«Ecco:
io vi mando come
pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e
semplici come le colombe»
Matteo, 10,
16.
19.
Sbattei
la porta di casa con tanta violenza che metà vicinato
probabilmente
riuscii a sentirla e feci altrettanto con quella della macchina, come
se produrre più rumore possibile mi aiutasse a tenere a bada
i
pensieri. Presi a pugni il volante fino a sentirmi ridicola, e quando
mi lasciai andare contro il sedile la negatività
tornò ad
insinuarsi lenta ed infida nella mia mente. Mi sentivo infantile a
permettere alle lacrime di avere la meglio, perciò frenai il
pianto
e mi concentrai sul mio respiro fino a rendere lui e il battito
cardiaco perfettamente regolari.
Ero riuscita
a farmi
rovinare ancora l’umore da quella donna, avevo giurato che
non
sarebbe più successo, che avrei sempre avuto la meglio,
invece anche
quella volta la lotta mi aveva lasciata con l’amaro in bocca
e due
tipi diversi di dolore ad intrecciarsi in una danza pericolosa per
darmi il tormento, fino a non permettermi più di distinguere
tra la
collera nei confronti di mia madre e la nostalgia bruciante per mio
fratello.
Lei aveva
condannato
Christopher all’oblio e io mi ero ripromessa di non
perdonarle
questo affronto. La prima notte senza di lui era stata durissima, una
veglia infinita, ma nulla in confronto all’amara scoperta
fatta il
mattino seguente.
Ogni foto di
Chris era
scomparsa, la felpa che fino al giorno prima era appesa accanto alla
porta d’ingresso era stata eliminata, le sue scarpe,
così come
ogni più piccola traccia della sua esistenza, erano state
rimosse.
Tutto tolto di mezzo, come gli effetti personali di un appestato.
L’istinto
mi aveva
suggerito di affrontare mia madre, ma non avevo neppure avuto il
bisogno di chiedere spiegazioni per quel gesto. Il gelo e la
negazione che le avevo letto negli occhi avevano parlato chiaro e mi
avevano fatto capire che non avrebbe accettato discussioni. Ancora
non sapevo con certezza il perché quelle foto erano svanite,
ma
bastava il solo pensiero per stringermi lo stomaco in una morsa di
risentimento e per farmi ribollire il sangue nelle vene. Ogni volta
che un torto mi spingeva a litigare con lei o ad avere una
discussione, quel ricordo mi sfiorava il cuore e l’odio mi
annebbiava la vista.
Che razza di
madre era?
Come poteva fingere che Chris non fosse mai venuto al mondo? Come
poteva ignorare l’esistenza di un ragazzo che era stato il
collante
della nostra famiglia? Ogni pasto, dal momento della sua morte in
avanti, era stato un concentrato di silenzio e pensieri inespressi,
fino alla rottura definitiva del matrimonio dei miei. Non potevo
biasimare papà per averla lasciata, dato che a stento la
sopportavo
io quand’era in casa.
In
un’infinità di
occasioni mi ero chiesta quando finalmente sarei stata in grado di
prendere il coraggio a due mani per sputarle addosso tutto il veleno
che i suoi comportamenti mi avevano fatto crescere
nell’animo.
Ora che mi
ero sfogata non
ero certa di esserne soddisfatta. Un nuovo tarlo mi rodeva i
pensieri, non mi ero aspettata da parte della donna una tale
reazione. Fino a quel momento l’avevo vista come una dama di
ferro
capace di resistere a qualsiasi emozione, invece per la prima volta
avevo scorto autentico dolore nel suo sguardo. Avevo passato
così
tanto tempo a vederla come un pezzo di ghiaccio che la consapevolezza
improvvisa che anche lei fosse umana mi aveva sconvolta. Non avrei
potuto sentirmi l’animo così in subbuglio nemmeno
se avesse
confermato le mie accuse.
Non
farti intenerire.
