il nome di Sasuke, perché non poteva vederlo e gli mancava, gli mancava ogni ombra sul suo volto, ogni curva delle sue spalle, il modo elegante in cui si muovevano le mani.


Non ci fu risposta. Attese, interi minuti, mentre le navi spaziali, al di fuori, partivano verso angoli sconosciuti dell’Universo.


D’impulso, azzardò qualcosa che non aveva mai fatto prima: tornare a casa, senza più pensare ai controlli di sicurezza. Sentiva, percepiva, che doveva essere successo qualcosa; Sasuke era sempre stato presente, sempre, sempre, sempre.


Più lo ripeteva, quel sempre, più realizzava di non capirne fino in fondo il significato, non quando gli Universi scomparivano in un’esplosione o stelle millenarie bruciavano, perdendosi nello spazio.


Si ritrovò nei sistemi di casa, avvertì i nodi famigliari delle formule e dei codici, poi fece per collegarsi all’apparecchio olografico ma si bloccò, sentendo delle voci, voci che non conosceva. Qualcuno camminava a passo spedito, buttava all’aria oggetti, il tavolo forse, e svuotava le librerie.


“Continuate a cercare! Il traffico dati nello spazio era massiccio e anche se la provenienza era schermata, quel figlio di puttana viveva qui, deve esserci qualche supporto fisico in cui ha fatto il backup dell’I.A.!”


Mezz’ora. Era quello? A quello si riduceva il tempo?


Pensò al suo supporto fisico, nascosto dentro un fermacarte. L’avrebbero trovato? In quel momento non pensò al fatto che ogni traccia olografica di lui sarebbe stata distrutta, scomparendo per sempre, rendendolo incapace di vedere il mondo attorno a sé. Pensò infatti solo a Sasuke, a Sasuke che non era lì e forse sarebbe stato irrimediabilmente compromesso se quegli uomini, chiunque essi fossero, avessero trovato una prova ancora più tangibile ad aggravare i suoi capi d’accusa.


Tacque, all’interno del sistema apparentemente in stand-by, soffocando la voglia di saltar fuori e cacciare ognuno di quegli stronzi intenti a distruggere tutto ciò che era di Sasuke e, in parte, anche suo, come anni fa lo era stato di Sakura e della vita progettata assieme, incapace però di realizzarsi.


Si sentì rabbiosamente inutile, perché non aveva un corpo fisico con cui prenderli a pugni e fare del male, non poteva nemmeno inserirsi nella corrente e fulminarli, per il rischio di generare dei sospetti: doveva semplicemente attendere e sperare che non scoprissero il segreto nascosto dietro un banale fermacarte.


Dopo quelle che sembrarono ore, finalmente gli estranei se ne andarono. Naruto impulsivamente si mosse verso il dispositivo olografico ma, quando sentì la propria immagine riprodursi e i sensori attivarsi, realizzò che lo strumento era stato in parte rovinato dagli urti e dai tentativi infruttuosi degli uomini di utilizzarlo, infruttuosi perché senza un’I.A. caricata il dispositivo era totalmente inutile. Per questo l’avevano danneggiato, come per sfogare la loro intrinseca stupidità.


Nonostante percepisse la sua stessa immagine saltare, Naruto riuscì ugualmente a guardarsi attorno e a contemplare, suo malgrado, la devastazione dovuta a quell’invasione brutale: il divano era stato squarciato, gli oggetti della libreria gettati a terra, rotti, calpestati, l’orologio fermo da anni spaccato, la tovaglia appallottolata e i piatti rotti.


Sì sentì furente, per la sua impotenza, ma anche dispiaciuto per tutto quello che la casa aveva subito. Soprattutto, però, era preoccupato, per Sasuke e per ciò che poteva essergli accaduto. Nelle ore seguenti, tentò di mettersi in contatto con lui, ma Viger non rispondeva ai segnali e, allo stesso tempo, Naruto era consapevole che il traffico dati in quella casa era monitorato, dunque dovette aspettare. Ore e ore, consumato dall’attesa.


Riscaldò la casa, l’acqua, sistemò le luci, per trovarsi qualcosa da fare, come se da un momento all’altro Sasuke sarebbe ricomparso; allora, Naruto avrebbe attivato una canzone dalla playing list, per ascoltarla assieme mentre apparecchiavano.


