cap 2 sign. brighton
Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane.
- Italo Calvino
Capitolo 2
Il
grigiore della nebbia con il trascorrere inesorabile del tempo si
disperdeva nell'aria liberando l'orizzonte, coperto prima da
un'impenetrabile intreccio. Il profumo delicato e umido della nube che
abbandonava la valle permeava il terreno rendendolo soffice, il naso di
Mark gocciolava mentre con passo affannoso si dirigeva verso casa.
Negli
suoi occhi, il mare specchiato di grigio che aveva ammirato per
mezz'ora, seduto a gambe incrociate sulla spiaggia fredda con
tutt'attorno le buste della spesa che con fatica aveva portato fin
lì dopo il diverbio con Margaret.
"Tanto
vale vederlo davvero, il mare!" aveva pensato, e così, con mera
consolazione aveva stretto a se le buste accartocciate della spesa e,
prestando attenzione a non cadere, aveva imboccato il sentiero, meno
fangoso del solito, per raggiungere la via di casa.
Abbandonato
tra il suono costante delle onde e il rumore sinuoso del vento che gli
fischiava nelle orecchie, Mark si ritrovò solo con se stesso e
gli ritornarono alla mente storie vecchie un secolo che sembravano
rimbombargli in testa come a volerlo riportare indietro nel tempo, agli
anni dell'infanzia. Si ritrovò a pensare al fatto che era stato
fortunato: non era partito per la leva militare poiché Durk non
sarebbe stato in grado di sostenere la casa senza una presenza maschile
e così, aveva fatto di tutto per non farlo partire. Anche
se la guerra era terminata ormai da anni e l'arruolamento di giovani
forti e prestanti era crollato a picco, alcuni si univano ancora alla
causa: non lui, ovviamente; lui avrebbe preferito di gran lunga
tagliarsi un dito, oppure tutta la mano, pur di non imbarcarsi.
Gli
piaceva la vita che aveva scelto, amava la terra e i suoi odori
muschiati, ne ammirava la crescita delle verdure, di una terra che dava
i suoi frutti come una dolce ricompensa per l'essere stata accudita,
perciò si sentiva gratificato dopo una giornata di duro lavoro,
con le mani ricoperte da calli e vesciche e la polvere di terra e
foglie appiccicata sulla pelle madida di sudore e sui suoi capelli
secchi. Conosceva tutti i contadini e gli abitanti delle
vicinanze: lo stalliere John e il suo tanfo di letame marcio, il
lattaio Patrick con le figlie ancora in fasce, la balia Mary e la sua
nidiata di bambini dai piedi sempre scalzi e dalle unghie rotte ben in
vista, il visionario Ern che aveva passato quasi tutta la sua vita nei
campi e la moglie Iris che aveva sempre sostenuto il marito e non
avrebbe potuto vivere altrove se non in campagna, tra i suoi polli e le
sue pecore.
Ora
che ci pensava, la sua fanciullezza e quella dei suoi pochi compagni di
scorribanda non ebbe niente di straordinario eppure, Mark era certo che
fosse stata quella l'età più felice, passata tra giochi e
capriole. Da fanciullo, di tre o quattro anni, stava sempre alle
calcagna di qualcuno che gli raccontasse qualche storia, una favola
oppure un motteggio. Era abbastanza vivace ed era particolarmente
innamorato dei racconti e delle meravigliose storie che ascoltava
narrate dagli adulti.
Giù
alla chiesetta abbandonata, adiacente all'icona distrutta, la presenza
del maestro di paese, lo teneva attento e tranquillo, ma appena finiva
la lezione, i salti e i gridi risuonavano per le strade di paese quasi
vuote e lungo i sentieri, per andare a perdersi tra gli alberi
più a valle. Il maestro, buon uomo, non solo tollerava, ma
favoriva i giochi rumorosi dei bambini.
Mark
ricordava di aver giocato spesso, trastullandosi in corse ed esercizi
fisici, ma il gioco da lui più odiato e preferito da tutti gli
altri ragazzi era farsi "alla guerra" in finte battaglie. Sceglievano
nomi storici, per lo più romani, e usavano per armi sassi e
bastoni, qualche volta anche i pugni. Nelle finte battaglie, Mark, che
sceglieva sempre per ultimo, perdeva sempre. Ricordava ancora i pugni
sonori che gli davano gli altri bambini e i grossi lividi violacei
stampati sul suo corpo non ancora maturo.
Da
bambino era vestito sempre di nero, non perché i suoi abiti
fossero tinti di nero bensì, perché sempre ricoperto di
fuliggine, fango e sporcizia. Portava i capelli corti, proprio come il
parroco del paese, e non era né grande né grasso.
Piuttosto, era piccolo e gracile, con i capelli ricci e corti, la
carnagione scura e gli occhi di un marrone incerto, proprio come la
madre che non aveva mai conosciuto, e un viso olivastro e rotondetto,
come il padre.
