I.
P.T. vuole testare la
sua lealtà. È l’ultimo dei cani randagi raccolti in casa Barnum
e l’unico che possa vantare un pedigree di tutto rispetto, non c’è
nulla di cui stupirsi.
Phillip se ne accorge
per la prima volta a qualche giorno dal suo ingresso al Circo,
scaraventato in un mondo dove i colori sono sgargianti, le donne
barbute e il pubblico paga per essere riempito di frottole.
«Barnum, O’Malley mi ha
riferito che i vostri costumisti hanno consegnato tutti gli abiti di
scena» Phillip lo rincorre per i corridoi dietro le quinte; il suono
degli applausi e le grida del pubblico arrivano sempre con qualche
secondo di ritardo, come a separare la vita reale da quella
costruita sul palcoscenico.
Phineas mantiene il
passo. Gambe lunghe, marcia svelta – sa sempre dove andare e come
arrivarci e Phillip ha il sentore che in questo momento voglia
semplicemente andare lontano da lui.
«O’Malley vi ha
riferito il vero. Andatene fiero, non è cosa che accade tutti i
giorni» gli dice, schioccandogli un occhiolino.
«Lo farò, ma ho notato
che il mio manca.»
Phineas si ferma, la
mano sfiora la maniglia della porta chiusa di un ufficio – sulla
targhetta dorata, la scritta P.T. Barnum è in caratteri neri.
Si volta, la mano
ancora sulla maniglia, lo sguardo invece indugia sui tratti giovani
di Phillip. Lo guarda in quel modo con cui ha guardato ognuno di
loro: ad occhi (e cuore) aperti. C’è sempre, però, qualcosa
in più quando è rivolto a Phillip: un’aria predatoria di sfida e una
di vittoria, quasi non aspettasse che di sentirsi lodato per essere
stato così bravo a convincere un Carlyle a stare dalla sua
parte.
«Giusto. Il vostro» gli
fa da eco, senza spiegare, però, che fine abbia fatto.
«Ebbene?»
«Si sarà trattato di
una banale svista, mi assicurerò di farvelo avere il prima
possibile.»
Per Phillip non sarebbe
un problema, se solo le parole di Barnum non sembrassero
confezionate ad hoc. Corruccia la fronte, osserva la lingua di
Phineas accarezzare piano la punta degli incisivi, la bocca schiusa
e il sorriso piegato solo da un lato. È l’affascinante faccia da
schiaffi del Re dei bugiardi e, se solo Phillip non avesse appena
rischiato di soffocarsi con la propria saliva a immaginare quella
stessa lingua occupata a leccare ben altro che la punta dei propri
denti, non sarebbe capitolato così in fretta.
Ci vogliono altri
tredici giorni perché Barnum si presenti a lui con i suoi abiti di
scena (una giacca vistosamente rossa) e un sorriso borioso e
Phillip è convinto che l’uomo potrebbe quasi mettersi a cantare, per
quanto gongoli nell’essere riuscito a farlo attendere così a lungo.
II.
La seconda volta
Phillip è diventato testimone di un omicidio.
Sventramento è
più adatto, si corregge, mentre bussa alla porta dell’ufficio di
Barnum.
È trascorsa ormai una
settimana da quando uno dei leoni del circo ha ben pensato di
banchettare con la giacca del giovane Carlyle, balzando sullo
sgabello su cui era stata dimenticata. Perché Barnum insista a
tenere degli animali veri, quando ci sono uomini-lupo o gente
con tre gambe che può allettare altrettanto bene la curiosità del
pubblico, ancora non lo comprende.
«Avanti.»
Dall’interno Phineas lo
invita ad entrare.
Quando Phillip apre la
porta ne scorge la testa curva sulla scrivania. L’uomo si raddrizza,
nasconde uno sbadiglio dietro alla mano sinistra e la usa poi per
coprire la destra.