Mormorò una voce dentro di me. Lei
è il tuo nemico, non merita comprensione, né
perdono, né
gentilezza. Dovresti odiarla.
Sì,
avevo tutto il diritto
di provare rancore nei confronti di mia madre.
Ci impiegai
qualche minuto
a trovare la forza di accendere il motore dell’auto,
confortata dal
buio del garage e da quel bozzolo di silenzio in cui avrei voluto
accoccolarmi per tutta la sera. Un nuovo sms di Louis mi persuase che
era il momento di ritornare alla realtà e di scacciare con
forza
quei cattivi pensieri, e mi spronò a partire.
Quando il
ragazzo saltò
sul sedile del passeggero accanto a me, nemmeno il suo sorriso enorme
riuscii a contagiarmi e ogni tentativo di distrarlo dal mio cattivo
umore fu vano. Evidentemente mi si leggeva in fronte che qualcosa non
andava, perché dopo un piccolo monologo su quanto fosse
felice di
vedere ancora Jude, Louis iniziò ad indagare.
«Accidenti
che muso lungo.
Attenta che potrebbe infilartisi tra i pedali
dell’auto». Riuscì
a strapparmi un sorriso e quando si sporse verso di me per osservare
la mia reazione, un’ondata di profumo mi fece tossicchiare.
«Buona
la tua acqua di
colonia, ma non era necessario farcisi la doccia».
«Dicono
che acchiappa un
sacco. Dai, dimmi che succede». Si allacciò la
cintura di sicurezza
ancor prima che potessi intimargli di farlo, segno inequivocabile di
quanto si sforzasse di compiacermi. Gli raccontai tutto tralasciando
il dettaglio di me che uscivo di testa e che accusavo mia madre di
essere un genitore degenere, e da parte del mio amico ottenni una
pacca sul ginocchio e un tono comprensivo.
«Se
vuoi un parere da
parte dello zio Louis, prima di tutto non dovevi sprecare
così la
balla della serata cinema, e in secondo luogo non preoccuparti, anche
la prima volta la strega ha ringhiato, ma nulla di più. Ti
ha
perdonata, giusto? Non ti ha nemmeno messa in punizione, fosse mia
madre mi avrebbe fatto il sedere a strisce».
«Non
mi ha ammazzata
perché ci è quasi riuscito qualcun altro, ma non
pensare che non mi
abbia fatto pesare il mio colpo di testa. Non oso immaginare quanto
mi rinfaccerà questa litigata…e non ho usato la
scusa del film
perché non voglio dare spiegazioni. L’unica a
poter decidere per
me sono io». Mi ricordai di lei che si rifugiava in camera e
della
mestizia con cui non aveva reagito ai miei insulti. No…non
mi
avrebbe rinfacciato un bel niente, forse non mi avrebbe più
rivolto
la parola. Una stretta allo stomaco confermò i miei
sospetti: non
ero fiera del mio comportamento.
Rallentai e
mi fermai al
primo semaforo rosso, guardandomi intorno mentre Louis iniziava un
nuovo discorso e si dilungava sui suoi progetti per il futuro. Non
era la prima volta che ne parlavamo, ma le novità erano
poche. Come
capitava spesso con le questioni serie, le frasi erano sempre le
stesse. Suo padre voleva che andasse a lavorare, la madre sperava che
potesse studiare e diventare qualcuno di importante e Louis si
trovava tra l’incudine e il martello, nella totale
incapacità di
scegliere. Non era facile entrare in un’università
prestigiosa
senza snocciolare una quantità di soldi non indifferente, o
senza
ottenere una borsa di studio, e sapevo che forse i genitori di Louis
non volevano affrontare una spesa del genere. Le possibilità
di
studio erano altre, ovviamente, ma la titubanza del ragazzo non
aiutava a dare una svolta alla questione.