"E'
proprio un ragazzino bruttissimo!" Esclamavano le comari e le donne
quando usciva per recarsi in fabbrica. Lo guardavano passare, senza
dissimulare il loro disprezzo per il suo aspetto e la sua carnagione
zingara. Mark alzava le spalle ma nonostante tutto, pensava che
niente e nessuno lo avrebbero mai scalfito. Ma dovette ben presto
arrendersi all'evidenza: spesso, quando si guardava allo specchio, il
suo aspetto lo colpiva come una sferzata. Era uno zingaro, e gli
zingari non erano visti di buon occhio.
L'infanzia
per Mark sapeva, dunque, di lunghe esperienze romanzate uscite dalla
bocca di un Ern appena stempiato e con meno rughe ai lati degli occhi.
Era stato proprio lui a raccontargli gli orrori della guerra, il lato
oscuro che si celava dietro alle celebrazioni sfarzose, al fascino
della mirata vittoria e al mito del combattimento glorioso. Un gioco al
massacro in cui migliaia di giovani partivano senza fare più
ritorno. Forse era proprio a causa sua che temeva così
tanto la guerra. Era, infatti, per storie come le sue che aveva
iniziato a temere la guerra.
Mark
dedusse, tuttavia, che malgrado non fosse bello, né
un purosangue, era dotato di una gentilezza e di una
bontà che potevano renderlo grazioso agli occhi di chi lo
conosceva intimamente. In presenza di estranei parlava raramente, dando
l'impressione di scarsa cordialità, ma era in realtà solo
molto timido, avendo sempre vissuto troppo lontano dalla buona
società per sapervi stare con disinvoltura.
*°*°*°*°*°*°*°*°*°*
Era una giornata fredda e umida.
Margaret
camminava svelta, insinuandosi tra le strette ed anguste vie della
città. Camminava per le strade della città: Brighton
è il nome, una piccola cittadina costiera agli antipodi della
colossale Londra, la City. Svoltò dietro un vicolo di cui
le pareti andavano stringendosi sino a rendere impossibile il passaggio
anche al più piccolo dei ratti. Sulla destra, tuttavia, si
trovava un capanno degli attrezzi vuoto e abbandonato, dalla cui porta
spalancata si intravede il lato opposto della casupola. Margaret
percorreva quella strada ogni giorno, tutte le volte che si recava al
mercato a svolgere qualche missiva. Raggiunto il crocevia alla
periferia, percepì un paio di occhi insistenti scrutarla con
velata curiosità. Così si voltò e il lezzo
maleodorante di alcool e abiti vecchi la colpì all'altezza della
bocca dello stomaco, causandole un improvviso e inaspettato conato. Non
aveva mai retto l'alcool, anche se qualche volta aveva peccato di gola
e allora la sua gola aveva bruciato come incendiata da spiriti maligni.
Dal
lato opposto della strada, buia e maleodorante di piscio e verdure
marce, Margaret intravide tre uomini. Vestivano gli abiti consunti e
sbiaditi dei contadini dell'epoca, con le barbe ispide appena
accennate, i capelli incanutiti e i baffi folti e crespi. Seduti in un
pub di crocevia, le loro sagome scure danzavano, sospinte dal vento e
dal bagliore giallastro proveniente dai vetri sporchi e annebbiati del
locale. La ragazza intravide le teste adombrate, le risa e i crepitii
insistenti, nuvole di vapore, forse fumo di sigaro, oltre le finestre.
Immaginava il piacevole tepore e l'odore familiare di legna e portare
calde e fumanti, il buon cibo e la buona compagnia mescolarsi.
Quando
tornò in sé, si accorse che il primo dei tre uomini la
guardava, strabico, con un boccale di birra in mano: il manico stretto
tra indice e pollice della mano destra. Con l'altra sta fumando dalla
pipa, come il suo vicino. Le sorride con un espressione ebete e le fa
cenno di avvinarsi.
Margaret riprese a camminare, con passo spedito, lasciandosi alle spalle i tre ubriaconi.
Una
volta di ritorno, intravide Caroline, seduta su di un panchetto guasto:
creava cestini in vimini, intrecciando una cordicella ai fili taglienti
di sterpaia ed erba bruciata. Indossava i soliti miseri indumenti
cuciti in casa da Lilith e aveva il viso amaranto e impiastricciato, un
rotolo di adipe appena accennato sotto il mento, la testa bassa e i
capelli sporchi che le ricadevano davanti al naso.
"Ciao
Ma-!" le disse, con sorriso benevolo. Di scorcio, le due ragazze
udirono il distinto cigolio della porta aprirsi mentre Lilith usciva di
casa ricoperta di fuliggine per aver ripulito il camino e la cappa.
"Buon
Dio! Si può sapere dove eravate?!" domandò, tutta
fremente d'ansia. Aveva i denti sporchi di nero e le orecchie,
abbastanza grandi per una ragazza, decisamente sporche.