«Phillip. C’è qualcosa
di cui volete parlarmi?» domanda scettico «Se è ancora per la
questione di Rufus, vi assicuro che è rammaricato e pentito di
quanto accaduto.»
«Rufus è un leone,
Barnum.»
«Ma con più cuore di
alcuni degli uomini che ho conosciuto» Phineas sorride, c’è una nota
arrogante (c’è sempre una nota arrogante) che invita il più
giovane alla resa. Non c’è modo di vincere una disputa contro un
impostore, non quando questi ha la lingua lunga e capace di
Barnum.
Phillip scuote il capo
– pensare alla lingua dell’uomo è l’ultima cosa che dovrebbe fare.
«Dubito che batta per
me. O per la giacca che mi ha quasi divorato» riprende «Ma è di
questa che volevo parlarvi, ne avete notizia? Gli abiti di W.D. si
sono strappati solo qualche giorno fa e i costumisti glieli hanno
già restituiti» c’è un non detto chiaro come il sole che Barnum –
Phillip è sicuro – coglie benissimo. Coglie quando stira la schiena
contro la seggiola e spinge le mani in grembo, coperte dalla
scrivania.
Coglie, sceglie di
ignorare e passa la lingua sulle labbra. Piano. Ripetutamente. In un
modo che spegne il cervello di Phillip e accende altro.
«Gli abiti di W.D. non
sono passati tra le fauci del nostro Rufus. Temo dovrete pazientare
ancora un po’. Nel frattempo potete indossare una di quelle di
riserva, i ragazzi le hanno cucite in fretta e furia apposta per
voi.»
Phillip richiama il
proprio cervello all’ordine.
«Non che non apprezzi
il loro lavoro, ma quella divorata dal vostro amico Rufus era
la mia preferita. Potete sollecitarli affinché ve la restituiscano o
ne confezionino un’altra identica?» chiede.
«Lo era?»
«Sì.»
«Oh.»
«Barnum?» qualcosa
nell’espressione di Phineas lo lascia perplesso.
La risposta tarda ad
arrivare. Ci sono ingranaggi messi in moto che Phillip può solo
immaginare quando l’uomo si alza e lo raggiunge con un sorrisetto
furbo e le mani dietro la schiena. Quando tira davanti le braccia,
Phillip sente un nuovo peso sulle proprie spalle: a coprirle una
giacca straordinariamente rossa e di un paio di abbondanti taglie
oltre la propria.
Barnum è giubilante.
«Se con le vostre altre
giacche non vi trovate bene, posso sempre prestarvi la mia» la sua
lingua schiocca contro il palato, il suo profumo invade di
prepotenza le narici di Phillip e il «No, grazie» è un sussurro
soffocato che precede la fuga.
Dopo una settimana,
Barnum bussa al suo camerino con una giacca nuova di pacca e un
sorriso talmente tronfio che Phillip si convince abbia organizzato
tutto di proposito. D’altronde si tratta del ringmaster più famoso
d’America, quanto potrà essere difficile per lui convincere un leone
a mangiarsi la giacca del proprio socio?
III.
La terza volta Phillip
è stato uno stupido.
I volteggi di Anne
durante le prove gli fanno girare la testa e, quando la corda è a
portata di mano, con essa prende il volo senza pensarci.
Non è durato a lungo.
Riscrivere le stelle in giacca e gilè non è la più arguta
delle mosse.
Tra le mani solleva i
resti di una giacca rosso fuoco. Uno squarcio grande quanto la sua
mano si apre sotto l’ascella e, attraverso il buco, riesce a vedere
le morbide curve di Anne quando avanza verso di lui, con il passo
felpato di una gatta e la stessa aria curiosa.
La ragazza studia lo
sguardo di Phillip e l’espressione rattristata; nel modo in cui
stringe la giacca al petto pare quasi che culli il cadavere del suo
primogenito.
«È solo uno strappo,
Phillip, te la cuciranno.»