Poi, a un certo punto, sentì la porta aprirsi. Un intuito dato dal sospetto gli comunicò che con ogni probabilità non doveva trattarsi di uno degli estranei, perché non avrebbe avuto quella cautela; ma nemmeno... poteva essere Sasuke: non c’era urgenza, né trasporto in quel gesto, lo stesso di un amante che voglia abbracciare un altro corpo, desiderato e ritrovato, in un bisogno di sentirsi.


Suigetsu vide davanti a sé l’immagine olografica di un uomo dai capelli biondi e gli occhi chiari, anche se ogni tanto saltava con interferenze e un gracchiare remoto simile allo statico di una vecchissima radio. I due, umano e I.A., si guardarono per qualche istante senza dire nulla, infine il ragazzo dagli accesi capelli azzurri domandò, con una certa fretta:


“Sei tu Naruto, vero?”


“Sì – c’era orgoglio, in quella risposta – dov’è Sasuke? Dov’è? Io...”


Ma l’altro lo interruppe: “Non c’è tempo. Ti porterò via nella scheda di memoria estesa, se riesco assieme al tuo backup. Dove l’ha messo...”


Si spostò però Naruto allungò un braccio improvvisamente, passandogli attraverso in una scia di luci:


“Non tocchi un bel nulla. Dimmi dov’è? Lui dov’è?


Suigetsu si bloccò.


“Il messaggio... quello che mi ha detto che ti avrebbe inviato. Non l’hai letto?”


Naruto lasciò cadere il braccio, ammettendo con una rabbia soffocata: “Ha disattivato la ricezione e invio messaggi. Non l’ha mai più riattivata e io...”


All’epoca non aveva avuto il permesso, poi, non ne avevano più parlato.


“Cazzo – sbottò Suigetsu, scuotendo la testa – ecco un altro motivo per cui aveva bisogno che andassi. Senti, lo attivo io manualmente; ascolta il messaggio, poi... ti caricherò e ti porterò fuori di qui. E’ pericoloso, rischi di venire cancellato. Quel coglione.”

Sbottò, trattenendo il respiro, mentre sbloccava i codici del sistema, in modo da bypassare sia Naruto che eventuali altri impedimenti di sicurezza. Un modo più rapido e meno rischioso.
Poi si alzò in piedi e gli disse, puntando un dito contro il petto olografico:

“Non essere anche tu ingordo di tempo. Ascolta il messaggio, poi ce ne andiamo. Sono fuori dalla porta.”


Naruto fece una smorfia, ma annuì, per poi guardare i messaggi. Osservò un istante quello vecchio di Sakura, notificato nello schermo olografico, infine notò l’ultimo, appartenente a Sasuke. Sentì un insieme di emozioni che fece fatica, allora, a classificare.


Avviò la riproduzione e sussultò quando vide comparire dal proiettore olografico l’immagine di Sasuke. Per diversi secondi, in attesa che il suono si caricasse, la sua figura dai capelli neri e gli occhi scuri rimase immobile, con qualche interferenza di tanto in tanto. Naruto avvicinò un braccio e per un attimo entrambi i loro confini sparirono, divenendo frammenti di luce.


Infine, Sasuke parlò e Naruto, in quella casa dagli oggetti rotti, il divano squarciato e i libri calpestati, lo ascoltò.


Prima o poi era destino. Sapevo di rischiare e che avrei attirato attenzioni non desiderate del governo. Ma... passano i mesi e più passano, più mi sembrano corti; il tempo mi sfugge dalle mani e tutti i miei progetti, ogni giorno, li vedo risolversi nel nulla o in qualche linea scritta a metà. Ho preparato questo messaggio da farti avere, Suigetsu ti porterà con sé, sarai al sicuro.


Io... ritornerò a casa. Tra mesi, forse anni. Ma ritornerò.


Mi piace l’idea di rientrare a casa, stanco e infreddolito, per scaldarmi e sentirti parlare, visto che io l’ho sempre fatto troppo poco.


*

Quel giorno, quando Sasuke si sollevò a sedere dal letto, Suigetsu lo afferrò per il collo della maglia ringhiandogli addosso con rabbia:


“Un’ora e mezza questa volta! Dannazione! Ti sei bevuto il cervello?”


L’altro gli scostò la mano, seccato ma consapevole delle sacrosante ragioni per cui il suo ex-collega doveva arrabbiarsi: “Non possono risalire a te: rintracciano i dati, non la provenienza. Fino ad adesso è andata.”


“Da quando ragioni così? Sei sempre stato ben più responsabile di me, cosa...”