"Tu,
piuttosto! Ma insomma, esci con Marge e non dici nulla!" Gli occhi di
Lilith erano spalancati in preda ad un guizzo di pura
rabbia. Quando Lilith pronunciò quelle parole, Margaret si
voltò e alle sue spalle, poco distante dalla palizzata che
circondava la proprietà, Mark stava camminando in loro
direzione.
"Non
avrete mica...-?!" Caroline alzò di scatto il capo e con lo
sguardo cercò di captare anche solo un piccolissimo segno di
delitto o mancanza da parte dei due ragazzi. Gli occhi le luccicavano
tale era il suo desiderio di scorgere un gesto, un'occhiata strana o
anche solo un movimento delle sopracciglia che le avrebbero fatto
intendere, ebbene, che tra Margaret e Mark c'era pur del tenero.
"Tu, continua a pelare le patate!" L'imbarazzo si era palesato
tempestivamente sul volto solitamente paonazzo e scarno di Lilith, come
un'ondata di fuoco cocente. Si era impossessato di orecchie, naso e
guance al che Lilith, solitamente pallida e violacea in volta,
sembrò riprendere un attimo di sospiro e tornare a vivere
"Non fare l'offesa Lilly! Siamo solo andati a fare un giro, lungo la costa. Cosa vuoi che sia-"
"Tu,
sei andato a fare un giro sulla costa. Non io!" L'occhiata che Margaret
lanciò a Mark era più fredda della neve in Gennaio,
quella neve che si accumula sui tetti delle case per poi caderti
addosso quando meno te lo aspetti, eppure Lilith sembrò
sciogliersi all'idea, poiché subito portò le mani
grassocce alla bocca per sopprimere lo sgomento e il gridolino della
sua anima in subbuglio.
Poichè
Mark aveva le maniche arrotolate oltre i gomiti, Margaret intravide le
sue braccia pelose stagliarsi di vene e muscoli. Constatò come
le sue braccia fossero belle, virili e possenti: le braccia di un uomo,
braccia a cui Margaret avrebbe voluto non divincolarsi, ed
accoccolarvisi.
Quando
rialzò lo sguardo, Mark la stava spogliando con gli occhi,
nascosto oltre una cortina di silenzio e nebbia, una bocca corrucciata
e delle lunga ciglia nere come il carbone, quello che d'estate tingeva
la pelle nuda e mulatta di Mark.
Margaret
si voltò per incamminarsi di tutta fretta verso la porta di
casa, ma le guance le si erano ormai dipinte profondamente di rosso,
così si affrettò a salire di sopra e rinchiudersi in
camera sua, dove nessuno avrebbe potuto disturbarla. Tranne i suoi
pensieri, quelli non poteva di certo estirparli.
*°*°*°*°*°*°*°*°*°*
Quella
sera, sul camino acceso si trovava una grande marmitta; accanto ad essa
Lilith, con indosso il grembiule bianco,distribuiva con un mestolo le
razioni di cibo, della quale a ciascun ragazzo toccava una sola
scodella. Non gli spettava altro, tranne nei giorni festivi.
Margaret
prese posto a tavola, insieme agli altri ragazzi. Lilith, con la tenuta
da cuoca provetta, si piazzò accanto alla marmitta e Caroline e
un'altra ragazza si schierarono alle sue spalle; la sbobba venne
servita e si recitò la preghiera di ringraziamento prima che la
cena venisse consumata. Poi la sbobba sparì. Un bambino,
piccolo e con gli enormi occhi ambrati infossati nel volto consumato
dalla fame, sembrava chiederle di alleviare le sue sofferenze. "Per
piacere, signorina Margaret, ne voglio ancora." Margaret, che era buona
e Dio l'aveva resa donna, diventò prima molto pallida,
contemplando con stupore il piccolo ribelle, poi si addolcì.
"Buon
Dio! Piccolo furfante, sai che non è concessa un'altra razione
di cibo." disse infine, con voce fioca. Il bambino aprì allora
la boccuccia, pronto a ripetere la sua richiesta straziante quando
Margaret lo interruppe: "Forza, prendi, è tutto tuo!" Il
marmocchio si fiondò tra le braccia di Margaret e, afferrato il
grande cucchiaio di ferro che nella sua manina scarna pareva grande,
spolverò le rimanenze della scodella di quella parvenza alata
che altri non era se non Margaret.
*°*°*°*°*°*°*°*°*°*
"Hai
detto che è nella sua stanza?" La ragazza annuì,
silenziosa, con la bocca ancora sporca di zuppa. La ringraziò e,
prima di salire, Mark si sfregò le mani per riscaldarsi, non
faceva ancora abbastanza caldo tra quelle quattro mura sterili, si
asciugò il naso poi salì le scale, con il petto in fuori
e la testa alta. Fu quando intravide la cuffietta bianca e il
collo candido di Margaret, in procinto di ritirarsi, che Mark
pronunciò il nome di lei quasi in un bisbiglio.
Margaret
era salita in camera prima del solito, un poco assopita ed esausta
dalla giornata alle spalle. Stava per aprire la porta della propria
stanza quando la sagoma scura di Mark, dalla camera che condivideva con
altri orfanelli, si staglio' lunga e secca sul pavimento.