Si inginocchia accanto
all’ex drammaturgo e con un colpetto gli picchietta la spalla. È
larga, solida – accanto a Barnum è difficile capirlo, quell’uomo ha
il corpo di una statua greca e tanto charme da poter incantare un
serpente, ma Phillip ha muscoli forti e un fisico prestante.
«I costumisti mi
odiano.»
È tutto quello che ha
da dirle ed è ridicolo.
«Non dire sciocchezze,
i costumisti ti adorano.»
«Ma adorano di più
Barnum e lui li avrà convinti a tenermi sulle spine. Forse dovrei
imparare a cucire. O pagarli più di quanto non faccia lui» aggrotta
la fronte «Sempre che lo faccia.»
Anne nasconde una
risata dietro al dorso della mano. Con l’altra si fa strada tra le
braccia di Phillip, ne scioglie l’incrocio e, con gentilezza,
raccoglie dalle sue dita la giacca.
«Dovresti davvero
smettere con i drammi, non è, nel più assoluto, cosa per te.»
La frecciatina
raggiunge un punto situato tra l’orgoglio e il cuore di Phillip, non
lo uccide, ma gli piace pensare che avrebbe potuto farlo. E
quando solleva lo sguardo su Anne, si premura di farglielo capire
con una smorfia.
La ragazza, però, ride
e si rialza in piedi.
«Andiamo, ti accompagno
dai costumisti.»
Gli tende una mano per
aiutarlo ad alzarsi, ma prima che Phillip la afferri, la voce di
Barnum si fa strada per la pista ricoperta di terra.
«Siete di nuovo
riuscito a strappare la vostra giacca? Se continuate così dovrò
iniziare a detrarre i costi dal vostro dieci percento degli
incassi.»
Phillip sa benissimo
che si tratta di una battuta. Ma Phineas, una volta raggiunti,
allunga una mano verso Anne, reclama la giacca strappata e nello
sguardo che si incrocia brevemente con quello dell’ex drammaturgo,
il più giovane fatica a vedere tracce di ilarità.
Passano otto giorni
prima che Barnum gli restituisca la giacca. Questa volta non c’è
alcun sorriso ad accompagnarlo. Le mani sono coperte da un paio di
guanti e, quando gliela lascia in grembo, perfino quelli sembrano
freddi come l’espressione che gli pianta addosso.
IV.
«MALEDIZIONE!»
La quarta volta Phillip
preferirebbe rimanesse un segreto tra lui e Lettie.
Purtroppo, il tanfo che
si porta dietro è così nauseabondo che l’intero circo sta accorrendo
per scoprire da dove arrivi quell’orribile puzzo di merda.
Letteralmente.
La macchia scura che
gli si apre sulla schiena è inconfutabile e c’è un cavallo, nella
pista del Circo, che batte gli zoccoli a ritmo e nitrisce agitando
la criniera – Phillip ha già capito che sta ridendo di lui. E che
non sarà l’ultimo.
«Lettie, almeno tu…»
La barba non serve a
celare le labbra tremolanti della donna e, alla fine, Lettie scoppia
in una risata fragorosa.
«Dio uccidimi ora.»
«Suvvia, Mister
Carlyle… poteva andare peggio» Lettie riesce a malapena a parlare
tra le risate.
«Non vedo in che modo.
Quello stupido cavallo mi ha calciato letame sulla schiena!»
«Avrebbe potuto colpire
me.»
Phillip non ha nemmeno
la forza di ribattere e – forse – Lettie non ha tutti i torti,
ciononostante non serve a farlo sentire meglio.
Si stropiccia il volto
tra le mani e si rassegna. Lo laverà via.
Sta già tirando un
sospiro di resa, quando Charles lo punta con una sventolata del
braccio, capitanando un intero squadrone di ficcanaso appena
arrivati sul luogo del misfatto. La maggior parte di loro, risolini
a parte, hanno volti preoccupati e per un attimo devono aver davvero
pensato il peggio (l’urlo di Carlyle non è stato, in fondo, dei più
discreti).