Una donna
anziana ed
ingobbita all’altro lato della strada gettò nel
cassonetto un
sacchetto dell’immondizia e tornò barcollando
all’ingresso della
sua casa. I suoi occhi si posarono per un istante su di me e le sue
labbra formarono una parola che attraverso i rumori della
città e il
finestrino mi giunse muta. Superba.
Dietro di me
qualcuno si
attaccò al clacson. Sobbalzai sul sedile e ripartii, notando
che il
semaforo era verde. Rivolsi un’altra occhiata alla donna, ma
feci
in tempo solo a scorgere la sua gonna scura sparire in casa.
«Tutto
bene, Amber? Sei
piuttosto distratta stasera, pensi ancora a tua madre?» Louis
mi
fissava preoccupato. I suoi capelli anche nella penombra della sera
apparivano perfettamente in ordine e il viso era come sempre liscio e
in naturale armonia con la fanciullezza dei suoi occhi. Mi sentii in
colpa per aver ignorato le sue parole.
Con un
sospiro etichettai
la vecchia come una pazza che parlava da sola e mi rimproverai per la
mia debolezza. Ora mancava solo che cominciassi a immaginare le cose.
Quel sogno mi aveva davvero sconvolto le idee.
Mi
giustificai dando la
colpa ad un gatto che aveva attirato la mia attenzione e proseguii in
silenzio il viaggio, finché non riuscii a trovare
parcheggio. Da lì
riuscii a scorgere la luna nelle ultime fasi della crescita e
l’insegna cremisi del Mephisto.
Come mi era
stato
raccontato, la clientela era cresciuta dall’ultima volta che
ero
stata lì, la si vedeva assiepata sotto l’insegna,
fumando,
saltellando distrattamente sul posto per scaldarsi o anche solo
prendendo una boccata d’aria in attesa di rientrare e
immergersi
nuovamente nel ritmo sfiancante della musica. Come un gruppo di
avvoltoi in pausa dopo una scorpacciata, ma non ancora del tutto
appagati e perciò pronti a rigettare ben presto i becchi
affilati
nella carcassa. Il paragone mi fece rabbrividire, o forse era
l’aria
fresca del mare a formarmi la pelle d’oca sulle braccia.
Riconobbi
subito il
buttafuori che avevo conosciuto l’altra volta e la ragazza
bionda
che a quanto pareva non gli si scollava di dosso nemmeno per un
istante. Quando mi vide, il rossetto rosso sangue si aprì a
rivelare
un sorriso smagliante. Dalle labbra le uscì uno sbuffo di
fumo, poi
ne prese un’altra boccata aspirando la sigaretta e facendo
brillare
la punta.
«Sei
tornata. Che
piacevole sorpresa» mormorò, e ad ogni parola il
fumo sfuggiva
dalla sua bocca in piccole volute. «Il Mephisto
fa quest’effetto a molte persone. Può capitare
qualsiasi cosa, ma
è difficile toglierselo dalla testa.
È…inebriante». Con un cenno
della testa si rivolte a Louis. «Jude ti aspetta di sotto,
è
impegnato al bancone, ma ha detto che sei un cliente
d’eccezione.
Questa sera è tutta vostra, ragazzi».
Ancheggiando
andò verso la
porta d’entrata, facendo risuonare i tacchi sul pavimento, e
ce la
tenne aperta in attesa che facessimo il nostro ingresso. Il suo
sguardo pesantemente incorniciato dal trucco nero si spostò
da me a
Louis con fare quasi divertito.
Ringraziammo
e scendemmo le
familiari scale. Superammo le mani di pietra e il lungo corridoio
decorato ad arte. I miei occhi, come mossi da volontà
indipendente
dal resto del corpo, si posarono sul dipinto che tra tutti gli altri
più mi aveva attratta e sconvolta. La miriade di dannati
straziati
dai demoni. Ormai dopo l’incubo di quella notte mi sembrava
quasi
di sentirli strillare e chiedere aiuto, di percepire il loro stesso
dolore, di essere diventata una di loro.