"Ciao...!" Cercò di non far trapelare tutti i sentimenti che
provava in un banalissimo saluto e credette di essersi morso la lingua
nel farlo. Il ragazzo alzò lo sguardo verso il viso di Margaret,
quel viso che aveva visto sull'orlo delle lacrime una mezz'ora prima.
"Ciao Mark" Aveva risposto seccamente, mentre lo osservava
meravigliata di tanta insolenza. Margaret non ricordava di aver
visto Mark lasciare la tavola e salire le scale. Alla fine aveva
spalancato la porta cigolante e si era lanciata a passo svelto dentro
la stanza ancora illuminata dagli ultimi barlumi di luce. Si era seduta
sulla sponda del letto, con le braccia distese e rigide lungo i
fianchi. Mark l'aveva seguita, silenzioso, poggiando la schiena allo
stipite della porta. La ragazza aveva gli occhi arrossati, quasi scuri
in volto; quest'ultimo, invece, sapeva di un colorito cadaverico e
guardandola così distrutta, Mark provò un senso di
rimorso che sovrastò tutto e si pentì di averle fatto
quel discorso.
Lei lo scrutò soffermandosi sul naso rosso e sulle maniche della giacchetta con ancora qualche granello di sabbia.
"Ho
pensato a te sulla spiaggia e a quello che ti ho detto." Marge
cercò di nascondere una smorfia che voleva sfuggirle dalle
labbra. Stupita, lo guardava con due occhi grandi e limpidi come due
specchi d'acqua, per poi distogliere lo sguardo. Avrebbe voluto dire
qualcosa, parlare, urlare, ma i pensieri che le affollavano la testa le
avevano suggerito di non proferire parola. Con la coda dell'occhio
poteva notare l'angoscia che affliggeva il ragazzo mentre spostava
insistentemente il peso del proprio corpo da un piede
all'altro. Lo vide avvicinarsi e ne riconobbe il passo pesante e
un po' storpio farsi sempre più vicino, finché non la
raggiunse e Margaret sentì le doghe del letto scricchiolare
sotto il peso di Mark, che ora le sedeva accanto.
Rimasero
a guardarsi senza che nessuno dei due proferisse parola
alcuna. Come quella volta, quando Mark l'aveva quasi baciata:
aveva finto di non volerla, di non bramare un suo bacio, per orgoglio o
perché voleva soltanto divertirsi un po' con lei.
"Voglio
chiedere il tuo perdono, non era né il momento né il modo
giusti. Ho sbagliato, e mi dispiace assai vederti soffrire. Spero
potrai perdonarmi." Mark vide per una frazione di secondo gli occhi
della giovane diventare lucidi al pensiero delle dure parole che le
aveva crudelmente rivolto. Sembrò pensarci su, sentendo le mani
gelide di lui toccarla con così tanta dolcezza e rimorso, poi lo
guardò negli occhi e le venne in mente un particolare che in
quell'istante le sembrava imprescindibile. Così sentendo
già le guance arrossarsi dall'imbarazzo, si fece forza e
guardandolo dritto negli occhi gli fece una domanda che da tempo
richiedeva una risposta.
"Quella
volta...quella volta, quando le nostre labbra si sono quasi sfiorate,
te lo ricordi?" Quella domanda lo sorprese, perciò si
accigliò poichè un pensiero gli attraversò la
mente: avevano pensato entrambi a quel momento. "Sì, certo
che me lo ricordo."
"Quella
volta, avresti voluto baciarmi sul serio?" Lui conosceva bene la
risposta e non voleva cadere ancora nell'indifferenza per il timore di
confessarle i suoi desideri.
"Sì, avrei voluto. Quale uomo non lo avrebbe desiderato, quale pazzo!"
"Tu
menti. Se lo avessi voluto così tanto come affermi, non ti
saresti dimenticato di me così in fretta. Per chi mi hai presa?
Per una stupida forse!?" Il ragazzo si guardò attorno come
se evitando il suo sguardo potesse sfuggire a quella domanda, voleva
confessarle i suoi sentimenti ma non era pronto.
"Non sei una stupida, e mai lo sarai. Tuttavia, io non saprei. Forse volevo fingere di non provare alcun sentimento per te."
"Provi dei sentimenti, per me?"
"Sì."
Margaret sembrava esterrefatta da quella dichiarazione, aveva sempre
pensato che Mark scherzasse, che fosse tutta una grandissima buffonata,
eppure si era dovuta ricredere quando le aveva cinto la testa con
quelle sue mani grandi e spigolose; aveva appoggiato la sua fronte
calda contro quella di Margaret, e le aveva respirato vicinissimo, sul
collo e sulla bocca. La guardava di sottecchi e stringeva la sua mano
fredda in quella di Margaret, che fu percorsa da un brivido che la
attraversò tutta.
"Allora?" Mark la guardò con espressione flebile, mentre le carezzava il volto.
