Quando le sirene avevano
cominciato a
suonare, il panico non aveva impiegato molto a dilagarsi come
un'emorragia. Soprattutto nei laboratori.
Gelo non era
stato il primo a
raggiungere la postazione con l’intento di salvare il suo
lavoro.
Al suo arrivo la maggior parte degli scatoloni e dei recipienti di
fortuna erano già stati raccolti da qualcun’altro.
Fu
costretto a scegliere con attenzione cosa salvare perché
avrebbe
dovuto portare con sé la sua refurtiva senza
l’aiuto di un
contenitore.
Decidere di
lasciare lì arti
metallici perfettamente funzionali sulla quale aveva faticato da tempo
immemore gli lasciò l’amaro in bocca, ma erano
troppo
pesanti e non sarebbe mai stato in grado di trasportarli. Le sue
anziane ossa non glielo avrebbero permesso. Tutto quello che era in
grado di racimolare furono alcuni materiali leggeri e dei vecchi
taccuini.
“Papà”
lo
chiamò una voce alle sue spalle e senza esitare il Dottore
si
voltò. A pochi passi dall’ingresso del laboratorio
un
soldato in alta uniforme lo stava fissando con una punta di
preoccupazione riflessa nei glaciali occhi azzurri. “Dovresti
andartene da qui” gli disse. Il Dottor Gelo lo
squadrò per
un ultimo secondo, tornando a raccogliere vecchi appunti,
“È quello che sto facendo” lo
rassicurò,
“Ma non voglio rischiare di perdere tutti i miei
studi”
spiegò afferrando due quaderni, ponderando su quale dei due
era
più opportuno portare con sé.
Alle sue spalle
il giovane soldato
sembrò valutare la situazione.
“D’accordo,
promettimi solo che quando avrai finito tornerai subito a
casa”
supplicò. Gelo annuì “Come
vuoi” concesse
vago.
“Signore!
I suoi uomini sono
radunati all’esterno come ha ordinato. Aspettiamo sue
istruzioni” si intromise un soldato, affacciandosi alla porta
per
osservare il superiore dal basso verso l’alto, vista la
considerevole stazza di quest’ultimo. L’ufficiale
si
voltò acconsentendo con un leggero cenno del capo,
“Avvisa
che sto arrivando” ordinò. Pochi secondi
più tardi
il militare sparì.
Gelo si era nel
frattempo voltato,
osservando il figlio, “Vai” gli disse quando i loro
occhi
azzurri s’incrociarono, “Ci vediamo quando tornerai
a casa
anche tu”. L’uomo indugiò un istante
ancora,
“Fai attenzione papà” si
rassicurò
un’ultima volta prima d’incamminarsi verso la porta.
Lo scienziato lo
vide allontanarsi.
Il figlio di cui era orgoglioso, l’uomo forte e coraggioso
che
aveva cresciuto. Quel soldato alto e dalle grosse spalle robuste. Dai
brillanti occhi chiari e dai capelli di un peculiare color arancione
carota.
Tornato ai suoi
esperimenti, Gelo
decise che tra i due quaderni avrebbe portato con sé il
taccuino
la cui copertina era segnata con un grosso numero otto.
All’esterno
della base le esplosioni sembravano avvicinarsi ogni secondo che
scorreva.
Son Goku,
fu il primo pensiero
che riempì la sua mente. Chi egli fosse non lo sapeva, non
con
certezza. Non lo aveva mai incontrato, di questo non dubitava.
Qualcosa nella sua testa sembrò
suggerire che lo scopo della sua esistenza era quello di eliminarlo.
Ucciderlo.
Tutto il resto?
C’era solo il vuoto. Non
c’erano altri pensieri o ricordi e nemmeno altre sensazioni. Son Goku, tutto qui.
Il proprio nome? Il proprio aspetto? Non sapeva
nulla di tutto questo, era stato tutto cancellato. Dimenticato.
Sembrava che nel suo cervello ci fosse spazio solo
per quello, Son Goku.
Lentamente aprì le palpebre, trovandosi
faccia a faccia
con il suo riflesso riverberato su un oblò dalla forma
sferica
poco distante dal suo stesso viso. La consapevolezza che fosse il
proprio riflesso fu causato da una sensazione di familiarità.
Si accorse di avere occhi azzurri come il ghiaccio
dai
lineamenti sottili. Il suo viso era fine ed appuntito e una ciocca di
capelli biondi seguiva le sue fattezze a pochi millimetri dal bordo del
suo occhio.
Fissò la sua immagine per alcuni
istanti, come a volersi
ricordare chi fosse, chiedendo al suo riflesso di rispondere a domande
di cui aveva un disperato bisogno.
Ebbe il desiderio di scostare i capelli da davanti
al proprio
viso, ma il luogo in cui si trovava era angusto, impedendole di muovere
il braccio.
Non soffriva di claustrofobia, almeno
così sembrava, ma
non ebbe il tempo di averne la certezza. L’oblò
che fino a
pochi istanti prima la stava fissando con il suo stesso viso si
aprì accompagnato da un cigolio metallico.
Libera di muoversi si scoprì ad
osservare quello che
sembrava essere un laboratorio. L’ambiente austero e
metallico,
computer disseminati in ogni dove e strane composizione in ferro che
sembravano avere fattezze umane.
Un piccolo bip
echeggiò per un breve momento, provenendo da un punto
sconosciuto della stanza.
Ipotizzò che non fosse un luogo
familiare, perché
il suo cervello non sembrò reagire, affidandosi ad una
nostalgia
che non esisteva. Il suo viso le aveva dato l’impulso, una
strana
sensazione di familiarità che non riscontrò in
quel luogo.
Compì un passo, uscendo dallo strano contenitore nella
quale era stata reclusa fino ad un secondo prima.
Si portò la ciocca di capelli dietro
l’orecchio.
Accanto a lei sentì un secondo stridio
che
rimbombò nella stanza e nella sua testa. Si
voltò, giusto
in tempo per vedere un secondo contenitore aprire la capocchia. Su di
essa riuscì ad intravedere solo il numero diciassette.
Ne uscì un ragazzo, avevano la stessa
età a
giudicare dal suo aspetto. Indossava una maglia nera e un paio di jeans
strappati, attorno al collo un foulard arancione.
C’era qualcosa di familiare in lui,
qualcosa che il suo
cervello riconobbe immediatamente, meglio persino della propria
immagine riflessa.
Chi era questo ragazzo? Perché sembrava
conoscerlo così bene?
Lui si voltò a guardarla, i fini occhi
azzurri come il ghiaccio trovarono i suoi. Fu allora che comprese.
Aveva dimenticato tutto della sua vita, dal suo
nome alle sue
paure, ma non aveva dimenticato lui. Come avrebbe potuto scordare il
suo gemello?
Anche lui doveva aver avuto la stessa sensazione,
poiché
il suo sguardo fino a quell’istante confuso sembrò
avere
un momento di lucidità, come se fosse appena tornato a
vivere
una vita perduta.
In un pensiero telepatico entrambi capirono che,
pur avendo
perso tutto, erano comunque ancora insieme e questa era la cosa
più importante.