Nebbia e
musica ci
guidarono fino al bancone e Jude, non appena ci avvistò,
aggirò il
tavolo in pietra e corse verso di noi, baciandoci con affetto su
entrambe le guance e facendo arrossire Louis fino alle scarpe.
«Sono
davvero felice che
tu sia qui» esclamò. «Amber,
è un piacere vedere anche te.» Mi
posò la mano sulla spalla e si fece più vicino,
per sovrastare il
volume del brano.
«L’ultima
volta non ho
abbiamo avuto occasione di parlare molto quindi…beh, ti
chiedo
scusa per quello che è successo. È terribile
quando qualcosa di
tanto violento accade senza che nessuno possa evitarlo. Sono felice
che tu stia bene».
«Grazie,
sei molto
gentile». Louis mi guardò con il sorriso negli
occhi e
un’espressione che sembrava sussurrare: Te
l’avevo detto che era adorabile.
Il ragazzo
ci fece segno di
avvicinarci al bancone. «Prego, questa serata siete miei
ospiti,
potete avere tutto ciò che volete». Fece una
smorfia maliziosa che
regalò tutta al mio amico.
Rivestì
in fretta i panni
del perfetto e servizievole cameriere e noi occupammo due posti
liberi per miracolo. Di tanto in tanto aiutava i suoi colleghi a
servire il resto della clientela, ma non aveva mentito. Era come se
sulle magliette io e Louis avessimo scritto Vip
e che avessimo la priorità su tutto. C’era un che
di gratificante
nell’avere così tanta importanza ed ero felice per
Louis nel
constatare che Jude non gli toglieva gli occhi di dosso.
Dopo la
prima volta e il
colloquio con la polizia, mi sentivo in colpa ad assumere di nuovo
alcolici con Louis sotto la mia responsabilità,
perciò mi
accontentai di una bibita analcolica e osservai divertita Louis
approfittare della gentilezza del barista per scroccargli un paio di
drink. Jude ci assicurò che offriva la casa.
Un agente di
polizia
chiaramente incaricato di sorvegliare il locale dopo
l’incidente,
era seduto ai divanetti chiacchierando con due ragazze poco vestite.
Mi chiesi se la loro presenza lo distraesse, ma la risposta mi fu
subito chiara, vedendo i suoi occhi da pesce lesso. Gli uomini erano
pur sempre uomini, anche con una divisa addosso.
Addio
alla sicurezza.
Pensai. E
io dovrei fidarmi della polizia? Scommetto che agenti del genere non
riuscirebbero ad acciuffare Simon nemmeno se camminasse loro di
fronte.
Per quanto
fossi convinta
che quelle preoccupazioni fossero ben fondate, mi sforzai di non
farmi rovinare la serata da ulteriori angosce. Era tutto a posto, non
sarebbe successo nulla di male. Non una seconda volta.
Dopo una
mezz’ora Jude
lasciò il timone ad una collega e trascinò con se
Louis a giocare a
biliardo anche se era negato per quel genere di attività.
Rimasi a
guardarlo per un tempo che mi parve interminabile, aggrappata al mio
drink. Era tipico di Louis essere elettrizzato per qualsiasi cosa, ma
l’espressione che gli lessi nel volto era di pura gioia e
più
intensa del solito, anche quando avrebbe dovuto mantenere una certa
concentrazione per guadagnare punti al gioco. Jude era gentile e
paziente, di tanto in tanto gli posava una mano sulla schiena o sulla
spalla con fare premuroso, facendomi provare una stratta al cuore
ogni volta che notavo sul viso del mio migliore amico la reazione a
quei gesti. Mi interrogai un paio di volte se quello che provavo era
gelosia, ma avevo guardato con diffidenza le ragazze che lo trovavano
carino così tante volte che ormai sapevo riconoscerne i
sintomi o
escluderli.