"Marge..."
sussurò, pronunciando appena il suo nome tra i denti e la bocca
rigonfia di desiderio. Mark la desiderava, era evidente, forse lo era
sempre stato. L'aveva guardata come si guarda la merce esposta su di un
bancone oppure una pietanza succulenta all'ora di cena. L'idea le fece
disgusto e Margaret pensò dapprima di allontanarsi, scansargli
le mani, rifiutarlo e ricusare il suo affetto, barricare la porta e
fare finta di niente o dirgli che no, non era pronta; nondimeno si
lasciò andare.
Mark
le aveva afferrato un'esile ciuffetto di capelli sbarazzino per poi
accostare il suo viso a quello di lei per costringerla a premere le sue
labbra contro le sue. Fu così che le loro bocche si unirono in
un bacio timido seppur atteso da tempo.
I
loro denti cozzarono gli uni contro gli altri, provocando in Margaret
un risolino all'anima. Avrebbe voluto sorridere, ma la barbetta incolta
di Mark le pungeva la pelle. Premette le sue grandi labbra carnose
contro quelle di lei, che si senti montare il fuoco dentro, una
passione così carnale da farle venire un capogiro. La scossa che
le aveva appena attraversato la schiena le aveva rizzato ogni pelo del
suo corpo. Lo sguardo di Margaret vacillò e si
abbassò mentre quello di Mark rimase a fissare il suo volto
superbo. Mentre le guardava il viso cercava di soppesare tutti i
pensieri che gli attanagliavano la mente in quel momento.
Erano
finiti distesi sul letto, uno nelle braccia dell'altro, sebbene a
Margaret facesse un certo senso abbracciare un tipo come Mark. Lui le
aveva sussurrato dolci parole mentre la carezzava con la mano libera,
quella che aveva premuto insistentemente sul cavallo dei pantaloni per
nascondere l'evidente eccitazione che ora gli attanagliava lo stomaco e
la mente. Sembrava stesse per esplodere, e non sapeva per quanto a
lungo avrebbe resistito alla tentazione di prendere Margaret e
possederla seduta stante, su di un letto cigolante e dalle assi marce.
Con
l'altra mano le aveva sbottonato la sottoveste di maglina grezza e la
pelle turgida del suo petto procace, fasciata sotto un reggiseno ormai
piccolo per il suo corpo non più acerbo, era balzata fuori con
estrema facilità e se ne stava all'aria, tesa e contratta per
via del freddo che aleggiava circostante. I seni, seppur piccoli,
sembravano succulenti come due grosse mele di cui il bocciolo Mark
immaginava rosso, come le mele che amava mangiare in estate.
Con
lo sguardo, scese poi lungo i fianchi sporgenti e le sue mani si
aggrapparono su di essi con veemenza tale da farle male. Le
accarezzò, infine, le affusolate cosce morbide, in cui le sue
dita grosse e dalle unghie spezzate e nere si conficcarono come lame
acuminate. Poi tornò a baciarle il collo, lambendone la pelle
liscia e profumata. Margaret giaceva immobile, sotto lo sguardo assorto
di Mark quando, il rumore di una porta al piano di sotto che sbatteva
su se stessa e il fruscio di voci, li sorpresero colpevoli agli atti.
"Fermati!"
Mark era scattato sull'attenti e, dopo aver lanciato un ultima occhiata
turbata verso Margaret, le aveva dato la buonanotte ed era uscito,
chiudendosi la porta alle spalle.
Margaret si era sistemata il corpetto, poi si era coricata a letto,
certa che avrebbe dimenticato anche l'accaduto di quella sera dai
colori infernali. Eppure aveva le lacrime agli occhi, per aver peccato
e per aver, anche solo un istante, bramato qualcosa di più che
un semplice bacio.
Margaret
aveva così fatto conoscenza con le mani contadine e sgraziate di
Mark, quel paio di mani callose e segnate dalla vanga e dagli altri
utensili da fattore. Le mani di Mark, le mani di un uomo. Inesperto.
*°*°*°*°*°*°*°*°*°*
Un
lunedì mattina, Margaret aveva creduto di aver sentito una voce
gridare: giù dalla finestra, oltre la tromba delle scale, nel
cortile ammantato di brina, il Signor Durk stava tornando a casa, dopo
aver passato la notte in una locanda, ed era era scivolato mentre
faceva la sua solita passeggiata, era caduto giù per il fossato
che costeggia i canali di scolo dei campi e si era rotto una
gamba. Alcuni uomini in calesse, che passavano di lì per
caso, aveva udito della urla e dei gemiti, più simili a dei
ruggiti e si erano dunque affrettati per assistere alla sventura del
disgraziato.
"Oh, Buon Dio! Cosa è successo?!"
"Buongiorno,
signore. Ho ricondotto a casa questo buon uomo, poiché non mi
sembrava proprio il caso di abbandonarlo in un simile momento!" L'uomo
che aveva parlato altri non era se non Sir. Denys Newt Webb, un
signorotto di origini scozzesi che deteneva il titolo di Duca e qualche
appezzamento di terra. Aveva i capelli appena imbiancati nascosti sotto
un elegante cappello a cilindro nero, i folti baffi bianchi gli
coprivano parte del labbro superiore, e aveva due piccoli occhi
stanchi; ciononostante sembrava un buon uomo.