Non finì di parlare, schioccando la lingua con frustrazione mentre lasciava la presa e Sasuke si alzava in piedi.


“Non è gusto del rischio. Semplicemente... ogni tanto mi dimentico di quanto tempo passi e desidero, ogni volta, strapparne un altro po’ – lo fissò, infine improvvisamente aggiunse – ho comunque preparato tutto, nel caso in cui il governo sospetti il passaggio tra sistemi di un’I.A. troppo elaborata e senza blocchi.”


Suigetsu fece una smorfia: “No, non dirmelo. Non dirmi che c’entro anche io qualcosa perché, davvero, sei mio amico e tutto il resto ma non mi paghi abbastanza, bello.”


L’ex-collega lo fissò un istante, senza mutare espressione: “Porta Naruto qui da te. Non lasciare che lo cancellino, solo questo. Gli recapiterò un messaggio che giungerà casomai non dovessi più rientrare a casa.”


“Ne vale davvero la pena? Fare tutto questo, intendo.”


“Rischiare la deportazione per aver guadagnato qualche minuto in più con un’altra persona? Non lo so, non ci ho mai davvero pensato, ma... sono felice. Quindi, sì, credo proprio ne valga la pena.”


*

Quando Naruto venne caricato nel sistema del Purgatory, avvertì in un istante l’eco di tante vite e desideri intersecarsi con lui, senza però sfiorarlo davvero. Poi, sentì la voce di Suigetsu che gli spiegò, mentre l’uomo era seduto su un letto vuoto, disinfettato dopo che un cliente si era lasciato morire vivendo gli ultimi anni nel mondo costruito per lui.


“Non hanno trovato prove tali per cui Sasuke debba ricevere l’ergastolo o, peggio, una condanna a morte. Ma è stato provato che trafficava con le I.A. Non sono ancora risaliti a questo posto, però è solo questione di tempo: inutile dirti che dovrai restare a basso profilo.”


“Dove l’hanno portato.” Disse semplicemente l’Intelligenza Artificiale.


La voce risuonò tramite auricolare impiantato nelle orecchie di Suigetsu, il quale fece una smorfia in parte irritata, in parte rassegnata: “In questi casi c’è la deportazione. Su navi coloniali nei lavori forzati, o come combattente – si umettò le labbra, aggiungendo – ma non è un per sempre. Di solito ritornano.”


Se sopravvivono ai ritmi massacranti o non rimangono uccisi in guerra. Tacque. Non seppe perché si stesse dando tanto da fare per confortare un’I.A. Eppure si rispose da solo, quando sentì il trasporto e l’affetto con cui Naruto reagì in seguito.


“No. Non va bene, non va affatto bene! Io devo trovarlo!”


“Trovarlo? Ti devono essere partiti tutti i circuiti!”


Davvero quella cosa con cui stava interagendo tramite sistema era un’I.A.? Come poteva sembrare così dannatamente umana?


Sasuke. Fino a che punto hai lasciato che evolvesse? Ha un nome, un’identità e... dei sentimenti. Dei sentimenti, merda santissima.


“Sì, trovarlo – ripeté, energico, per poi aggiungere – aiutami ad andare su Viger! Devo...”


Ma Suigetsu lo interruppe, sbraitando mentre scattava in piedi e le infermiere lo guardarono preoccupate: “Scordatelo! Viger è sottoposta a controllo, non posso spedirti fino a lì.”


“Allora un’altra nave – insistette, testardo e ostinato – trovami un’altra nave e... io viaggerò in qualche modo, di sistema in sistema, finché non troverò Sasuke!”


Suigetsu scosse la testa: “Tu sei pazzo! Fulminato! Poi Sasuke mi ha detto di tenerti al sicuro, di non permettere che ti cancellassero...”


Sigillò la bocca, dandosi dell’idiota. Avvertì un leggero tremolio nella voce quando l’altro gli domandò:


“Davvero?”


“Forse. Una roba simile.”


“Allora... ti chiedo lasciami andare e dimenticarti quello che ti ha detto. Perché non è qui che devo essere: mi sta bene rischiare, penso proprio che ne valga la pena.”


Suigetsu scosse la testa, ridendo per l’ironia di quelle parole già sentite – una risata un po’ triste, la sua.


“Pazzi. Siete due pazzi fottuti – batté una pacca sul computer inscatolato dietro lamiere metalliche – beh, allora... fa che ne valga davvero la pena, Naruto.”