Ero
sinceramente felice per
lui, con un retrogusto amaro di nostalgia come se quella serata
rappresentasse una svolta fondamentale da una fase all’altra
delle
nostre vite. Mi sentivo malinconica come una madre che si rendeva
conto che il proprio figlio era cresciuto e che presto se ne sarebbe
andato. Patetico, ma vero.
«Chiedo
scusa» una voce
soave, quasi incerta, distolse la mia attenzione dall’ultimo
tiro
di Louis, impedendomi di vedere il risultato. Quando mi voltai
incontrai il giovane viso di una ragazza e il suo sorriso appena
accennato. Con dita lunghe e sottili indicò la sedia
lasciata libera
dal mio amico.
«Questo
posto è
occupato?» Scossi la testa, in silenzio, guardandola di
sfuggita, ma
notando subito in lei qualcosa di familiare, senza tuttavia riuscire
a collocarla con precisione nella memoria. Un ragazzo ben piazzato
dai capelli biondi e tirati all’indietro con una passata di
gel
mormorò un ringraziamento e salì sullo sgabello
con un movimento
fluido, aiutando poi elegantemente la ragazza a sederglisi in grembo.
A quanto pareva, l’unica a non riuscire ad adagiarsi con
classe su
quegli alti trespoli ero io.
Ritornai a
Louis e alla sua
nuova carriera come giocatore di biliardo, tenendo il ritmo della
musica con le dita sulla pietra del bancone, ma l’immagine
della
ragazza era come un’interferenza fastidiosa nella mia mente.
Un
paio di volte sbirciai il suo profilo, le sue guance rosee e le sue
labbra in movimento, impegnate in una concitata conversazione.
L’entusiasmo sembrava quello tipico di chi si era lasciato
conquistare dallo stile particolare del Mephisto.
Quando
interruppe la
chiacchierata con il biondo per ordinare da bere, si accorse del mio
sguardo fisso su di sé e mi sorrise. «Qualcosa non
va?» chiese,
con gentilezza. Ebbi il buon senso di mostrarmi imbarazzata per
quell’invadenza da parte mia.
«Scusami,
non vorrei
sembrarti una maniaca». Lei ridacchiò, un suono di
campanelle
nell’inferno di quella confusione. «Non temere, di
maniaci ne ho
incontrati tanti e tu non ne hai l’aspetto. Temevo di avere
qualcosa in faccia». Si passò una mano pallida
sulla guancia, come
per scacciare un baffo di sugo dopo una scorpacciata di spaghetti.
«No,
affatto. Il tuo
aspetto mi è familiare, ci siamo già
incontrate?»
«Io
non ti ho mai vista,
ma forse tu hai visto me» spiegò, un istante prima
che il ragazzo
intervenisse nel discorso.
«Lei
è una modella».
«Oh,
io pensavo più che
altro ad una compagna dell’asilo o delle elementari, ma ecco
spiegato il mistero. Probabilmente ti ho visto su qualche rivista,
sempre che tu sia quel tipo di modella».
Si strinse
nelle spalle.
«Sono versatile, ho fatto un po’ di
tutto».
Annuii poco
convinta,
ancora intenta a collocare da qualche parte quei suoi capelli lunghi
fino alla vita, di un rosso tendente al castano. Mi sembrava di aver
visto cento volte quegli occhi tanto scuri da sembrare pozzi neri e
il tocco rosa sulle guance. O forse era la sua espressione vissuta,
quasi antica a trarmi in inganno. Una rivista patinata o cartelloni
pubblicitari non erano i mezzi migliori per la diffusione di una
bellezza così insolita. Il ragazzo accanto a lei non aveva
occhi che
per lei.
Me ne stetti
in disparte, a
tratti incapace per vicinanza a ignorare brandelli della
conversazione tra i due e a tratti catturata dal riflesso delle luci
stroboscopiche e dei corpi danzanti sulle bottiglie di liquore dietro
il bancone. I camerieri indossavano ancora i cornetti luminosi, come
piccoli diavoli da quattro soldi, piuttosto ridicoli tutto sommato,
ma se non altro erano utili per individuare i baristi nella penombra
delle fauci di Lucifero.