Il
Signor Duca cercava goffamente di sorreggere il Signor Durk mentre
raccontava loro tutta la storia. "Mi stavo recando in visita da un mio
vecchio e caro amico, quando ho sentito delle urla. Così mi sono
affrettato sul posto e vi ho trovato il Signore qui presente."
Lilith
scattò per prendere un tavolino basso di legno chiaro che
sostava appoggiato al muro da tempo immemore: di solito lo utilizzavano
per poggiarci le legne da ardere, così lo posizionò
davanti alla poltrona, sarebbe stato un valido sostegno per la gamba
tumefatta e gonfia del Signor Durk che, con un grugnito,
sprofondò nella poltrona deformata.
*°*°*°*°*°*°*°*°*
Scese
dalla carrozza con fatica data la bassa statura e picchiettando i piedi
per terra si rigirò su stesso dicendo: "Di chi è la voce che ho udito qualche secondo fa?"
"La mia." Urlò Durk cercando di farsi udire.
L'uomo
dirigendosi verso la voce scoprì Durk disteso nel fosso che si
teneva premuta la gamba con aria brilla ma un con una smorfia di
sofferenza.
"Cosa vi è successo, buon uomo?" Domandò il signorotto.
"A
voi cosa sembra?! Sono caduto, temo di essermi rotto una gamba...non
riesco a muoverla, dannazione!" L'uomo, angustiato, si fece aiutare
dall'anziano cocchiere dalle rughe pendenti che gli solcavano il volto
come ramificazioni fluviali.
I
due scesero per il fossato e avvicinandosi a Durk lo aiutarono, con non
poca fatica, a tirarlo fuori di lì. Lo trascinarono per le
ascelle fino a riportarlo lungo il ciglio della strada.
"Grazie."
Disse il Signor Durk con attenuata riconoscenza, emozione poco cara a
quest'ultimo. "Se non vi dispiace, dato che vi trovate qui e in
presenza di un povero uomo menomato, potreste farmi l'immensa
gratitudine di riportarmi a casa, abito qui vicino. Suvvia!"
"Certamente!"
Disse il signorotto, che non avrebbe comunque potuto lasciare un uomo
ferito in mezzo alla strada. Di nuovo con l'aiuto del vecchio
cocchiere, caricarono il grosso corpo del Signor Durk all'interno della
carrozza e, dopo aver ricevuto le indicazioni necessarie, il veicolo
ripartì alla volta della casa grigia.
*°*°*°*°*°*°*°*°*
"Come
possiamo ringraziarvi della vostra smisurata gentilezza?" Caroline
stava porgendo una tazza di thè al Signor Duca e al Signor
Cocchiere, che dondolava accanto alla porta spalancata.
"Non
mi dovete nulla, signorine..." Il Signor Duca scosse il capo declinando
qualsivoglia offerta. "Mi basterà sapere che chiamerete un
medico per quella gamba!" disse, prima di uscire dalla porta seguito
dal cocchiere. Le ragazze li seguirono fin fuori per ringraziarli un
ultima volta e auguragli un buon ritorno a casa.
Più
tardi, quel mattino, Margaret venne sospinta nella stanza del lavatoio
con grandi esortazioni di sbrigarsi e, a sorpresa, vi trovò
Lilith sorridente. Lei la squadrò con sospetto. Lilith non era
proprio il tipo da gesti gentili o sollecitudini materne.
"Santo
Cielo Lilith, si può sapere a cosa devo l'onore di un bagno
caldo?" disse Margaret, alla quale, nel frattempo, era stato tolto
tutto il sudiciume che le copriva faccia e mani.
"Sta
per arrivare il medico, il Dottor Harrington: il Signor Durk vuole che
la casa sia in ordine, perciò anche noi dobbiamo esserlo!"
La
stanza nella quale venivano lavati gli indumenti e veniva fatto il
bagno, non più di una volta ogni due settimane, era una vasta
mensa intonacata all'estremità della quale si trovava una grande
tinozza di legno; accanto ad essa delle cisterne dalle giunture
arrugginite, che per l'occasione erano state riempite di acqua bollente
da cui si innalzavano vapori bianchi e inconsistenti.
Lilith
aveva afferrato la spugna in una mano e la saponetta nell'altra e le
aveva massaggiate l'una contro l'altra nel tentativo di fare schiuma.
"Lavati dietro le orecchie, ma non sfregare troppo! Rischieresti di
arrossare la pelle..."
"Lilith, in nome del Buon Dio, calmati!" Margaret aveva afferrato
l'amica per il braccio, costringendola ad allentare la presa sulla
spugna che stringeva nell'altra mano. L'aveva guardata con espressione
rammaricata, forse perchè in fondo anche Lilith si era resa
conto di star esagerando.