*

Anno 196 S.I. (dal primo Salto Interstellare)


Naruto, l’I.A. AL-76, viaggiò per l’Universo. Di nave in nave, di sistema in sistema, esplorò intere galassie, intromettendosi tra i circuiti delle navi, le torri controllo negli spazioporti dei pianeti e fu testimone di altrettante cose: guerre tra clan Krogan, trattati di pace, esseri viventi nascere in mezzo alle macerie e in climi inospitali, sentì creature parlare d’amore e altre ancora di vita, conobbe nuove leggi e promesse non dette, ascoltò canzoni dimenticate di popoli lontani migliaia di anni luce; ancora, vide membri di equipaggi morire, flotte sparire, altrettante scontrarsi ed esplorare confini pieni di luce nei quali le stelle brillavano come centinaia di soli.

E in ognuno di questi luoghi, cercò Sasuke. In ogni nave, pianeta o galassia, sperando di riconoscere la sua voce, sentire una canzone sussurrata di quando la Terra ancora non era ricoperta di metallo, mentre un orologio invisibile ticchettava, come battiti di un cuore che correva troppo veloce e troppo a lungo.


Ogni tanto rientrava a Casa, ma non vide mai Sasuke rincasare e chiedergli di attivarsi, anche se lui era già Vivo, tra quelle pareti.

Per questo finiva per starci poco, giusto qualche minuto; il tempo di rivedere Sasuke che gli parlava in un ologramma, dicendogli che sarebbe rientrato, mentre sussurrava in uno sguardo accigliato che ne valeva la pena. Essere stati ingordi, delle ore passate assieme.
Poi, accanto, c’era Sakura che l’aveva lasciato tanti anni più addietro ancora e roteava, con un vestito di fiori.

Il vuoto. Divorava, il vuoto. E più Naruto andava lontano, più il vuoto cresceva.


Finché, un giorno del 195, sentì la porta aprirsi. Cigolava, perché nessuno si era più curato di aprirla. I mobili erano ancora devastati, gli oggetti rotti, il sistema andava a rilento, come una macchina piena di ruggine; ogni cosa era rimasta esattamente come quando Sasuke era stato portato via, anche se i muri si stavano scrostando, le luci non funzionavano e la polvere aleggiava quasi viva nell’aria chiusa, assieme ai calcinacci di una casa mangiata dal tempo.


Dieci anni. Dieci lunghi anni. Naruto aveva visto e imparato così tanto ma non aveva più parlato, da allora, perché non c’era stato nessuno con cui dialogare, al di fuori di Sasuke.


Si voltò, mentre la propria immagine olografica si spegneva sempre più spesso e lo rendeva consapevole che la voce avrebbe gracchiato, ne era sicuro.


Allora, lo vide. Sasuke.


I capelli lunghi fin sotto le spalle, ingrigiti. Il corpo smagrito, il volto con occhiaie e delle rughe, perché era invecchiato, in quei dieci anni. Come le pareti e la casa, anche Sasuke era stato mangiato, da quel tempo.


E aveva a sua volta visto così tanto da bastargli per una vita intera. Aveva visto compagni morire, pianeti razziati, distruzione e paura, paura di morire a sua volta, lì, in una terra dimenticata, senza poter più scorgere le sue stelle e parlare, ancora, con
Naruto, a cui aveva promesso di creare un corpo e farlo camminare davvero, in mezzo al resto della gente.


Sasuke lo realizzò. La casa, gli oggetti, tutto, in fondo era cambiato. Ma Naruto... era lo stesso di dieci anni fa, i capelli e gli occhi e le mani, le dita, capaci perfettamente d’intersecarsi con le proprie.


Lui... chi era lui, invece? Aveva perso dei denti, i capelli erano quelli di un vecchio e delle unghie gli erano saltate mentre cercava di scavare nella terra e nelle fosse dove sarebbe morto, se non avesse lottato così tanto per vivere. E per tornare.


Perché ne vale la pena.


Se lo era ripetuto, ogni singolo giorno.


Le gambe gli cedettero. Crollò sulle ginocchia e Naruto gli fu davanti, gridando, perché non poteva sorreggerlo, perché in tutti i suoi viaggi non era stato lui a trovarlo e a riportarlo indietro con sé, prima, prima, prima.


“Sono a casa – la voce era roca, a tratti bassa – ho freddo e sono stanco. Così tanto stanco che potrei morire, di stanchezza – poi, ricordò, ciò che gli aveva detto tanti anni fa – Il calore accogliente e le tue parole.”