Phillip si ritrova ad
indietreggiare ancor prima di riflettere su dove andarsi a
nascondere.
Lettie fa appena in
tempo a gridare «Fai attenzione!» quando la punta dell’uncino
utilizzato come ancora per le corde, incastrato ad uno dei pilastri,
lo artiglia alle spalle.
«Phillip? Phillip stai
bene?» è il coro di voci esploso dal capannello di gente che lo
circonda.
«Dio, te ne prego,
metti fine alla mia miseria» è in momenti come questi che Phillip
rimpiange le serate passate davanti a bicchieri mai vuoti di
whiskey.
Per fortuna non ci sono
ferite, solo un taglio sulla giacca che gli hanno detto essere
perfettamente riparabile… una volta che il letame sarà stato lavato
via, cosa che ha frenato W.D. dal tirargli una pacca di conforto.
Lettie è stata l’ultima
a tornare nel proprio camerino. Ha un nuovo abito di scena che le
stringe troppo il seno e le costumiste devono ancora finire di
sistemarglielo.
Phillip coglie la palla
al balzo.
«Puoi chiedere tu che
me lo riparino? Barnum, per ora, è l’unico che non abbia saputo
della mia disavventura e auspicherei che almeno lui evitasse di
ridermi in faccia» non è tutta la verità e non è nemmeno sicuro che
potrebbe dispiacergli sentire (vedere, ammirare, godere della)
risata di Barnum.
«Lo sai che verrà
comunque a scoprirlo, non è vero?»
«Sì, ma più tardi è,
meglio è.»
«Se lo dici tu.»
Letti accetta con una
scrollata di spalle. Non che accetti quello straccio rosso e
puzzolente nel proprio camerino, se prima non sarà stato lavato e
Phillip le promette che rimedierà.
Non è trascorsa nemmeno
un’ora dall’infelice disavventura con cavallo, letame e giacca di
scena.
P.T. si presenta alla
porta di Carlyle; ovviamente, sa già tutto.
Non ride. Sorride –
cosa che Phillip apprezza, perché il suo sorriso lo riscalda e
quando gli circonda le spalle con un braccio dicendogli che “shit
happens” (è allora che ride) non si cura nemmeno del fatto che
Barnum gli prenda la giacca e si offra di portarla a riparare.
V.
«Barnum?»
«La tua giacca, sì,
ricordo. Solleciterò.»
«Barnum, per caso –»
«Nossignore. Ma vi
prometto che tutta quest’attesa ne sarà valsa la pena.»
«Barnum, inizio a
perdere le speranze.»
«Non dite così, mio
buon Phillip, ormai è questione di poco. Vi fidate di me, no?»
«Fidarsi di voi è
l’ultima cosa che farebbe qualsiasi persona con un minimo di buon
senso.»
«Ma io non l’ho chiesto
a qualsiasi persona. L’ho chiesto a voi.»
Con il capo chino verso
il volto di Phillip, Phineas lo ammalia con il suo sorriso.
L’occhiolino che gli scocca mette un punto alla questione e il
rossore che si diffonde sulle gote del più giovane è la risposta
alla sua domanda.
Barnum è un bugiardo,
un impostore falso come una moneta da tre dollari, ma dargli fiducia
riesce quasi naturale.
Nonostante l’attesa,
tuttavia, la giacca non torna sulle spalle del suo legittimo
proprietario.
Quando Phillip incrocia
uno dei costumisti per chiedergli spiegazioni in merito, la risposta
che riceve non ha alcun senso.
+
Gli spettacoli del
circo si sono susseguiti di settimana in settimana con il ritmo
folle delle idee di Barnum. Lui per primo ha fatto fatica a starvi
dietro e trovare momenti di pace.
Ora che la sera cala su
Manhattan e per un po’ non ci saranno spettacoli a cui pensare,
Phineas tira un sospiro di sollievo –
«Dannazione, che tu sia
maledetta!»
– e un’imprecazione a
mezza bocca.