Dopo qualche
minuto
cominciai ad annoiarmi, dopo aver cercato in tutta la sala qualche
particolare degno della mia attenzione. In pista le mosse divennero
subito troppo ripetitive, il poliziotto aveva smesso di interessarmi
dal momento stesso in cui avevo capito che dopo le birre e i cocktail
che si era scolato non sarebbe stato in grado di distinguere il
sedere di un orso dalla sua stessa madre. Una delle due ragazze che
gli stavano addosso aveva il mento proprio sulla spalla di lui e
sembrava pendere dalle sue parole.
Louis
cominciò la seconda
partita, lanciandomi uno sguardo esultante e facendo ciao
ciao
con la mano. Mi sentivo la mamma paziente in attesa che il
figlioletto scendesse dalle giostre.
È
la sua serata.
Mi dissi. Non
devi divertirti per forza.
Era
così. La prima volta
che avevo messo piede lì dentro mi ero detta che non avevo
mai visto
un locale altrettanto favoloso e che mai avrei provato pari
entusiasmo per un altro luogo. Ero convinta che nessuno avrebbe mai
potuto convincermi del contrario, ma ogni minuto che passava perdeva
sempre più fascino ai miei occhi, sebbene non fosse cambiato
nulla.
«Non
sembri
particolarmente felice di essere qui. Non ti piace?» La
ragazza si
era sporta verso di me e mi fissava con occhi profondi e
inintelligibili, stringendo tra le mani un calice di vino rosso che
faceva roteare distrattamente. «Io adoro questo
posto».
«Piace
anche a me, sono
solo un po’ pensierosa».
«Qualcosa
ti affligge, mia
cara?»
«Niente
di serio. Sto
guardando il mio amico giocare, laggiù. Diciamo che sono la
sua
accompagnatrice». Il biondo attese che finissi la coca cola,
poi mi
rivolse un ampio sorriso. «Ti unisci a noi per un
po’ di vino?»
«Servizio
taxi, stasera.
Non posso bere alcol, ma grazie».
«Dannate
regole»
commentò, senza insistere troppo. Era incredibile quanto
quella
conversazione assomigliasse a quella tenuta con Simon, ma quella
volta ero ben intenzionata a non trasgredire le regole. Se per uno
scherzo del destino mi avesse fermato la polizia per un controllo,
quella sera, dovevo essere pura e immacolata come un angelo,
altrimenti sì che mia madre mi avrebbe appesa al muro.
Con una
stretta allo
stomaco il ricordo di lei che fuggiva da me mi fece ricadere nel
senso di colpa. Era ancora in camera? Aveva provato a chiamarmi?
Lì
dentro non c’era campo, mi ripromisi di controllare appena
uscita.
Non che avessi intenzione di parlare con lei, ma volevo sapere se
aveva giocato tutte le sue carte per convincermi a non andare.
«Non
ci siamo presentati».
La ragazza mi tese la mano. «Mi chiamo Mary Elizabeth, e lui
è
Kevin, il mio compagno. Ma tu puoi anche chiamarmi Ofelia, ormai
è
un soprannome che usano tutti i miei amici. Buffo, ma sono conosciuta
più con questo appellativo che con il mio vero nome,
papà non
sarebbe contento dopo tutti gli sforzi per trovarne uno».
Avvicinò
il calice al naso minuto e inspirò profondamente, poi ne
prese un
piccolo sorso e sorrise. «Delizioso».
«Perché
ti chiamano
Ofelia?» chiesi, curiosamente.
«Un
artista lo ha scelto
come soprannome per me, qualche anno fa. È un personaggio
che lo
affascinava molto, ne era quasi ossessionato».
«Era?»
«È
morto».