"Scusami..." le rispose, fissando i suoi piccoli occhi scuri in quelli
lucidi, un poco arrossati per via dei vapori, di Margaret che si era
stretta le ginocchia al petto, schizzando acqua ovunque.
"Piuttosto, Mark non ti è¨ sembrato più silenzioso
del solito, ultimamente?" Malgrado l'evidente volontà di Lilith
di cambiare argomento e sorvolare l'ostacolo, Margaret aveva deciso di
non raccontate l'accaduto di qualche settimana prima.
"Avrà i suoi buoni motivi..."
"Come sempre!"
La piacevole sensazione trasmessa dall'acqua calda, le avevano intorpidito le ossa e la mente.
Era
passato appena un mese da quell'avvenimento e Mark non era più
tornato a farle visita in camera, tanto meno cercava di guardarla il
meno possibile e se ne aveva l'occasione distoglieva persino lo
sguardo. Margaret non aveva raccontato a nessuno dell'accaduto,
eppure quella faccenda non era potuta sfuggire allo sguardo attento e
curioso di Caroline, sempre nascosta dietro ad un albero o lo stipite
di una porta ad origliare. Ultimamente quando si imbatteva in lei aveva
come l'impressione che la guardasse di sottecchi, con l'espressione di
chi la sa lunga stampata in volto.
Le
ore successive a quel dolce momento, più simile ad un
incantesimo, erano passate come sormontate da un velo bianco, ovattate
come in un sogno per Margaret. Si era arresa all'istigazione per
poi pentirsi non appena aveva sentito la morbidezza delle labbra di
Mark accomiatarsi, una sferzata di aria fredda le era arrivata in pieno
volto facendole realizzare finalmente cosa stava accadendo. Con un
gesto fulmineo si era infine liberata della stretta maschile attorno al
proprio collo e, rivolgendo un ultima occhiata concitata, aveva chiuso
la porta in faccia a Mark. Dietro la porta, nascosta nella sua
stanzetta, era rimasta a fissare il vuoto non riuscendo a formulare
nessuna riflessione giudiziosa, nulla le parve coerente poiché
ciò che la sua mente riusciva a produrre erano spezzoni di
ricordi incollati tra di loro senza ordine alcuno: il ricordo di un
pomeriggio primaverile persa nei campi in fiore con quel ragazzo che
qualche secondo prima aveva scacciato, i raggi del sole che le
accecavano la vista e le illuminavano i capelli, lui che si buttava nel
rosso scarlatto dei tulipani innalzati in tutta la loro maestà,
risate ad alta voce e poi più nulla.
Un
altro ricordo, Mark che inseguiva una ragazzina con un abito bianco.
Lui la stringeva in vita per gioco e cercava di darle un bacio sulla
guancia, desiderava quel bacio e il suo corpo si incollava alla schiena
della giovane che con le guance rosse fingeva di non dar peso a quello
che stava accadendo; una cena, lui che la osservava senza dare
nell'occhio, lo sguardo lucido come se avesse bevuto dello spirito
liquido, l'angolo della bocca piegato in un sorriso
malizioso. Troppi ricordi e alla fine di questi, Hayden. Lui
tornava sempre, e Margaret si sentiva colpevole.
Se Hayden mi vedesse adesso?
Se vedesse Mark e come mi ha baciata, cosa penserebbe?
Cosa farebbe?
Questi
erano i pensieri che si aggiungevano a quello scomposto collage
improvvisato. Di fatto, dopo quella sera, i giorni erano volati, vedeva
Mark il meno possibile un po' per volere e un po' per il nuovo impiego
di lui che gli impediva di essere a casa nelle ore pomeridiane.
Lui
non le aveva più rivolto la parola e lei aveva fatto lo stesso,
i momenti durante la cena erano i più tesi dato che i loro
compagni avevano colto l'ombra di un forte dissapore fra i due e non
facevano altro che scrutarli per tutto il tempo.
Solo
quando le dita iniziarono a raggrinzirsi e la testa a girarle, Margaret
decise di abbandonare la vasca. E mentre una ragazza si asciugava
tamponandosi il corpo con un asciugamano di spugna ingiallito, l'altra
si era già spogliata delle vesti e si era immersa nella stessa
acqua, solo un po' più torbida. Non potevano permettersi di
scaldare altra acqua, se solo ne avessero avuta.
Una
volta di rientro dai bagni, Margaret e Lilith, seguite dagli altri
bambini e dai ragazzi dell'ospizio, si fecero largo tra i corridoi di
casa, chi correndo, chi più ansante, per accogliere il medico.
Il
Signor Dottore altri non era che un ometto basso e calvo, le occhiaie e
il collo nascosto dietro l'alto colletto bianco dell'abito scuro.
L'uomo doveva avere la sua età poichè sarebbe potuto benissimo essere padre di tutti gli orfanelli messi assieme.
Il Signor Durk e il signor Dottore erano buoni amici, il loro rapporto
era legato da quel senso di protezione che si instaura tra padre e
figlio, o più semplicemente tra paziente e medico.