L’unica luce del Circo
è quella che bagna le pareti e la scrivania del suo ufficio.
Onde rosse e scie
dorate inondano il suo tavolo. Si china e con i denti spezza il filo
di un rocchetto.
Non si accorge dei
passi che si susseguono svelti sul corridoio, finché la porta
dell’ufficio non sbatte.
«Barnum, che diavolo
vuol dire che avete dato disposizione affinché la mia giacca non
venisse riparata dai costumisti? Perché insistete a voler testare a
questo modo la mia pazienza? Non vi ho già provato di essere con voi
in questa –»
Sulla porta spalancata,
Phillip è una visione per gli occhi stanchi di Phineas. Un po’ meno
lo è il suo sguardo riottoso che, mano a mano, si tinge di uno
stupore imbarazzato – Phineas trova adorabile il fatto che il più
giovane, nonostante tutti gli scandali di cui è stato protagonista,
possegga ancora tanto pudore da arrossire come se fosse appena
entrato nella stanza di un bordello. Ma quella non è la stanza di un
bordello e l’uomo non ha sulle cosce alcuna prostituta.
Si passa una mano tra i
capelli, riportandoli entrambi alla realtà con un colpo di tosse.
Sulla scrivania, la
giacca di Phillip è stata riportata alla vita, arricchita di
spalline a frangia dorata. Phineas incastra l’ago, ancora tra le
dita, nel rocchetto. Sorride, senza riuscire a nascondere l’aria
colpevole.
Phillip tace, avanza e
ancora lo guarda con genuino stupore. Ci sono piccoli taglietti
sulle dita lunghe e callose della mano destra di Barnume, quando
l’uomo si accorge del suo sguardo, nasconde la mano in grembo.
«Penserete che sia
vergognoso che il figlio di un sarto sia così maldestro nei
rammenti» commenta.
«Anche.»
Anche non è la
frase che si aspettava. Ma Phillip non ha smesso di avanzare, aggira
la scrivania e spinge il sedere sul bordo. Per una volta è lui a
guardare l’uomo dall’alto.
«Avreste potuto
dirmelo» aggiunge.
«E cancellare
l’immagine dell’uomo perfetto che avete di me?»
«Credo che a malapena
le vostre figlie vi credano ancora perfetto.»
Barnum sbuffa e incassa
il colpo.
Phillip gli raccoglie
la mano destra tra le dita (e gli unici calli presenti sulle dita
perfette di Carlyle sono quelli su indice e pollice causati dalla
stilografica).
«Mi stavo convincendo
che facesse tutto parte di un vostro piano per, non so, scoprire fin
quanto è possibile tirare la corda con un aristocratico.»
Phineas ride
intenerito.
«Avete perfino più
immaginazione di me, Phillip. No, volevo solo che foste perfetto»
abbassa lo sguardo sulla scrivania, seguendo le maniche e le
spalline della propria creazione «e accarezzavo con piacere l’idea
che indossaste qualcosa di mio…» lo dice piano, sottovoce, in un
sussurro che doveva essere un segreto anche per il più giovane e per
un attimo teme di aver detto troppo.
«Capirò se preferite
che lasci anche questa ai costumisti.»
Phillip, però, stringe
ancora la sua mano, con il pollice disegna piccoli cerchi sul suo
dorso in una carezza gentile. La solleva alla bocca e l’impronta del
suo bacio è calda.
«E perdere così
l’occasione di rimproverare direttamente voi per ogni vostro ritardo
nel consegnarmela? Mai. La giacca rimane a voi, Barnum.»
Barnum sorride, senza
vergogna incrocia le dita con quelle di Carlyle. La presa è leggera,
basterebbe un soffio di vento a scioglierla, ma per Phillip non c’è
nulla di più intimo e innocente di quella stretta.
L’indomani la giacca
gli calza alla perfezione.
Per tutto il giorno,
Barnum non smette di sorridere come se la Regina Vittoria gli avesse
appena conferito il titolo di Cavaliere di corte. |