«Povero
John» sentenziò
Kevin. Poi scoppiò a ridere, seguito a ruota da lei, senza
che ne
comprendessi bene il motivo. Immaginai che mi stessero prendendo
amichevolmente in giro, ma il senso di quella battuta a dire il vero,
non mi era chiaro. Comportamento tipico degli amanti, crearsi un
mondo di riferimenti tutto loro. Mi schiarii la voce, un poco a
disagio.
«Beh,
Ofelia è un bel
nome. Evocativo» mi trovai a dire semplicemente, facendo
saltellare
i rimasugli di ghiaccio nel bicchiere. Mary Elizabeth, o Ofelia,
vuotò il calice e alzò il dito per farsene
portare un altro. Al suo
gesto un cameriere si mosse alla svelta per soddisfare la richiesta,
come se nel locale ci fosse solo lei. Il fascino poteva essere utile
anche per quello.
«È
la prima volta che
vieni qui…come hai detto che ti chiami?»
«Amber.
No, sono stata qui
un po’ di tempo fa…» fui sul punto di
dire che la prima volta
non era andata molto bene, ma mi trattenni. Non avevo bisogno dei
loro occhi fissi sul foulard. «Ma è difficile
apprezzarlo in una
sola uscita».
Kevin
batté una mano sul
bancone. «Concordo!» Esclamò.
«San Francisco offre molto, ma il
Mephisto
era quello che ci voleva. Dico, avete visto i dipinti?»
«E
gli specchi?» fece
Ofelia, quasi completando i pensieri del suo ragazzo.
«L’esempio
perfetto
della bellezza estetica».
«Ho
sentito di qualche
prete che ha protestato».
Feci uno
sbuffo e mi
strinsi nelle spalle. «Quando mai loro non protestano per
qualcosa
che non sia uscito dalle loro divine bocche?»
«Già,
come se potesse
succedere qualcosa di male a divertirsi un po’. Se il locale
avesse
a che fare con angioletti puri e santi nessuno ci metterebbe piede.
Sai che noia!» Kevin strinse la ragazza un po’
più a sé,
posandole la guancia sul braccio, ma fissando me.
«Beh,
in effetti qualcosa
è successo» disse con fare cospiratorio.
«Ho sentito che circa una
settimana fa è avvenuto un incidente nei bagni».
Abbassai lo
sguardo,
sperando che il mio viso divenisse d’improvviso
imperscrutabile.
Feci finta di nulla e mi schiarii la voce.
«Davvero?»
Ofelia
annuì con un
sorrisino. «Una ragazza è stata aggredita, dicono
con un coccio di
bottiglia. Un modo piuttosto rozzo per fare del male a
qualcuno».
«E
sporco» aggiunse il
biondo. «C’era sangue ovunque, mi stupisce che non
sia morta».
Ofelia mi
fissò con gli
occhi che brillavano. «Mi stupisce maggiormente che Hazaq non
abbia
finito il lavoro».
Alle sue
parole mi sentii
mancare. Mi afferrai al tavolo per non crollare dalla sedia e
inspirai a fondo. La testa mi ronzava e quel nome riecheggiò
tra i
miei pensieri come uno sparo.
«Come
hai detto scusa?»
Avevo capito male, dovevo per forza aver capito male. Mi sporsi verso
i due e ripetei la domanda, alzando la voce. Kevin non rispose,
impegnato a ridacchiare contro il fianco della giovane, ma lei
mantenne una certa serietà, non fosse per un sorriso
malvagio che le
increspava le labbra rosate.
Allungò
una mano verso di
me, sfiorandomi la fronte con la punta delle dita. Quel semplice
contatto bastò a raggelarmi, aggiunto alla delizia che le
leggevo
negli occhi.
«Hai
capito bene. Non ha
finito il lavoro, ma le ha aperto un bel sorriso nella
gola…pardon,
ti
ha aperto un bel sorriso nella gola, Amber Hale, e io non vedo
l’ora
di vedere la fine di questo giochetto».
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