Ebbene, per il signor Durk il Signor Dottore era un po' come un padre,
un secondo padre, e non ammetteva che anche uno solo di loro si
permettesse di prendersi gioco del Signor Dottore. Avrebbero dovuto
rispettarlo e temerlo quasi come se innanzi vi fosse stato il Padre
Eterno, anche se Durk non credeva a quelle idiozie proclamate dai
ferventi religiosi con la puzza sotto al naso. Quando il buon uomo fece
capolino con il cappello cilindrico sul capo e l'accento tipico
londinese, Margaret constatò che doveva trattarsi di un uomo
adulto, sulla sessantina, più vecchio del Signor Durk di almeno
un paio di decenni. Portava una lunga giacca e tutte le volte che era
venuto in visita era solito reggersi su di un bastone intagliato che
doveva aver distrattamente poggiato dietro la porta d'ingresso.
"Salutate il signore, bambini!" disse il Signor Durk con un sorriso .
Margaret
fece un inchino. Il medico, che un attimo prima era seduto con la
schiena rivolta verso il fuoco, si era alzato dall'angusta seggiola con
il guanciale consumato e, avvicinatosi ai piedi del letto disse:
"Dovrete rimanere a letto, almeno finché la gamba non
sarà guarita del tutto."
"Fandonie!
Un paio di giorni mi basteranno!" intervenne il Signor Durk,
affrettandosi a nascondere la gamba ingessata sotto i pesanti strati di
coperte e fasce di cotone ingiallite a furia di essere adoperate.
Disteso lungo il letto, il Signor Durk sembrava più grasso del
solito, e anche più irascibile, per cui, anziché
rispondere con cordialità all'invito del medico, preferì
congedarlo a mansioni di maggiore importanza, ma soltanto dopo essersi
assicurato che la somma di denaro richiesta per il servizio non
superasse i limiti della decenza.
"E
voi? Cosa avete da guardare?! Forza, tornatevene alle vostre faccende!"
esclamò il Signor Durk, sbraitando come un maiale al macello.
Margaret e gli altri marmocchi uscirono di corsa uno dopo l'altro.
*°*°*°*°*°*°*
Quel
giorno toccava a Margaret servire il pranzo all'infermo Signor Durk e
quando quest'ultimo la vide entrare in camera con un vassoio di zuppa
fumante e un tozzo di pane, all'omone venne voglia di parlare.
"Cosa c'è da mangiare oggi?" Chiese l'uomo sistemandosi di poco sul letto.
"Zuppa di fagioli." Rispose Marge, seccata.
"Oggi
ho proprio fame, dammela avanti!" Margaret gli servì la
scodella, appoggiando sul comodino un bicchiere d'acqua e il tozzo di
pane.
"Perché non rimani a farmi compagnia!?"
"Ho da fare."
"Avanti!
Volevo parlarti di una cosuccia..." Il suo sguardo si indurì
mentre la guardava, ritta come una guardia svizzera che cercava di
rimanere immobile.
La
ragazza ci pensò un attimo e, dato che non voleva subirne le
conseguenze, decise di accettare. Si accomodò sulla sedia
all'angolo della stanza che, quando si sedette, cigolò
fastidiosamente.
"Dimmi,
ricevi ancora quelle lettere da Hayden?" Margaret non immaginava che il
Signor Durk fosse a conoscenza delle sue comunicazioni private.
"N-o,
non più." Margaret stava massaggiando delicatamente il piede
gonfio e violaceo del Signor Durk, nascosto tra le lenzuola e le
coperte. Si faceva ogni giorno più grosso.
"Magari è morto! Ci hai mai pensato?" Durk fece una smorfia mentre deglutiva l'ennesima cucchiaiata di zuppa calda.
Margaret sentì gli occhi pizzicarle al solo pensiero, anche se doveva ammetterlo: non ci aveva mai pensato seriamente.
"No." Rispose con un groppo alla gola.
"Beh, se fosse morto, si sarebbero avute sue notizie..."
"Ah!
Non mi meraviglierei troppo comunque, era troppo debole per resistere
su un campo di battaglia." Ancora quel tono, come se la vita di Hayden
non avesse importanza per lui.
"Ora
basta." Margaret si alzò di scatto dalla sedia, puntò i
piedi per terra e si diresse a testa bassa verso la porta. Durk non le
avrebbe concesso una dipartita così veloce, e non appena la
giovane gli fu abbastanza vicina la afferrò per un polso con una
tale prestanza da a lasciarle l'impronta bianca sulla pelle rosea.
"Se
fossi in te lascerei perdere Hayden e continuerei a fare la troia con
quello sporco moccioso di Mark!" L'espressione dell'uomo era intrisa di
malizia e crudeltà, una smorfia di cui persino il diavolo si
sarebbe disgustato.
"Come fate a sapere queste cose!?"
"Bambina
mia, io so tutto quello che succede dentro queste quattro mura,
ricordatelo." E con un gesto rabbioso le lasciò andare il polso
spingendola via.
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