“Io... non potevo nascondermi, lo capisci? – replicò Naruto, in ginocchio di fronte al suo Creatore, come sentendo il bisogno di spiegargli qualcosa, di giustificare con se stesso tutto quel tempo speso senza di lui – Ti ho cercato così tanto... così tanto.”


Ripeté, scuotendo un istante la testa.


“Allora avrai tante storie da raccontare. E io le ascolterò tutte.”


Sasuke si alzò lentamente in piedi e domandò ancora: “Dov’è?”


Dopo un istante Naruto comprese che parlava del suo backup. Si guardò attorno, perché non sapeva se fosse ancora sopravvissuto qualcosa, dopo tutti quegli anni.


Poi l’uomo, dopo aver rovistato un istante tra i cocci e i libri ingialliti, vide il fermacarte, un po’ graffiato ma ancora integro.


“Quello che sei. Ma anche le registrazioni. Delle prime interazioni che hai avuto, quando ancora eri AL-76. I ricordi, di come siamo cambiati... noi.”


Quante cose avrebbe voluto chiedergli e dirgli Naruto, quanto desiderio di abbracciare Sasuke, che era mutato a sua volta ma era comunque identico, nel cipiglio ombroso, nella serietà e nel modo accennato d’incurvare le spalle. Si accorse che a tratti l’uomo nemmeno lo guardava e, in seguito, Sasuke nemmeno avrebbe più guardato gli specchi.


Quel giorno, dopo tutto quel tempo, dopo tutta l’ostinata disperazione messa nel trovarlo, Naruto riuscì solo a fargli una domanda che, scioccamente, non aveva mai posto prima:


“Sasuke... perché proprio quel fermacarte, perché ciò che siamo doveva essere nascosto lì?”


Fece un mezzo sorriso, con affetto nostalgico.


Guardò, ancora una volta, le iniziali di Uchiha Sasuke.


Quest’ultimo lo fissò, sentendo comunque nelle orecchie il rumore della morte, perché la morte aveva un suono tutto suo, e in quel momento si scontrava con la melodia rotta dalle interferenze della voce di Naruto che pure, in quegli anni, Sasuke aveva avvertito così tanto nella sua testa, alzandosi dal fango.


Poi gli spiegò perché avesse scelto quel fermacarte e Naruto fu felice, di aver girato tutte le galassie per lui.


*

Anno 2980 S.I. (dal primo Salto Interstellare)

Gli esploratori si fecero largo tra i detriti monitorando il livello d’ossigeno, consapevoli che ormai scarseggiava e quindi l’ambiente poteva essere piuttosto vivibile per la loro specie. Inspirarono le leggere radiazioni, sentendo formicolare la pelle squamosa.

Uno di loro monitorò il picco di onde elettromagnetiche in cerca di forme intelligenti, ma fino ad allora la ricerca scientifica in quel pianeta lontano dal Multiverso si era rivelata poco fruttuosa.


Stavano per rientrare finché, all’improvviso, ci fu un picco più alto; esso cresceva esponenzialmente man mano che si avvicinavano a un quartiere di quella che un tempo sapevano essere una Città, luogo d’incontro tra razze antiche, molte delle quali estinte.


Si guardarono un istante, poi decisero di trasmettersi telepaticamente le coordinate da cui proveniva il segnale e proseguire. Avanzarono tra montagne di metallo, stralci di terra ingiallita e mangiata dalla radioattività, pannelli che un tempo erano insegne, navi e macchine che avevano solcato i cieli, fino a raggiungere le stelle.


Dopo minuti passati a fluttuare tra le colline metalliche, gli scienziati scorsero i contorni di quello che millenni fa doveva essere un rifugio, in cui le specie del pianeta erano abituate a vivere. Lì, videro qualcosa di totalmente inaspettato: dei mobili, tutto sommato curati e senza troppa polvere, con sopra degli oggetti ingialliti che i nuovi arrivati non sapevano essere libri, perché non li avevano mai visti prima di allora.

Infine, su di un letto scorsero una creatura strana: aveva dei capelli biondi sulla testa e gli occhi chiusi, la pelle liscia e chiara; al suo fianco, un mucchio di ossa distese, bianche, consumate dal tempo.

Circospetti, si avvicinarono. L’entità era immobile, sembrava però tenere in mano qualcosa, anche se la presa era inconsistente.


Dopo un cenno d’intesa, uno degli esploratori allungò la mano ungulata verso l’oggetto, afferrandolo.


Rigirandolo tra le dita, lo guardò ma non comprese.


L’altro gli si avvicinò e riconobbe dei caratteri arcaici incisi sopra, memore delle navi da museo provenienti da guerre spaziali lontane. Non riuscì del tutto a decifrarli, quindi tacque per evitare di creare confusione.


Dopo un suono gracchiante però, all’improvviso, partì un ologramma le cui immagini ogni tanto saltarono, fino a riassestarsi. Riconobbero la creatura dai capelli biondi proiettata vicina a un’altra creatura che sembrava tanto più vecchia, anche se quegli organismi provenienti da ulteriori universi non conoscevano concetti come il tempo e la vecchiaia, così come non conoscevano i libri o le canzoni.


I due protagonisti dell’ologramma erano abbracciati e stretti, mentre qualcosa di musicale riecheggiava vagamente attraverso la registrazione.


Gli alieni non capirono, non poterono capire, che era un abbraccio in una bozza di ballo: solo per loro due, perché finalmente erano stati in grado di toccarsi divenendo reali entrambi, dopo essersi cercati così a lungo. Centinaia e centinaia d’anni fa, fino ai confini dell’Universo.


Poi, all’improvviso l’esploratore ricordò la pronuncia delle lettere antiche incise sul fermacarte, le iniziali di un’identità:


Us.”


Allora la creatura seduta sul letto, con ancora gli occhi chiusi, serrò la mano attorno a quella squamosa che aveva afferrato l’oggetto con la scritta. Non si mossero.


Infine, altrettanto all’improvviso, l’essere dai capelli biondi aprì la bocca e ripeté, con una voce piena di vita:


“Noi, noi...


Noi.



Sproloqui di una zucca.

E anche questa storia è andata! Comincio con il parlare dell'immagine iniziale: è opera di un artista bravissimo, Peter Mohrbacher (qui il suo blog https://www.vandalhigh.com/angelarium-2/), e rappresenta Yesod che nella cabala è alla base dell'albero della vita (sopra solo al Regno); simboleggia il passaggio da una condizione all'altra, connettendo tutto il resto. Mi sembrava dunque adatta per rappresentare un po' la trasformazione di entrambi i protagonisti della storia.
Questa volta Naruto non è riuscito a trovare Sasuke e a riportarlo indietro, ma è stato Sasuke stesso a sopravvivere proprio per poter tornare, anche se invecchiato e consumato dalla vita. Sono riusciti, alla fine, a ballare assieme, toccandosi. Ma il tempo, di cui Sasuke è stato consapevolmente ingordo, comunque va avanti e non ha pietà di nessuno.
U.S. le iniziali di Uchiha Sasuke: scelte perché simboleggiavano, appunto, la parola Us. Noi. Il traguardo finale forse, lo stare assieme, ma anche tutto ciò che Sasuke e Naruto sono stati.
Grazie per avermi seguito fin a qui, nonostante io imbastisca sempre racconti un po' 'particolari'.
L'idea dell'incontro virtuale tra Sasuke e Naruto mi è stata data dal mio ragazzo, al quale racconto sempre tutte le mie trame XD La descrizione 'onirica' del rapporto digitale tra i due protagonisti è frutto di... boh, giuro che non avevo fumato nulla. Però mi piace l'idea dei buchi neri nel petto.
Sarei davvero, davvero, felicissima se aveste voglia di farmi sapere cosa vi ha trasmesso tutto questo racconto (anche tramite messaggi minatori, piccioni viaggiatori, macumbe varie XD).
Vi lascio, questa volta, con la canzone dei Pink Floyd che per me rappresenta davvero splendidamente il concetto di tempo. Time (oh, guarda caso lol). Le righe estrapolate sono, a grandi linee, quello che dice Sasuke a Naruto, quando spiega l'idea del tempo che passa troppo in fretta, al punto da sfuggirgli e lasciargli un senso d'incompletezza in tutto ciò che fa (traduzione non letterale):


Every year is getting shorter, never seem to find the time
Plans that either come to naught or half a page of scribbled lines

Ogni anno risulta sempre più breve, non sembro mai trovare il tempo
progetti inconcludenti o nient'altro che una mezza pagina di righe scarabocchiate


Alla prossima, la 'vostra amichevole Zucca di quartiere'.





   
 
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